Intervista concessa a ROARS dalla prof.ssa Carla Barbati, ordinario di diritto amministrativo e membro della Giunta di Presidenza del CUN.
IN QUESTI GIORNI SI E’ DATO AVVIO ALLE PROCEDURE PER LE ABILITAZIONI NAZIONALI. PENSA CHE RIUSCIRANNO A COMPLETARSI?
Non posso che augurarmi il buon esito delle abilitazioni. Se la domanda implicitamente si riferisce al cd. rischio ricorsi, nessun sistema di reclutamento ne è esente, come ben dimostra l’esperienza. Tuttavia, è indubbio che il cospicuo apparato regolatorio che domina la fase delle abilitazioni fa immaginare che non soltanto gli esiti delle valutazioni, ma le stesse regole siano a rischio di tenuta. Come si sa, più aumenta il numero delle regole, più si complica il quadro di riferimento normativo, anche in ragione delle difficili convivenze fra tante regole enunciate in momenti diversi e da parte di soggetti diversi, maggiore è il rischio di interpretazioni e applicazioni non corrette. Maggiore è perciò il rischio di ricorsi che possono condurre alla paralisi delle procedure.
TROPPE REGOLE PER LE ABILITAZIONI, DUNQUE?
Purtroppo, sembra ci si sia dimenticati completamente dell’importanza che riveste la qualità della regolazione. La rincorsa del “nuovo” e l’urgenza di dare avvio a queste procedure, non importa come né in quali condizioni, sembrano prevalere su tutto. Se si rilevano le difficoltà, i problemi che possono derivare da questo insieme, spesso disordinato, di regole, se si chiedono correttivi proprio perché sia assicurato il buon esito delle abilitazioni si è accusati di voler bloccare le abilitazioni, di essere nemici della meritocrazia, difensori delle baronie e via dicendo con tutto lo strumentario retorico in auge. Nulla, in sostanza, deve fermare la “gioiosa macchina da guerra” che condurrà al “nuovo mondo”. Certo è che se si pensa che i “criteri e parametri” servono a guidare valutazioni che sono ordinate solo a riconoscere che gli aspiranti professori di prima o di seconda fascia si trovino nelle condizioni minime per poter partecipare alle procedure di reclutamento, è difficile riconoscere una qualche proporzionalità tra ciò che si va stabilendo e richiedendo e la meta da raggiungere. Sembra tutto sproporzionato, come se si fosse perso di vista l’obiettivo, impegnati nel disegnare il sistema perfetto, blindato, che si sa non esiste in natura. Anzi, più lo si insegue più ci si allontana dalla possibilità di perseguirlo. E, in ogni caso, il legislatore o il regolatore deve avere mano leggera, mai pesante, deve praticare il self-restraint.
L’ECCESSO DI REGOLAZIONE E’ PROBLEMA CHE RIGUARDA TUTTA LA RIFORMA?
Sì questo è un problema che non riguarda solo il momento delle abilitazioni. Interessa tutta l’attuazione della riforma. Sembra di confrontarsi con un ordinamento “in deroga”, che non segue più la strada della riduzione delle regole e degli oneri amministrativi connessi, della semplificazione organizzativa e procedimentale o, comunque, dell’amministrazione leggera e che talvolta non segue più neppure i principi che presiedono al sistema delle fonti del diritto. Ma un’innovazione che si affida a cascate di regole affidate a nuovi soggetti, spesso da loro stessi prodotte, a nuove pratiche e a nuovi procedimenti creati ad horas, che si sovrappongono l’uno sull’altro, rischia di trasformarsi in un’innovazione che rimette in scena un’amministrazione del passato, quella che parla tramite regole caotiche, incomprensibili anche a chi le ha scritte e che talvolta si dimentica financo di averle scritte per quante ne ha scritte. Un’amministrazione intrusiva che, per innovare, introduce lacci e lacciuoli, gravami e aggravamenti procedurali asfissianti la cui novità si risolve, spesso, nel solo utilizzo, in alcuni casi costosissimo dal punto di vista degli adempimenti, della forma e della modalità telematica. Ma questo è solo un debole maquillage sotto il quale si cela il volto di un’amministrazione vecchia che è prepotentemente ritornata. Ecco perché, al di là del rischio ricorsi vedo delinearsi un ordinamento di settore che lungi dal migliorare l’efficienza e la qualità del sistema universitario rischia di danneggiarlo gravemente. D’altro canto, già ora si può iniziare la “conta dei danni”: da circa un anno e mezzo, il personale accademico non fa che rincorrere nuovi adempimenti, dedicando ad essi molte energie che forse si sarebbero potuto investire nella ricerca e nella didattica. E molto altro deve ancora accadere: siamo solo agli inizi. Speriamo che i risultati compensino questo straordinario dispiegamento di forze.
CHI E COME POTREBBE RIMEDIARE A QUESTO STATO DI COSE?
