Abbiamo già visto nel primo atto cosa comporterebbe l’uscita delle università dalla Pubblica Amministrazione: «Dopo una decina di anni tutti sarebbero a rimpiangere com’era prima e, nel frattempo, avremo paralizzato definitivamente le Università statali e provocato nuove voragini nei conti pubblici». Una seconda possibilità, esplorata nel secondo atto, potrebbe essere quella di mantenere l’attuale natura giuridica delle Università statali, eliminando semplicemente alcuni dei vincoli impropriamente introdotti. In questo terzi e ultimo atto, consideriamo una terza soluzione, ovvero quella di rimettere mano alla definizione di PA data dalla Legge di contabilità e finanza pubblica del 31 dicembre 2009, n. 196. Giungendo alla conclusione che …
Segue dall’atto I (Madama Butterfly) e atto II (Conti, e conti sempre, e fortissimamente conti).
Una terza soluzione potrebbe essere quella di rimettere mano alla definizione di PA data dalla Legge di contabilità e finanza pubblica del 31 dicembre 2009, n. 196.
Sarebbe quindi necessaria una nuove legge contenente:
le delimitazioni del “perimetro pubblico” con le diverse nozioni di pubbliche amministrazioni, al fine di agevolare l’individuazione dei destinatari delle norme. Le definizioni introdotte non [dovranno riguardare] soltanto l’ambito di applicazione della presente legge, ma anche quello di tutte le future disposizioni normative che vi faranno espresso riferimento. In questo modo, si offrirà al futuro legislatore uno spettro di definizioni di diversa ampiezza, che gli consentiranno di scegliere consapevolmente l’ambito di applicazione delle disposizioni normative in materia, in relazione alla logica e allo scopo delle norme.
Qualcuno ci ha già pensato. Queste esatte parole si leggono infatti nella Relazione al disegno di legge n.1577 Riorganizzazione delle Amministrazioni Pubbliche, proposto dal PD e a cui il documento La Buona Università e la Buona Ricerca più o meno esplicitamente guarda.
Il DDL è stato già approvato in Senato e si trova attualmente in discussione alla Camera dei Deputati.
Si tratta di un provvedimento a effetto potenzialmente molto forte, sul quale il Governo sta puntando con decisione e del quale – a quanto mi risulta – il CUN si è più volte occupato.
Nella versione originale presentata al Senato la finalità dichiarata all’art.1 era:
ridurre la necessità dell’accesso fisico dei cittadini alle sedi degli uffici pubblici.
Di fatto il DDL impatta su molte cose, quali l’Amministrazione digitale, i livelli minimi di qualità, i procedimenti amministrativi, le conferenze di servizi, il silenzio assenso tra amministrazioni, le segnalazioni certificate di inizio attività (SCIA), l’autotutela amministrativa, le disposizioni in materia di anticorruzione, la pubblicità e la trasparenza, la riorganizzazione dell’amministrazione dello Stato, il riordino delle camere di commercio, e tantissime altre materie che con l’Università e la Ricerca non c’entrano praticamente nulla.
L’art. 8 era inizialmente dedicato alle definizioni di PA, distinte nelle seguenti categorie al fine dell’individuazione dell’ambito di applicazione delle disposizioni normative che vi facciano espresso riferimento:
a) amministrazioni statali; b) amministrazioni nazionali, c) amministrazioni territoriali, d) amministrazioni di istruzione e cultura; e) amministrazioni pubbliche; f) soggetti di rilievo pubblico; g) organismi privati di interesse pubblico.
Per ciascuna delle definizioni il DDL prevedeva la redazione di un elenco, da aggiornarsi annualmente con Decreto del Presidente della Repubblica. L’elenco ISTAT della PA sarebbe stato così superato, rimanendo valido per le sole finalità statistiche.
Le Università erano ricomprese nella categoria d) così descritta:
«amministrazioni di istruzione e cultura»: le scuole statali di ogni ordine e grado, le università statali, gli istituti di istruzione universitaria a ordinamento speciale, le istituzioni dell’alta formazione artistica, musicale e coreutica, le istituzioni educative pubbliche, gli enti pubblici nazionali di ricerca, i musei, gli archivi e le biblioteche dello Stato e delle amministrazioni territoriali;
Non compariva mai la parola “autonomia” e, incredibilmente, le Università erano inserite insieme alle scuole, agli archivi e alle biblioteche, con un’interpretazione quantomeno curiosa dell’art.33 della Costituzione.
