È il momento di pronunciarsi sulle procedure AVA anche per la Conferenza per l’Ingegneria, che raccolto il testimone della precedente Conferenza dei Presidi di Ingegneria. Il documento, che segue un’analoga presa di posizione della Conferenza delle Facoltà e Scuole di Medicina e Chirurgia mette in guardia dai pericoli della burocratizzazione esasperata e insensata, segue iniziative analoghe portate avanti presso le Università di Roma Tor Vergata, di Padova, di Siena, Pavia e Parma, nonché i documenti della CRUI e del CUN, un’interrogazione parlamentare e l’ironica lettera di Luigi Frati, Rettore della Sapienza di Roma.
CONFERENZA PER L’INGEGNERIA
Considerazioni sulle Linee Guida per l’Accreditamento
periodico delle Sedi e dei Corsi di Studio
La Conferenza per l’Ingegneria ha attentamente analizzato le LINEE Guida per l’Accreditamento periodico delle Sedi e dei Corsi di Studio emanate dall’ANVUR e appena pubblicate.
La lettura delle 57 pagine che costituiscono il documento induce la Conferenza a rivolgere con urgenza al Ministero ed all’ANVUR le considerazioni e le richieste che seguono.
Nella piena consapevolezza che:
- il compito importante e gravoso affidato all’ANVUR risponde all’esigenza di valorizzare la qualità didattica e scientifica delle Università e di favorire per quanto possibile un uso ottimale delle risorse disponibili;
- il contesto nel quale ci si trova ad operare risente di annose stratificazioni legislative non sempre coerenti tra loro e in continua evoluzione;
preoccupa seriamente il rischio che:
- un grave appesantimento della sovrastruttura burocratica ingeneri una proliferazione di adempimenti a danno della reale qualità dell’insegnamento e della ricerca;
- l’indicazione di parametri, indici e altri minuziosi indicatori numerici ai quali rispondere produca adeguamenti di facciata, assai costosi in termini di tempo e di energie e non altrettanto atti a produrre miglioramenti sostanziali;
- si vada incontro ad una radicale divaricazione tra l’impegno nella ricerca e nella didattica e quello negli organi di gestione, come sta già avvenendo in modo strisciante e per così dire tacito. La CopI ritiene che il punto sia delicato ed in ogni caso che esso comporti una riflessione ed una scelta circa il modello di Università, per evitare il sempre crescente disagio dei colleghi più validamente impegnati nella ricerca e nella attività di formazione;
- una comprensibile, già visibile e diffusa reazione alla pesante burocratizzazione caratterizzata talvolta da una dinamica di fare e disfare non inusuale nella nostra prassi legislativa, porti a considerare in modo non adeguato l’azione proposta, anche se programmata nell’ottica di un miglioramento complessivo.
La Conferenza per l’Ingegneria chiede che alle parole pronunciate dal Ministro Giannini il 1o aprile 2014 davanti alla VII Commissione Permanente del Senato circa l’esigenza di rendere più semplice e agevole il nostro lavoro e di “sostituire i controlli ex ante con la valutazione ex post”, facciano seguito interventi concreti ai quali siamo pronti a dare un nostro costruttivo contributo.
NO all’ideologia della “valutazione ex-post”, che peraltro ha un ruolo diverso. L’attività delle Università *deve* informarsi a precise politiche per la qualità.
Del resto gli ingegneri dovrebbero saperlo, visto che altrove hanno messo in opera una adeguata (e cioè macchinosa) organizzazione per l’accreditamento dei corsi universitari
http://www.abet.org/
Scusate la caduta nell’aneddotica, sarà l’ora, ma quando ero giovane e sentivo parlare di “qualità totale” non riuscivo ad evitare di mettermi a polemizzare pesantemente (a cominciare naturalmente dallo stesso termine), soprattutto se la sentivo menzionare all’Università.
Adesso che sono (quasi) vecchio sono (quasi) ammirato dal fatto che qualcuno se la beva ancora.
Prosit.
Non sarà “totale”, ma di certo deve essere di qualità (l’Università). Prosit anche a Lei.
Rubele “dice no” alla “ideologia” della “valutazione ex-post”.
Non voglio usare slogan. Vorrei solo dire che l’idea che, per incoraggiare e stimolare qualcuno, o una qualche istituzione, a fare un lavoro di qualità (e forse anche per valutare quel lavoro, in qualche modo, quando possibile, preferibilmente con un numeretto, in modo da avere poi una bella graduatoria) gli si debba … impedire di lavorare, è così bizzarra, che mi domando dove sia stata concepita.
Le nuove regole AVA fanno proprio questo. Impediscono alla istituzione universitaria di svolgere il proprio lavoro. Mi domando se non ci siano gli estremi per una denuncia per interruzione di pubblico servizio.
Sentite: *QUESTA* AVA è pessima, l’ho scritto diverse volte ormai in vari commenti – e peraltro lo è come la VQR e l’ASN, dal punto di vista della qualità del lavoro del lavoro, congiunto con i DD.MM. sul tema.
Ho anche adombrato il pensiero che si sia volutamente fatto così male per screditare il concetto stesso di Quality Assurance, e promuovere nel corpo universitario l’ideologia del laissez-faire.
