Andare sotto procedimento disciplinare in seguito alla pubblicazione di un post su un blog. Finendo, poi, per dare le dimissioni da docente universitario. No, non è successo a qualcuno dei redattori e dei collaboratori di Roars. La vicenda riguarda invece Liz Morris, docente Linguistica di presso la Nottingham Trent University (UK). Le pressioni esercitate sui docenti universitari del Regno Unito non sono una novità. Sempre la Morris ci ricorda la sospensione di Thomas Docherty e il suicidio di Stefan Grimm. In Italia, i redattori e i collaboratori di Roars non rischiano il posto per quello che scrivono. Sempre che il posto lo abbiano. Ed è comunque degno di nota il caso, finito su Wikipedia, della sospensione – infine annullata dal TAR – della ricercatrice dell’ateneo telematico Unicusano, sospesa per un mese dallo stipendio a causa di un suo articolo su Roars. La vicenda di Liz Morrish fa capire che un blog come Roars farebbe fatica a sopravvivere nel Regno Unito, se non sotto la forma di voci anonime, come quelle ospitate dalla rubrica Academics Anonymous del Guardian. Insomma, oggi Roars c’è. Domani, chissà.
Andare sotto procedimento disciplinare in seguito alla pubblicazione di un post su un blog. Finendo, poi, per dare le dimissioni da docente universitario. No, non è successo di recente a qualcuno dei redattori e dei collaboratori di Roars (anche se il caso della sospensione – infine annullata dal TAR – della ricercatrice dell’ateneo telematico Unicusano, sospesa per un mese dallo stipendio a causa di un suo articolo su Roars è finito su Wikipedia).
La vicenda, raccontata dalla diretta interessata su Times Higher Education, riguarda invece l’accademia britannica:
Liz Morrish: Why the audit culture made me quit
Proviamo a riassumere. Tutto inizia il 14 marzo 2016, Times Higher Education ripubblica con il titolo
I had to tell my students of the pressures we academics face
un articolo che Liz Morris, docente Linguistica di presso la Nottingham Trent University, aveva pubblicato sul suo blog Academic Irregularities.
Come riassunto da un utente di Reddit
Liz Morrish talks about the new pressures that academics face: increased work load, a huge pressure to publish and bring in money, pressures to pass as many students as possible. She states that this is leading to many academics quitting or being medically signed off with stress.
È la stessa Morrish a spiegarci cosa ne era seguito:
after it had received 10,000 hits on my own blog and spent four days trending on THE’s website, my previous employer objected to it and I was obliged to ask for it to be taken down [infatti, l’articolo non è più reperibile in rete, nemmeno sul sito di THE, NdR] This inaugurated a disciplinary process that I felt curbed my ability to write further on the topic, or to have a frank dialogue with students on mental health in universities. So I decided to reclaim my academic freedom – outside the academy.
Per chi si tiene aggiornato, le diverse forme di pressione esercitate sui docenti universitari del Regno Unito non sono una novità. Sempre la Morris ci ricorda la sospensione di Thomas Docherty e il suicidio di Stefan Grimm, di cui avevamo anche riferito su Roars. Fa una certa impressione che il Guardian ospiti una rubrica intitolata
che permette a chi lo desidera di pubblicare un “anonymous blogpost about the trials, tribulations and frustrations of university life“.
Tra i motivi di frustrazione, un posto di rilievo è occupato dagli effetti della managerializzazione sempre più spinta che va di pari passo con l’enfasi data alle metriche e alla raccolta di fondi.
Per molti versi, il modello ispiratrice delle riforme universitarie italiane è proprio il Regno Unito. Non per nulla, la VQR è la brutta copia del REF britannico e la stella polare di tanti macro- e micro-interventi ministeriali è un’aziendalizzazione che nel Regno Unito ha raggiunto uno stadio più avanzato, soprattutto nei rapporti tra manager e docenti.