Ai fini dell’uscita dalla PA la nuova classificazione era comunque del tutto irrilevante, in quanto la categoria d) risultava integralmente ricompresa nella più generale categoria e):
«amministrazioni pubbliche»: le amministrazioni nazionali, quelle territoriali, quelle di istruzione e cultura, nonché gli ordini professionali [sic];
Inoltre nel testo dell’art.8 la finalità della riclassificazione era diventata sfumata e generica. La chiarezza di intenti enunciata nella Relazione di accompagnamento si era così già persa per strada nell’articolato, per cui probabilmente la trasformazione in legge del DDL non avrebbe determinato alcun beneficio in termini di offerta al futuro legislatore [di] uno spettro di definizioni di diversa ampiezza, che gli consentiranno di scegliere consapevolmente l’ambito di applicazione delle disposizioni normative in materia, in relazione alla logica e allo scopo delle norme.
Con lo smarrimento della finalità specifica, si era addirittura ingenerato il paradosso per cui la nuova classificazione si ricollegava alla finalità iniziale del DDL, ovvero la riduzione della necessità dell’accesso fisico dei cittadini alle sedi degli uffici pubblici.
Forse qualcuno aveva segretamente deciso che il futuro dovesse essere riservato alle sole Università telematiche? Oppure che professori, ricercatori e personale tecnico-amministrativo dovessero dedicarsi solo al telelavoro?
Più probabilmente si trattava dell’ennesimo brutto pasticcio burocratico, come dimostrato dal fatto che nella Commissione Affari Costituzionali del Senato l’articolo 8 è stato soppresso e che anche la finalità dichiarata all’art.1 è stata modificata.
L’impostazione di fondo purtroppo rimane invariata e penso proprio che un approccio burocratico sia quanto di meno possa servire per liberare la PA dalla burocrazia.
La nuova classificazione della PA è quindi morta prima di nascere, ma il suo spettro aleggia ancora.
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Considerata quindi la difficoltà nel definire con una nuova legge le varie componenti della PA, l’obiettivo potrebbe essere limitato alla sola Università, per stabilire una volta per tutte la sua natura e la sua specificità all’interno della PA.
Proviamo ad analizzare l’attuale “natura giuridica” delle cosiddette Università statali. Eminenti esperti di Diritto Amministrativo le considerano “Enti pubblici non territoriali autonomi”.
L’autonomia è garantita dalla Costituzione:
Le istituzioni di alta cultura, università ed accademie, hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato (art.33).
Essa è poi specificata dalla Legge 9 maggio 1989, n. 168:
Le università sono dotate di personalità giuridica e in attuazione dell’art. 33 della Costituzione hanno autonomia didattica, scientifica, organizzativa, finanziaria e contabile; esse si danno ordinamenti autonomi con propri statuti e regolamenti (art. 6 comma 1).
La Corte di Cassazione civile a sezioni unificate con sentenza del 10/05/2006 n. 10700 ha confermato che:
Alle Università statali, dopo la riforma introdotta dalla legge 9 maggio 1989 n. 168, non può essere riconosciuta la qualità di organi dello Stato, ma quella di enti pubblici autonomi.
Per qualche strana bizzarria del Diritto Amministrativo sembra proprio che le Università statali non siano statali, ma siano piuttosto simili alle Regioni autonome o alle Province di Trento e Bolzano! Anzi meglio, non sono nemmeno enti territoriali, ma solo autonomi. Gli esperti la chiamano “autonomia funzionale“.
Quindi, sulla base della propria natura giuridica, l’Università è sì parte integrante della PA, ma con la seguente specifica: “Pubblica amministrazione non statale a ordinamento autonomo”.
Molto meglio di Trento e Bolzano. Meglio anche di società Expo 2015 Spa, senza nemmeno il bisogno di una nuova norma di protezione ad hoc.
Nelle attività istituzionali le Università sono rigorosamente autonome: lo dice ancora l’art.33 della Costituzione quando garantisce la libertà dell’arte e della scienza e del loro insegnamento. Lo ribadisce addirittura la Legge 30 dicembre 2010, n. 240 – cosiddetta “riforma Gelmini” – che prima di perdersi nella burocrazia, nella numerologia e nelle vessazioni, iniziava proprio bene:
Le università sono sede primaria di libera ricerca e di libera formazione nell’ambito dei rispettivi ordinamenti. Ciascuna università opera ispirandosi a principi di autonomia e di responsabilità, in attuazione delle disposizioni di cui all’art. 33 e al titolo V della parte II della Costituzione. (art. 1, comma 1).
Autonomia e responsabilità: due concetti che è giusto accomunare, perché è proprio l’autonomia senza responsabilità che nel passato ha generato molti dei problemi che hanno poi attirato sulle Università norme punitive le quali, a loro volta, hanno svuotato l’autonomia senza peraltro riuscire a introdurre la responsabilità.
