L’Italia continua ad essere fanalino di coda in Europa per investimenti in Ricerca, ma la legge di bilancio sembra ignorarlo. Dopo anni di vero e proprio definanziamento degli Enti Pubblici di Ricerca, le risorse stanziate per il finanziamento ordinario sono ancora insufficienti (perfino per il normale funzionamento delle strutture), mentre si ingrossano le fila dei ricercatori con posizioni a termine. L’attività di ricerca, che dovrebbe guardare ad un orizzonte di medio-lungo periodo, risulta così dispersa in mille rivoli, all’inseguimento di bandi per progetti che spesso hanno poco a che fare con l’oggetto originario di indagine. Un contesto, questo, che ne mette in discussione gli stessi presupposti e che, a lungo andare, danneggia competenze scientifiche sviluppate nel corso di anni in campi di elevata specializzazione. Danneggiando infine le prospettive di sviluppo dell’intero Paese, poiché non crea le condizioni per quelle grandi scommesse di innovazione tecnologica che solo un consistente investimento pubblico è in grado di sostenere.
Su Radio Articolo 1
Ne discutono con G. Giannini (Segreteria FlcCgil): B. Buonomo (ricercatore INFN); A. Pinsino (ricercatrice precaria CNR); M. Farina (ricercatrice precaria INAF); D. Palma (economista ENEA)
Conduce: S. Iucci
penso che, almeno nell’ambito tecnico-scientifico, molti precari potrebbero cercare un’occupazione più stabile e remunerativa in azienda (oppure all’estero, cosa che in molti fanno già).
mi chiedo perchè in tanti preferiscano subire vessazioni e angherie in università.
credo che, inoltre, una eventuale e consistente uscita dal sistema dei precari (verso aziende, startup, ad es.) priverebbe l’università di manodopera preziosa e a buon mercato risultando anche più efficace dei soliti scioperi.
Nella nostra disgraziata università ci sono i ricercatori a termine: questi dovevano essere, in origine, figure neolaureate, cui si davano un certo numero di anni di tempo per continuare la carriera universitaria (pochi per definizione) o per andare nel mondo esterno in virtù della qualificazione ottenuta lavorando in Università su problemi di interesse anche per il mondo esterno.
L’egoismo di noi Universitari li ha invece trasformati in portaborse e scrittori di pubblicazioni con un concorso il cui accesso richiede titoli solo accademici che si possono acquisire solo dopo anni di dura schiavitù.
Poi ci sono appunto gli aspiranti ‘ricercatori a termine’ sottoposti ad anni di lavoro non pagato o pagato male mediante assegni di ricerca, borse, dottorato, fatture, etc,etc.
Ogni forma di lavoro di questo tipo, purtroppo, non consente a questi poveri illusi di definirsi precari, perchè ogni forma di lavoro di questo tipo esclude qualunque fattispecie di funzione propria di chi non è precario. Quindi, purtroppo, gli unici precari dell’Università sono formalmente solo i ricercatori a termine.
Lo so che è difficile ammetterlo, ma purtroppo questa è la verità. Un danno incalcolabile e disumano perpetrato nei confronti di persone illuse per anni da chi ha avuto il solo interesse a sfruttarli. Non mi si dica che questi sfruttatori sono credibili nel difenderli, perchè non lo sono. Mentono sapendo di mentire. Sarei consolato se questi illusi almeno se la prendessero con chi li ha sfruttati, ma constato che questo non avviene. Non capisco, ma mi adeguo!
Per i defenestrati dal mondo accademico non è molto semplice trovare una posizione all’esterno. La formazione universitaria è autoreferenziale e la tendenza di molti docenti è formare unicamente propri simili. Sono totalmente digiuni su cosa sia il mondo del lavoro oggi perché per primi non hanno mai dovuto scontrarsi con la realtà è sì sono solo interessati alle loro lotte di quartiere, con comportamenti illeciti ma legalmente riconosciuti. L’unica consolazione è che talmente si è arrivati alla frutta che anche i più irriducibilmente convinti si sono resi conto della follia e girano con la coda fra le gambe.
@Claudio Braccesi:
tutto vero quello che dice Lei,
io aggiungerei solo che in tutti gli anni di precariato l’onere di scrivere tantissimo (paura dei valori soglia) ha prodotto curricula che, sulla carta, sono sovrapponibili a quelli di molti strutturati, ma
1) o non abilitati a causa delle magagne di certe commissioni (in teoria sempre possibili, potere immenso ai commissari di vita e di morte sul candidato)
2) o abilitati ma non chiamati
molti restano fuori dal sistema.
A parità di curricula,
io distinguerei 2 categorie:
1) “L’accademico di diritto” (lo strutturato)
2) “L’accademico di fatto” (molto titolato ma disoccupato).