In Italia, criticare il ministro, l’ANVUR e i rettori può essere scomodo e non porta certo vantaggi. Però, i redattori e i collaboratori di Roars, di norma, non rischiano il posto per quello che scrivono. Sempre che il posto lo abbiano: non saremmo sicuri di poter ripetere l’affermazione per collaboratori e redattori che non godano di stabilità nella loro posizione accademica.
Del resto – scriveva Charles W. Eliot – in una società democratica la libertà del docente va difesa dalla tirannia della maggioranza, o di quel pensiero dominante che in un dato momento storico può manifestarsi con riferimento ad uno qualsiasi dei nodi centrali della conoscenza e del mutevole sistema di credenze accolte in una società sul piano religioso, politico ed economico.
Un rischio cui ovviare – continuava il rettore che fece grande Harvard – prevedendo la tenure of office, ovvero concependo ruoli di insegnamento non sottoposti a termine o rinnovo, l’accesso ai quali è subordinato ad un processo di valutazione rigoroso, preceduto da severi periodi di prova, ma sempre retto in modo esclusivo dalla comunità accademica.
La vicenda di Liz Morrish fa capire che non è detto che sia sempre così.
E fa capire che un blog come Roars farebbe fatica a sopravvivere nel Regno Unito, se non sotto la forma di voci anonime come quelle ospitate dalla rubrica del Guardian.
Insomma, oggi Roars c’è. Domani, chissà.
Art.21 – Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.
E’ vero, ma la prassi suggerirebbe di sostituire il “Tutti” con un più realistico “Alcuni”. Il confine tra libera manifestazione del pensiero
e diffamazione viene stabilito da un tribunale dopo anni di rogne varie e soldi buttati. Quindi, basta fare la voce grossa e non troverai alcuna opposizione/commento.
Ho letto la storia di Morrish e poi riletto quella di Grimm. Puro orrore. Tuttavia quel brano di pensiero attribuito a Eliot “ruoli di insegnamento non sottoposti a termine o rinnovo, l’accesso ai quali è subordinato ad un processo di valutazione rigoroso, preceduto da severi periodi di prova, ma sempre retto in modo esclusivo dalla comunità accademica” non sarebbe in contrasto con i due casi britannici recenti, poiché cos’è la “comunità accademica”? Anche i superiori dei due docenti britannici sono accademici e fanno parte della comunità accademica, come tutti i direttori di dipartimento o i rettori, tutti prof. Mi ha fatto sempre sorridere o comunque fatto riflettere quando qualcuno parlava del giudizio della comunità scientifica, come se questa dovesse pensarla sempre allo stesso modo, nella sua totalità e rispetto a qualsiasi situazione. La comunità accademica stessa è composta da più raggruppamenti variabili di persone che possono benissimo giudicare altri colleghi in maniera diversa se non addirittura opposta, anche sul piano strettamente professionale.
Certamente, purché non lo facciano sulla base del pregiudizio e con argomenti seri. Purché siano persone esperte nel settore e siano credibili nel ruolo di giudici.
E’ questo che non avviene nella comunità scientifica.
Scrivete che “per molti versi, il modello ispiratrice delle riforme universitarie italiane è proprio il Regno Unito”. È del tutto esatto.
Un modello che i governi italiani stanno imitando/importando in vari ambiti, soprattutto scuola, università e sanità. Lo rileva anche Renato Curcio nel suo recente “L’egemonia digitale. L’impatto delle nuove tecnologie nel mondo del lavoro” (Sensibili alla foglie, 2016) dove scrive che “questa è la direzione verso cui probabilmente si avvierà anche l’Italia che sin qui ha seguito le orme delle riforme inglesi” (p. 137).
“Increased work load, a huge pressure to publish and bring in money, pressures to pass as many students as possible” sono diventati esperienza quotidiana nei nostri Dipartimenti, vissuta da parte di pochi con fanatica condivisione, da altri con resistenza e rifiuto, dalla maggioranza con rassegnazione, come se fosse un inevitabile evento naturale. Cosa che ovviamente non è.
È emblematico e molto grave che questa studiosa abbia dovuto subire conseguenze così drastiche proprio perché ha evidenziato il burnout dei docenti.