Pare che al MEF, al MIUR e al Ministero per la PA, invece siano rimasti un po’ indietro con i tempi. Addirittura al Regio decreto del 31 agosto 1933, n.1592: il Testo Unico fascista delle Leggi sull’Istruzione Superiore. Esso in effetti non risulta essere mai stato abrogato e all’art.1 recita:
le Università e gli Istituti hanno personalità giuridica e autonomia amministrativa, didattica e disciplinare, nei limiti stabiliti dal presente Testo Unico e sotto la vigilanza dello Stato esercitata dal Ministro dell’Educazione Nazionale.
Come si legge tuttavia sul sito dell’Avvocatura dello Stato:
Il presente provvedimento, sebbene mai esplicitamente abrogato, è da ritenersi ormai superato, per effetto della legislazione successiva di settore. Vedi d.p.r. 11 luglio 1980, n. 382; d.p.r. 4 marzo 1982, n. 371; d.p.r. 10 marzo 1982, n. 162; l. 29 gennaio 1986, n. 23; d.l. 2 marzo 1987, n. 57, conv. in l. 22 aprile 1987, n. 158; l. 9 maggio 1989, n. 168; l. 30 novembre 1989, n. 398; l. 19 novembre 1990, n. 341; l. 29 luglio 1991, n. 243; l. 2 dicembre 1991, n. 390; art. 5, l. 24 dicembre 1993, n. 537; d.lg. 16 aprile 1994, n. 297; d.m. 4 ottobre 1994, n. 771; d.p.r. 1° febbraio1996, n. 167; art. 17, l. 15 maggio 1997, n. 127; d.m. 21 luglio 1997, n. 278; d.p.r. 2 dicembre 1997, n. 491; d.p.r. 27 gennaio 1998, n. 25; d.m. 3 febbraio 1998, n. 21.
La vigilanza ministeriale sulle Università è quindi da ritenersi superata, grazie alla successiva legislazione che limita le funzioni del MIUR al solo indirizzo e coordinamento.
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Ricapitolando, le Università sono enti pubblici non statali a ordinamento autonomo, in molti casi non godono ormai più di prevalente finanziamento pubblico, non impattano sul debito né sul disavanzo ma anzi contribuiscono alla crescita del PIL secondo il vigente SEC2010, devono operare ispirandosi a principi di autonomia e di responsabilità, si danno propri statuti e regolamenti, eleggono o nominano autonomamente i propri organi e rappresentanti, non sono controllate né vigilate dal Ministero.
Un po’ tutti chiedono di essere esclusi dai vincoli della Legge di contabilità e finanza pubblica del 31 dicembre 2009, n. 196, dal famigerato elenco ISTAT e, soprattutto, da tutte le sciagurate norme a esso ricollegate, cercando condizioni speciali per rimanere nella PA.
Sulla base delle precedenti considerazioni noi universitari dovremmo essere i primi a pretendere un trattamento speciale all’interno della PA proprio in forza delle prerogative speciali garantite dalla Costituzione, dalla Legge, dal buon senso e dalla necessità di non porre inutili freni allo sviluppo economico, sociale, civile e culturale del nostro Paese.
Quello che veramente sarebbe necessario per liberare l’Università dai vincoli impropri della PA sarebbe, a mio modesto parere, un semplicissimo articoletto di legge così formulato:
Nel rispetto dei principi di autonomia stabiliti dall’articolo 33 della Costituzione e specificati dalla legge, le università sono disciplinate, oltre che dai rispettivi statuti e regolamenti, esclusivamente da norme legislative che vi operino espresso riferimento.
Per chiarire bene una volta per tutte ai burocrati ministeriali il concetto di autonomia, sarebbe inoltre assolutamente indispensabile specificare in fondo:
È esclusa l’applicabilità di disposizioni emanate con circolare.
Ma guarda un po’! Questo c’è già: è esattamente l’art.6 comma 2 della Legge 9 maggio 1989, n. 168.
Grazie ad Antonio Ruberti.
In conclusione, pensandoci bene, la cosa migliore da fare è proprio quella di lasciare tutto com’è, senza introdurre alcuna nuova norma e pretendendo semplicemente l’applicazione delle leggi che già ci sono.
Che Dio protegga l’Università e la Ricerca dalle riforme e dai riformisti.