Innanzi tutto, occorrerebbe che qualcuno ritornasse a prestare attenzione ai “costi” e alla “qualità” delle regole e questo qualcuno non potrebbe che appartenere all’apparato di governo. Non vorrei che anche in sede governativa vi fosse la preoccupazione di non intralciare la corsa e la rincorsa verso il “nuovo mondo”, temendo di essere a propria volta accusati di volere un “ritorno al passato” se solo si cerca di mettere ordine nelle regole, controllare il loro processo di produzione e verificarne l’impatto. Anche le sedi legislative bene sarebbe esercitassero una qualche funzione di indirizzo e controllo. In sostanza, se i diversi soggetti del sistema istituzionale e costituzionale tornassero ad esercitare ognuno il proprio ruolo, senza timidezze, forse sarebbe possibile rimediare qualche cosa, ma occorre farlo prima che sia troppo tardi. Per ora, mi sembra di udire degli assordanti silenzi.
TORNANDO ALLE ABILITAZIONI, I CRITERI E PARAMETRI INDIVIDUATI DAL CUN SAREBBERO STATI MIGLIORI?
Le soglie o, comunque, i requisiti minimi al quale aveva pensato il CUN, peraltro facendosi interprete di riflessioni che erano state svolte dalle comunità scientifiche, erano più semplici, di facile lettura e applicazione ed erano autosufficienti. Le regole del gioco sarebbero state quelle, fissate nel decreto ministeriale. Non si sarebbero dovute attendere altre regole fissate da altre sedi. E questo di per sé è un valore, in termini di certezza e conoscibilità. A oggi, abbiamo bandi ai quali si è chiamati a fare domanda, sia come commissari sia come candidati, ignorando quali siano tutte le regole del gioco. Se ne conoscono alcune, ma non altre destinate a riempire di contenuto e, probabilmente, anche a modificare in corsa quelle già conosciute. D’altro canto, scorgo molta flessibilità nel muoversi entro il sistema delle fonti del diritto. Direi, dunque, che tutto o quasi tutto è possibile.
COSA PUO’ DIRCI CIRCA I RAPPORTI FRA ANVUR E CUN?
Una premessa, innanzi tutto, di metodo e di merito. Penso che troppo spesso si sia parlato e dibattuto del rapporto fra Anvur e CUN come di un rapporto tra persone. Certo, entrambe le strutture sono composte inevitabilmente da individui e sicuramente le istituzioni come le norme camminano sulle gambe degli uomini, ma non è ancora il tempo per rinviare tutto alle persone. Vi è da definire preliminarmente quali siano i ruoli, le responsabilità di questi apparati, se e quale rapporto reciproco essi possano intrattenere D’altro canto, ANVUR è una struttura di nuova istituzione, chiamata a esercitare funzioni anch’esse nuove, almeno per il nostro sistema universitario. Il CUN è organo da tempo esistente e la cui presenza intende da sempre assicurare la partecipazione ai processi decisionali delle comunità accademiche e scientifiche che vi eleggono i propri rappresentanti. Potremmo dire luogo e strumento dell’autonomia universitaria presso il centro statale. Tutti e due gli organi sono alla ricerca di un proprio ruolo. Lo è l’ANVUR le cui funzioni e i cui compiti sono solo in apparenza definiti. Nella realtà, le riceve o le disegna essa stessa sulla scorta dell’urgenza o del problema del momento, acquisendo nuove fisionomie pressoché settimanalmente tanto che se si volesse delinearne un identikit, in termini giuridici, sarebbe estremamente difficile, ben oltre le atipicità e le eterogeneità che da sempre connotano le Agenzie amministrative. Anche il CUN è alla ricerca di un proprio ruolo in quanto deve, di necessità, ripensarsi ed essere ripensato in relazione a quelle che sono le nuove funzioni alle quali è affidato il governo del sistema universitario.
VUOLE DIRE CHE MANCANO REGOLE CHE CHIARISCANO RUOLI E RESPONSABILITA’ DI ANVUR E DI CUN?
E’ il paradosso dei tempi: in un momento di iper-regolazione del sistema universitario, proprio i soggetti che dovrebbero guidare la riforma o quantomeno collaborare alla sua guida subiscono gli effetti dell’assenza di regole atte a orientarne e, aggiungerei, circoscriverne l’azione. D’altro canto, anche il Ministero non si è ancora attrezzato, né funzionalmente né organizzativamente, a interagire con la riforma e con gli apparati, vecchi e nuovi, che dovrebbero coadiuvarlo. E così abbiamo delle navi che procedono senza carte topografiche, senza bussola, navigando “a vista”. L’ ANVUR sotto l’azione di urgenze, spesso priva di punti di riferimento perché lanciata in acque sconosciute e mai prima percorse. Il CUN che non sa bene se può prendere il largo, quale rotta può percorrere e con quali mezzi. Il Ministero che guarda e sembra, a sua volta, interrogarsi su quale sia la rotta. In questa situazione soffrirebbe di grave miopia istituzionale e peccherebbe di inconsapevolezza di sistema chi intendesse degradare le difficoltà di una siffatta navigazione a quelle di un rapporto fra bizzose comari.