Tutto questo è possibile perché la politica legittima (lasciando fare, pur sapendo) le azioni ignobili di una buona parte degli “accademici di diritto”.
Chi ha sfruttato lo ha fatto perché la politica glielo permette.
Una politica ipocrita che, a seguito di VQR, eroga meno soldi agli atenei.
Ora, la sanzione per una produttività scarsa e scadente non ricade sui colpevoli (gli strutturati esaminati), ma sulle persone che non potranno essere assunti ma che non hanno colpa, in quanto,
non essendo loro strutturati, non possono essere stati oggetto di VQR.
In altre parole, chi non ha prodotto non subisce sanzioni.
Chi, invece, ha prodotto da precario, non può essere esaminato ma punito sì (meno soldi all’ateneo, meno assunzioni e meno chiamate).
Da ultimo, chi è commissario VQR può punire gli strutturati nemici.
E’ d’accordo?
Si posso essere d’accordo. Ma non è questo il problema. Quello che volevo dire è che ‘gli accademici di fatto’ non avrebbero dovuto esserci. Se ci sono l’unica colpa è degli ‘accademici di diritto’, che magari fanno finta di difendere le ragioni degli ‘accademici di fatto’, ma in pratica sono dei disonesti che li hanno rovinati. La politica è debole. Per le questioni tecniche legate al mondo degli universitari è completamente in mano agli ‘accademici di diritto’ (vedi ANVUR, CRUI, Direttori Generali del MURST, etc) e quindi mi pare ci siano poche speranze.
come se non bastasse,
http://www.repubblica.it/scuola/2017/11/15/news/universita_sempre_piu_precaria_ogni_10_pensionamenti_assunti_meno_di_due_ricercatori_a_tempo_-181182861/?ref=RHRS-BH-I0-C6-P5-S1.6-T1
Questo articolo è di ieri.
Comunque, abbiamo potuto constatare che:
se le manifestazioni vengono promosse dagli ORDINARI (sciopero per scatti), il Governo, perlomeno presta attenzione alla questione.
Certo, gli ordinari, rappresentando una istituzione, quindi sono interlocutori del Governo e possono anche fermare la “macchina universitaria”
Se, invece, scendono in piazza i precari, non rappresentando NULLA agli occhi del Ministro, non sono degni, purtroppo, di essere considerati (protesta inefficace fin dal suo concepimento)
ERGO:
Se si vogliono difendere le ragioni dei precari, DEVONO MANIFESTARE GLI ORDINARI.
Coraggio ORDINARI, dimostrate che per voi non esistono solo gli scatti ed i soldi!!!!!!!!!!!!!!!!
Volevo unire la mia voce a quella di Braccesi e esprimere il mio piu’ fermo disaccordo con l’articolo su Repubblica di ieri. Finche’ non iniziamo a usare le parole giuste, non ne veniamo di certo fuori.
Usare una retorica inappropriata, parlando di “precari” in relazione a dottorandi o a postdoc, e’ offendere delle persone che stanno facendo dei percorsi individuali ben precisi; sia loro, sia gli altri.
“Collaboratrice domestica” e’ un termine piu’ rispettoso di “assegno di ricerca”, in quanto individua la funzione e non il modo in cui la persona viene pagata. Il termine giusto e’ “postdoc”.
Secondo me l’unica distinzione ragionevole in ambito accademico e’ PhD da una parte e faculty dall’altra, che include postdoc e ricercatori. Il resto e’, a mio sentire, un abuso.
Ma stiamo scherzando? O non ho capito? Adottare una distinzione in cui un ordinario è indistinguibile da un postdoc, perché entrambi faculty? Magari perché “stiamo facendo percorsi individuali indistinguibili”? La logica del Jobs Act ha davvero avvelenato i pozzi se non si è più in grado di distinguere tra personale precario e personale strutturato.
Caro Alberto, grazie per la risposta. E’ di sicuro colpa mia e scusa che sono stato troppo tranchant. Non voglio dire che dal punto di vista del salario o delle garanzie economiche sia lo stesso essere un prof o un postdoc; spero non sia necessario elaborare il punto ulteriormente, e’ ovvio.