“Non è davvero il momento di star a discutere chi di noi sia più colpevole! L’importante è questo, che è venuto per noi il momento di salvare il nostro paese; che perirà, il paese nostro, non più per l’irruzione di venti popoli stranieri, ma per opera di noi stessi; che ormai, accanto alla legale amministrazione della cosa pubblica, è venuta a formarsi una seconda amministrazione, assai più potente di quella legale […] E nessun reggitore di stato, fosse pure il più sapiente di tutti i legislatori e reggitori, non avrà il potere di correggere il male, per quanto si affanni a limitarne l’esplicazione da parte dei cattivi impiegati, imponendo a costoro la sorveglianza d’altri impiegati […] Come russo, come uomo legato a voi dalla parentela del sangue, d’uno stesso sangue col vostro, io ora mi rivolgo a voi. Mi rivolgo a chi fra voi abbia una qualche comprensione di ciò che significhi nobiltà di pensieri. Io vi esorto a ricordare il dovere che, qualunque sia il suo posto, incombe all’uomo. Io vi esorto a considerare più da vicino il vostro dovere e le obbligazioni della vostra missione terrena, poiché è questa una cosa che a tutti noi si presenta in modo confuso, e noi ben difficilmente…” (Nikolai Vasilievich Gogol, Le Anime Morte, epilogo incompiuto)
Firenze, 9 maggio 2015 (Anniversario della Legge Ruberti)
Nicola Casagli
Giustissimo il richiamo alla Legge 9 maggio 1989, n. 168.
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Ma questo non mette al riparo da leggi che, ricordandosi dell’ eccezione, mettono l’ esplicito riferimento (cfr legge di stabilita’ 2013 e conseguente estensione all’ Universita’ dell’obbligo di passare per MEPA).
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Inoltre evidenzia l’ insipienza della maggior parte dei Rettori e Organi di Governo che, invece di vigilare sull’ autonomia e difenderla, si piegano senza combattere ad ogni assimilazione d’ufficio dell’ universita’ al resto della PA.
Sulla questione del MePa ho già scritto VeryMePa (https://www.roars.it/verymepa/).
Nella legge di stabilità 2013 l’esplicito riferimento all’Università c’era proprio per riconoscerne le particolari specificità, rimandando la questione MePa a delle linee guida da adottare con decreto del MIUR. Queste non sono mai state emanate per cui, poiché la norma prevede una disposizione specifica sulle Università, l’obbligo dell’utilizzo del MePa per le Università non sussiste a norma di legge.
Il presunto obbligo del MePa per le Università scaturisce invece dalla cosiddetta “circolare Grilli”, ovvero dalla circolare MEF n. 2 del 5/2/2013 (http://www.rgs.mef.gov.it/_Documenti/VERSIONE-I/CIRCOLARI/2013/Circolare_del_5_febbraio_2013_n_2.pdf) che fornisce un’interpretazione distorta e forzata delle norme introdotte dalla legge di stabilità 2013.
Sappiamo però che per le Università “è esclusa l’applicabilità di disposizioni emanate con circolare.” Quindi la circolare Grilli semplicemente non si dovrebbe applicare e, molto probabilmente, l’obbligo del MePa non sussiste proprio.
Il MIUR non mi risulta che si sia mai espresso sulla questione.
Sono invece intervenuti la CRUI timidamente (http://www.crui.it/HomePage.aspx?ref=2199#) e il CUN con decisione (https://www.cun.it/uploads/5030/semplifica_università_attoprimo.pdf?v=).
Il documento del PD sulla Buona Università e Ricerca (https://www.roars.it/wp-content/uploads/2015/04/la-buona-universita_ricerca_Rev.pdf) cita “l’obbligo ad usare Consip o strumenti di acquisto analogo” fra gli “esempi eclatanti” di carichi burocratici impropri e di “norme che uccidono la ricerca italiana”.
La soluzione prospettata però è “l’uscita dell’Università dal campo di applicazione del diritto amministrativo (cioè dalla pubblica amministrazione)”.
Mi pare che non sia stata colta la vera natura del problema, su questa come in tante altre cose.
Articolo interessante, ma conclusione discutibile.
A me risulta infatti che le Universita’ Statali rientrano nel novero delle amministeazioni dello Stato, come stabilito dal Consiglio di Stato a confutazione della citata sentenza della Cassazione in merito al patrocinio obbligatorio da parte dell’Avvocatura di Stato per le amministrazioni statali.
Infatti il Consiglio di Stato, con sentenza n. 6016/2006, ha cosi’ concluso:
– in virtù del combinato disposto degli artt. 43, t.u. 30 ottobre 1933, n. 1611, e 56, r.d. 31 agosto 1933, n. 1592, riguardanti la rappresentanza dell’Avvocatura erariale per le Università, queste ultime non esulano dal novero delle amministrazioni dello Stato, e sono quindi rappresentate in giudizio ope legis dall’Avvocatura dello Stato e presso di questa deve essere notificato il ricorso giurisdizionale amministrativo;
– la riconosciuta autonomia universitaria non ha in alcun modo
toccato né la natura pubblica delle Università, né la regola del patrocinio dell’Avvocatura erariale;
Da questa sentenza, successiva a quella della Cassazione, ed emessa da organo giudicante gerarchicamente superiore ad essa, si deduce che le Universita’ Statali, per quanto amministrazioni del tutto autonome, sono comunque pienamente da ricomprendersi fra le amministrazioni statali.