I decisori politici italiani -provinciali e incompetenti- scimmiottano da troppo tempo le politiche anglosassoni e non soltanto la loro lingua.
In ogni caso, lunga, lunghissima vita a Roars :-)
“Insomma, oggi Roars c’è. Domani, chissà.”
Non spaventateci con queste affermazioni … già succedono cose strane
Non chiederti cosa ROAS può fare per te, ma chiediti cosa puoi fare tu per ROARS.
Molte università inglesi devono vendere un titolo di studio a caro prezzo. Infatti 9 mila sterline annue per un paese che ha un ceto medio bastonato peggio che in Italia, diventano faticose per le famiglie, inoltre il sistema dei prestiti non sta funzionando bene. La rappresentazione commerciale (marketing) degli Atenei vende una presunta qualità inesistente e ai docenti è fatto obbligo di sostenere la narrazione ufficiale. Soprattutto nelle materie STEM la qualità degli “undergraduate” inglesi è molto inferiore agli europei continentali. Le loro università, anche le migliori, sono affamate di studenti di PhD stranieri, perchè la fauna locale ha avuto una formazione di qualità molto bassa. Ho visto ammettere in scuole di punta, italiani che da noi non erano entrati neanche nella “short list” dei posti migliori.
Io vi scrivo in questo momento proprio dall’Inghilterra. Sono qui per un meeting tecnico con una azienda leader nel mio settore (audio technologies), che mi ha invitato a loro spese per valutare la possibilità di un bel contratto di ricerca con la mia università.
Confermo in pieno quel che ha scritto Marcati, il livello di preparazione degli ingegneri inglesi è molto inferiore al nostro, ed infatti qui ce ne sono tanti che sono emigrati… Ed anche francesi e spagnoli, l’università inglese fa abbastanza schifo nel mio settore.
Poi ovviamente invece qui ci sono le aziende ed i soldi, e quindi attraggono “cervelli” da ogni dove.
In realtà soldi ed aziende nel mio settore ci sono anche in Italia, quindi non ci sarebbe alcun bisogno di venire qui, ma questa è un’altra storia.
Qui parliamo di libertà di parola e di metterci nome e cognome. Io l’ho sempre fatto, ed infatti mi firmo per esteso, e basta digitare Angelo Farina su google e mi trovate subito.
Non ho mai capito chi scrive sui forum con uno pesudonimo per proteggere il suo anonimato.
Mio padre mi aveva insegnato cosi’: “se non sei disposto a far sapere a tutti che sei tu a dire o scrivere una cosa, allora non dirla o non scriverla. L’anonimato è da vigliacchi”.
Ovviamente tutto questo è sensato in un paese davvero libero, dove il citato art. 21 della Costituzione viene applicato. Per me sinora è sempre stato cosi’, nessuno mi ha mai penalizzato per aver espresso la mia opinione, che da sempre è tipicamente controcorrente.
Però nella comunicazione conta anche lo stile: il confine fra libera espressione di una opinione e reati quali calunnia, diffamazione, o peggio, può apparire sottile, ma a chi è stato educato in un certo modo, appare invece nettissimo.
E qui debbo affermare un concetto che esprimo anche ai miei studenti: qualunque professione uno faccia, almeno UN esame di diritto lo dovrebbe fare, ed a monte di esso uno dovrebbe conoscere decentemente la nostra lingua.
Senza queste due basi, le nostre sin troppo numerose leggi appaiono incomprensibili, e risulta sostanzialmente impossibile non violarne qualcuna e finire nei pasticci. Il confine della libertà di parola in Italia è molto esteso, ma sempre un confine esiste, e chi lo supera va nei casini, come a mio avviso è giusto che sia.
In altri paesi, con differenti culture, esistono confini diversi, che a noi possono sembrare eccessivamente ristretti: ma ho imparato che questi confronti non hanno molto senso, vanno fatti entrando nel contesto e comprendendo usi e costumi degli altri popoli.