SI ERA PARLATO A UN CERTO PUNTO DI UNA RIFORMA DEL CUN. CI SONO NOVITA’ IN MERITO?
Al momento, nessuna. D’altro canto, ci è stato detto che occorre attendere che si compia il percorso della riforma prima di pensare a un qualche riordino che non solo ci consenta di dialogare con il nuovo sistema universitario ma anche di godere di norme di disciplina non più obsolete come sono le attuali. Dunque, non ci resta che attendere. Non so quanto, dal momento che ignoro quando si riterrà che il percorso della riforma sia compiuto. Uno strano ordine di precedenze, comunque. Inutile dire che, per quanto mi riguarda, avrei preferito che il percorso della riforma si compisse anche con il contributo istituzionale, non solo occasionale o spontaneo, dell’ organo di rappresentanza delle comunità accademiche e scientifiche, sempre che si ritenga che un organo di rappresentanza elettiva debba ancora esistere.
NUTRE DUBBI IN PROPOSITO?
Difficile non nutrire dubbi in merito alla visione che le sedi istituzionali, anche sotto la pressione degli umori mediatici, perciò stesso semplificatori, possano avere di un organo di rappresentanza elettivo delle comunità accademiche. Il discredito del quale queste ultime sono state fatte oggetto non fa ben sperare sulla percezione che si può avere di un organo che le rappresenti, salvo il fatto che poi le stesse comunità scientifiche sono riconosciute come interlocutori diretti dei nuovi soggetti istituzionali. Ma questo più che smentire l’idea che le comunità scientifiche non meritino un ruolo, potrebbe obbedire solo alla massima del “divide et impera”. E’ molto più facile intrattenere rapporti con soggetti sparsi, nati per altri scopi e con altre missioni, come sono le società scientifiche, le consulte, i collegi, spesso non ancora in raccordo fra loro e ancora più facile è interagire con singoli esponenti di quelle comunità che con un organo che le rappresenti unitariamente e in via istituzionale e che partecipi, formalmente, ai processi decisionali. Comunque sia, spero di sbagliarmi e spero perciò che anche il CUN possa giovarsi di un nuovo quadro legislativo che ne riconosca e perciò gli restituisca quel ruolo che proprio la l. n.240 ha iniziato a togliergli nel silenzio e nell’indifferenza generale. Forse, perché già tutti in quel momento guardavano in direzione della nascitura ANVUR. Peccato, perché proprio al buon funzionamento di ANVUR servirebbe un altro organo. La forza del CUN, o di come lo si vorrà o vorrebbe denominare, nel “nuovo mondo”, è la forza di ANVUR e viceversa.
QUALCUNO POTREBBE AFFERMARE CHE QUANDO VI SI AFFIDA UN RUOLO, COME E’ SUCCESSO DI RECENTE DA PARTE DI ANVUR, VOI LO RIFIUTATE.
Sul punto, e sul merito della questione, non ho nulla da aggiungere a quanto è stato scritto, in termini molto chiari, nella mozione approvata dall’organo nella sua collegialità. Mi limito a riflettere sul contesto che questa vicenda, a suo modo, racconta. Un contesto che è il risultato di quanto dicevo, di rapporti che si affidano a iniziative spontanee delle persone, di persone che si stimano e si parlano anche quotidianamente, ma impegnate in una “navigazione a vista”, nel corso della quale capita che si chieda il supporto di chiunque si intravveda, fra le nebbie, sul proprio cammino. Non importa se era proprio chi ti aveva spontaneamente avvertito di non percorrere quella rotta perché lui stesso non avrebbe saputo come aiutarti. Non importa se è l’organo che il legislatore e il governo hanno scelto di non includere in alcun’altra fase delle procedure, reputandolo evidentemente inidoneo. Non importa se è l’organo al quale, contestualmente, non pensi di affidare alcun ruolo nell’ennesima procedura per l’ennesima valutazione delle riviste e dei libri scientifici, tema sul quale, invece, quell’organo aveva svolto riflessioni in passato e dunque qualche contributo avrebbe magari potuto darlo. Anzi, neppure lo coinvolgi nel procedimento volto alla costituzione dell’ennesimo nuovo soggetto di supporto, il Gruppo per le riviste e i libri scientifici, e neppure lo informi dell’avvenuto insediamento. E’ appunto tramite questa navigazione a vista e questo spontaneismo creativo e arruffato, anche di regole, che si cerca di approdare al “nuovo mondo”. Speriamo di riuscirci.