Cercavo di parlare di ruoli scientifici: dal punto di vista del rispetto che le persone devono godere, un postdoc (che ha concluso la sua formazione accademica) deve essere in condizione poter dare il contributo alla scienza, tanto quanto un professore strutturato. Il postdoc deve ricevere rispetto considerazione e risorse. In Germania ha lo stesso stipendio da almeno 20 anni a questa parte, te lo dico per esperienza. Poi evidentemente, un postdco non avra’ la notorietà, la reputazione che ha un professore; ma questo non deve essere un ostacolo ma una condizione che si spera sia transitoria, e che e’ compensata dal drive e dalla gioventù. Mi sto rifacendo alla distinzione di faculty e non faculty, a cui in Italia non siamo molto abituati. Io credo che se cominciassimo a dare ruoli e considerazione a chi e’ trattato malissimo, gia’ nel modo in cui viene chiamato (cheque of research!!!!); se cominciassimo a parlare di piu’ di scienza e di innovazione e di meno di soldi e di politica, credo che ne guadagneremmo. Del job act, scusami tanto, non so molto; quello che so, invece, e’ che nel resto del mondo, il percorso PhD postdoc tenure track recruitment funziona. Mi dai una buona ragione per cui da noi deve essere invece sclassificato sotto la voce “precari”? Un caro saluto, Francesco
Nell’uso del termine “precari della ricerca” non c’è nessuna squalificazione del ruolo. C’è il riconoscimento che siamo di fronte a lavoratori (della conoscenza). E c’è la constatazione della condizione contrattuale oggettiva in cui si trovano questi lavoratori. Nel mondo dell’università questo significa che l’incertezza sul futuro mette il precario in condizione di inferiorità oggettiva (direbbe Marx, credo, in termini di potere) rispetto al loro PI (leggi boss di riferimento). Questa disparità di potere è tanto più forte quanto peggio funziona il mercato del lavoro accademico (cioè quanto più è difficile raggiungere una tenure).
La parola faculty rende semplicemente tutto grigio. Proprio come accade con il jobs-act: tutti lavoratori qualsiasi sia il contratto di riferimento (voucher, tirocinio, TD). Faculty non permette di cogliere la distinzione tra strutturati e non-strutturati. Che a mio avviso è la distinzione chiave per capire il funzionamento dell’università contemporanea.
Sul punto è appena uscito questo. Sicuramente da leggere: http://www.ephemerajournal.org/
Mi sa che siete troppo sofisticati. Faculty o non Faculty i cosiddetti precari ( che secondo me non hanno titolo per definirsi tali) sono dei disgraziati sfruttati ed illusi. Un sistema sano non li produce. Questo è il punto.
I precari sono prodotti in tutto il mondo, il problema è la capacità di assorbimento (o mercato del lavoro) del nostro sistema che è drammatica. Qui una analisi della situazione in US https://www.nature.com/news/the-future-of-the-postdoc-1.17253
Caro Alberto, so bene che ci sono delle lotte da fare per migliorare il sistema, e sono certo tu faccia lo stesso il possibile per garantire e aumentare le tutele per quelli che tu chiami “precari”; credimi, o meno, faccio lo stesso. Pero’ mi sembra che la nostra discussione non sia arrivata ancora ad un chiarimento.
Nel tentativo di fare un passo avanti, provo ad adottare la terminologia dell’articolo di Repubblica, quella che pretende di includere tra i “precari” PhD, postdoc, tenure track (la quale, lasciami ripetere, mi trova in assoluto disaccordo).
Non sono certo che una famiglia preferisca sentir chiamare suo figlio o sua figlia “assegno di ricerca” invece che “postdoc”. Mi piacerebbe sapere se un contribuente sia piu’ contento di pagare un “precario” piuttosto che un “phd”. Oso dubitare che un titolare di un azienda sia in grado di capire che un giovane trentenne sia qualificato quanto un professore universitario, quando i giornali lo chiamano “precario della conoscenza”. Personalmente mi sarei imbufalito se qualcuno mi avesse chiamato “precario” mentre facevo il PhD, il postdoc o il tenure track. Qualcuno crede un barone soffra minimamente a chiamare “precario” un suo collega, qualifica che in ambito accademico significa “tu sei inferiore a me”? O che lo stesso barone sia propenso a riconoscere ad un postdoc di essere un membro del corpo accademico, riconoscendogli pieno diritto di impostare le linee di ricerca e di accedere alle risorse necessarie?
PS sono invece del tutto d’accordo con Francesco Sylos Labini
Uno dei motivi per cui (in tutto il mondo e in Italia ancor peggio) il percorso PhD-postdoc-tenure track-recruitment si è ingrippato è che le università fanno affidamento in modo sempre più esteso su PhD e postdoc per la didattica e la ricerca (ma anche per la terza missione). Forza lavoro a basso costo e facilmente smobilitabile, proprio per la sua natura precaria. Le rivendicazioni degli “adjunct professors” statunitensi sono un caso emblematico:
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https://www.roars.it/homeless-prof-nelle-universita-usa-il-76-dei-professori-sono-precari-spesso-sotto-la-soglia-di-poverta/
http://www.theatlantic.com/business/archive/2014/04/the-adjunct-professor-crisis/361336/
https://www.roars.it/il-25-febbraio-i-docenti-precari-usciranno-dalle-aule-per-protesta-negli-usa/
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PhD, PostDoc e RTDa sono ormai indispensabili per mandare avanti laboratori e tenere in piedi corsi di laurea. Come in molti altri settori, il ricorso al lavoro precario permette di ridurre i costi e/o di continuare ad erogare servizi nonostante i tagli.