Nella mia vita ho sempre avuto contatti soprattutto col mondo accademico inglese (e marginalmente con quelli francese e spagnolo) ed ho imparato a conoscere e rispettare le profonde diversità rispetto al sistema italiano. In alcuni casi qui in Inghilterra le cose sono migliori, in molti altri sono decisamente peggiori che in Italia.
Ma noi italiani siamo bravissimi a piangerci addosso e lamentarci dei nostri problemi (che sono veri e tanti, per carità), mentre qui gli accademici inglesi (che hanno problemi ben più gravi dei nostri, ad essere obiettivi) continuano a difendere pubblicamente il loro sistema, ed i pochi che se ne lamentano vengono subito emarginati (come è appunto successo nei casi citati in questo articolo).
Forse alla fine in Italia non si sta poi tanto male, visto che c’è chi sta peggio di noi e non può nememno lamentarsene pubblicamente…
Certo, la burocrazia è asfissiante, ma esistono metodi per aggirarla quasi completamente. Non c’è un euro di finanziamento pubblico per la ricerca (ma chissenefrega, quando ti inondano di progetti di ricerca a finanziamento privato, con zero burocrazia, zero rendicontazione, e quel che conta sono solo i risultati).
L’unico reale problema secondo me è il mancato ricambio generazionale, non stiamo facendo entrare nell’accademia i nostri giovani migliori, ce li stiamo facendo portare via dalle aziende o addirittura da altri paesi…
Ma anche per questo discorso non siamo nel posto giusto, mi scuso per le divagazioni.
Confesso che ho un timore per la libertà di parola nei nostri atenei, frutto avvelenato della norma che dà 6 anni di mandato non rinnovabile ai rettori: sono diventati una sorta di prefetti.
Comunque, racconto un episodio: un po’ preoccupato perché il nostro ateneo non tira fuori il regolamento per l’attribuzione degli scatti triennali di stipendio, chiamo un senatore che conosco, e gli chiedo se in senato accademico se ne parli. Mi risponde che in senato accademico non è più molto di moda parlare, che si fa come dice il rettore, che è addirittura in preparazione un regolamento per contingentare gli interventi. Un giorno, aggiunge, il rettore ha fatto un cenno alla questione, manifestando la sua intenzione di elaborare un regolamento che dovrà ottenere il risultato di concederere l’agognato scatto a non più del 50% degli aventi diritto a richiederlo. Con crescente sorpresa, apprendo che dei colleghi hanno già maturato il diritto a chiedere lo scatto, ma non osano protestare per il ritardo nell’emanazione del relativo regolamento.
Non spendo parole ovvie, solo tre sottolineature: 1) per la mia esperienza, non c’è più un rapporto di rappresentanza fra rettori e ‘base elettorale’, il che accentua tentazioni ‘accentratrici’; 2) una cosa che non è mancata mai nella nostra università è la possibilità di parlare e di protestare: ora in tanti hanno paura di esporsi e di ricevere ritorsioni, in termini di possibilità di progressione di carriera o di scatti stipendiali; 3) questa paura è una cartina al tornasole della stoffa della classe docente.
Personalmente, mi sto organizzando (esistono avvocati e sindacati), determinato ad agire per me stesso (ossia: non per che non ha il coraggio di esporsi), anche se da soli o in pochi è più dura e non è il massimo per la serenità.
Sugli scatti triennali vale la pena di informarsi su quanto sta accadendo in tutti gli atenei. E’ utile al riguardo il seguente link:
https://sites.google.com/site/controbloccoscatti/home/regolamenti-degli-atenei-per-la-valutazione-ai-fini-delle-classi-e-degli-scatti-triennali
Spero che Roars viva e che ci sia possibilità di parlare, sempre.
Chi addita punti deboli del sistema aiuta a migliorarlo, specie se il suo non è un atteggiamento disfattista, contro tutti e tutto.
non abbiamo certezze sul futuro di roars ?? Beh c’è chi il futuro se lo è guadagnato ancora prima di laurearsi o addottorarsi… Alle vestali del merito (giannini, Boschi, Madia) il nostro plauso..
Meritocrazia …
Renzi la predica ma chi
la applica è la Madia.
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ps: lunga vita a Roars