Caro Giuseppe concordo che sono quelli i veri punti da affrontare: 1) quali sono i ruoli che debbono svolgere (e quelli che non devono) PhD postdoc e tenure track 2) come garantire i loro ruoli, a chi si possono appellare se non sono garantiti 3) come evitare che questi percorsi si traducano in una tonnara (cioe’ che diventino davvero “precari”)
Andrebbe tenuto in mente un percorso ragionevole, tipo, laurea 24 anni+phd 27+ postdoc 31+tenure track 34; bisognerebbe mirare a dare i posti permanenti tra i 32 e 38 anni. Il singolo e anche i colleghi piu anziani dovrebbero considerare allarmante deviazioni da queste situazioni di riferimento.
Poi, secondo me e’ essenziale riconoscere che un PhD deve crescere e deve idealmente diventare un ricercatore indipendente alla fine del percorso (o prima) che in Italia dura solo tre anni; che deve avere tempo di fare ricerca ed essere aiutato per questo; che NON deve insegnare all’università come regola se non per percorsi brevi e mirati anche alla sua crescita.
Inoltre, un postdoc e’ un ricercatore. Deve avere accesso alle risorse e non deve essere sotto ricatto; e soprattutto deve essere pagato molto bene, anche perche’ non e’ strutturato (cosa che avviene in altri paesi del mondo).
Infine il tenure track deve essere per 3+2, in modo che in mancanza di conferma dopo il terzo anno, deve avere 2 anni per riposizionarsi. E ovviamente devono essere pagati bene.
Raramente in Italia ho sentito difendere l’idea che i postdoc e tenure devono essere pagati molto bene. Molto piu facile sentire dire: ma certo e’ un prof. va pagato meglio. Penso che dovremmo combattere per aumentare gli stipendi di quelli che non hanno un posto fisso, perche’ se lo meritano come i prof.
Sempre nella giornata di ieri, 15 novembre:
https://www.ilfattoquotidiano.it/2017/11/15/mi-arrendo-distruggete-pure-luniversita-pubblica-italiana-senza-di-me/3977547/
Come vedete anche i docenti ne parlano.
Silenzio solo dal Ministro, dai politici, dal Governo, dal Parlamento e dal Pres. della rep.
Diciamo la verità. Nelle scienze dure (o barzotte) i precari non esistono: in capo a un paio d’anni son tutti dentro, alcuni essendosi anche presi il lusso di fare qualche annetto di vacanza all’estero. Nelle scienze molli (ehm) ci vuole un po’ più di pazienza e genitori moderatamente benestanti. Io sono uno scienziato non molle ma mollissimo, figlio di professori di scuola media e ho campato un decennio con la borsa Eriberto (assegno mensile dei miei genitori), ora sono PA abilitato PO. Quindi, giovani, non state a sentire quelli che vi dicono che ogni strada è chiusa: sono esattamente gli stessi discorsi che sentivo io nei primi ‘90.
Oltre ad ascoltare discorsi, bisognerebbe anche guardare ai fatti. E la situazione degli anni novanta era molto diversa da quella post-2005. Questi i numeri del reclutamento dal 1990 al 2015. https://riviste.unimi.it/index.php/roars/article/view/6726/6836

Touché. Comunque, fatti per fatti, provi a controllare sul database cineca il personale docente di L-LIN/18 (lingua e letteratura albanese, con tutto il rispetto non stiamo parlando di ricerche oncologiche) aggiornato al 31/12/2000 e aggiornato al 31/12/2016. Niente male, eh?
Docenti complessivamente passati da 0 a 7 nel periodo. Quindi?
Quindi: dal 2000 al 2017 si saranno formati in Italia non più di 8 studiosi di letteratura albanese, i quali avranno passato la vita a sentirsi dire come ci campi con letteratura albanese. Uno avrà creduto a queste voci e ha mollato, gli altri sono andati avanti e son tutti dentro. Se l’ottavo non stava a sentire le cassandre era dentro pure lui.
A volte mi stupisco del fatto che ci si stupisca, se siamo il paese che consente ai professori ordinari in pensione di fare gli straordinari e rubare i posti ai (relativamente) giovani abilitati addirittura con 2 decreti ministeriali (https://www.roars.it/tutti-straordinari-ovvero-lennesimo-regalo-del-ministro-alle-telematiche/)
Che altro vogliamo, che può e riesce deve andare all’estero, per gli altri meglio cercare da subito un lavoro che vivacchiare di illusioni.