MA i Sistemi di Garanzia della Qualità devono servire a far lavorare meglio l’istituzione e suoi docenti, guidano i comportamenti delle persone in modo aggiungere valore al servizio offerto. Evidentemente, se non operano in tal senso, non funzionano, ma il problema sta in chi li ha definiti, non nel concetto in sé.
perche’, quelli proposti non sono approcci ideologici (vedi INVALSI e AVA)?
che per di piu’ interferiscono negativamente con il processo formativo, INVALSI addirittura distorcendo la percezione degli studenti su come studiare e apprendere, il che e’ gravissimo
perche’, non esiste un’ideologia della necessita’
della deriva burocratica, addirittura o forse soprattutto a livello europeo? vedi corsi di formazione e seminari per imparare a scrivere progetti di ricerca europei, sponsorizzati o forniti addirittura dagli atenei, e altre simili amenita’
non ci si accorge che tutto questo e’ aberrante?
con lo scopo, neanche tanto nascosto, di creare figure
e uffici burocratici sostanzialmente inutili, che drenano risorse sicuramente meglio spendibili (ad esempio per assumere docenti e ricercatori)
e l’altro scopo, piu’ nascosto ma evidente a chi viva nell’universita’, di giustificare una scarsa attivita’ scientifica con le mille attivita’ burocratiche da svolgere (chi lo fa per questo, ha una naturale tendenza, magari inconscia, ad esaltare l’importanza delle attivita’ “organizzative” e a coinvolgere
piu’ persone e strutture possibile nel vortice burocratico)
Chi usa il termine “burocratico”, “burocrazia” in modo spropositato nel proprio discorso lo fa per screditare il concetto di “norma da seguire”: insomma vuole il laissez-faire.
Chi vuole organizzare al meglio una comunità di persone per ottenere un miglioramento del servizio offerto viene messo all’indice, e sbeffeggiato.
Anche negli USA ragionano in modo diverso dagli Italiani
http://www.chea.org/alliance_publications/default.asp
Si sente molto parlare di “processi produttivi di beni o servizi” di questi tempi. Di che si parla? Si parla del lavoro umano, in tutta la sua variegata molteplicità. Si osservi che questa terminologia prevalente si distingue per la sua freddezza disumanizzante, che tende a reificare tutto, cioè a fare di tutto una “cosa” in modo da poterla “misurare”, associandole un numeretto, utile per associare un prezzo e poi per vendere o comprare, o comparare in utili graduatorie, possibilmente mondiali; si osservi poi che la stessa scelta terminologica, con la creazione di questa espressione polivalente che e` il concetto di “processi produttivi di beni e servizi”, si poggia sulla assunzione, tutta da dimostrare, che sia utilmente possibile sussumere tutto il lavoro umano, in tutta la sua variegata molteplicità`, in una unica categoria. Ma accettiamo questa scelta terminologica, e vediamo dove ci porta.
Due categorie di persone hanno un interesse corporativo a usare metodi standardizzati per il monitoraggio della qualità del lavoro umano (volevo dire: dei “processi produttivi di beni o servizi”):
1. i burocrati;
2. gli studiosi e i teorici del controllo della “qualità dei processi produttivi”.
Entrambi hanno un interesse specifico a imporre procedure standardizzate, in quanto fa comodo avere la massima uniformità nel flusso informativo.
Come corollario, essi tendono a ignorare le differenze specifiche che esistono tra i vari campi: un conto e` occuparsi della qualità del lavoro di un medico, che ha certi scopi, un conto e` occuparsi della qualità del lavoro di un impiegato alle poste, che ha altri scopi, ecc.
Questo e` evidente per i burocrati, che siano essi parte di una classe già esistente, o in formazione. Su costoro diro` solo che una società avanzata dovrebbe il più possibile farne a meno.
Ma e` evidente anche per gli studiosi e i teorici. Infatti, la loro stessa esistenza richiede la formulazione di teorie generali standardizzate, da applicare in modo uniforme nei vari possibili campi.
Infatti, se uno studioso o teorico del processo di controllo della qualità del lavoro altrui si limitasse a dire che per controllare il lavoro altrui bisogna verificare se quel lavoro viene svolto secondo lo scopo che gli e` proprio (un medico deve salvare le vite umane, un portalettere deve consegnare le lettere, un poliziotto deve prevenire il crimine e identificarne i colpevoli, quando non riesca a prevenirlo, un insegnante deve insegnare e poi valutare la preparazione degli studenti, ecc), il suo lavoro sarebbe finito e dovrebbe trovarne un’altro.
Ecco quindi che un evidente interesse corporativo di questa seconda classe di persone (parallelo a quello della prima classe) richiede la formulazione teorica di principi astratti: “astratti” nel senso che sono portati via lontano dalla viva concretezza in cui il lavoro umano si manifesta. Se questi principi abbiano o meno una loro validità, a loro interessa poco, perché sperabilmente tali principi verranno applicati, in virtù della loro astrattezza, e cosa fatta capo ha. Loro sono gli esperti.
Uno di questi principi astratti trapela dalla reazione di Rubele, che “dice no” alla “ideologia del laissez-faire”. Tradotto, significa che per monitorare la qualità del lavoro umano, incoraggiandone la qualità, bisogna prima di tutto ostacolare quel lavoro o stravolgerlo.
Un medico deve salvare vite umane. Ma oggi i medici vengono monitorati in tutto e per tutto tranne che per questo fondamentale parametro, tanto che e` diventato difficile per loro svolgere bene il loro lavoro. Un insegnante deve prima insegnare e poi valutare il risultato dell’apprendimento e, ove il caso, bocciare. Ma oggi gli insegnanti vengono monitorati attraverso quel particolare numeretto che e` il numero degli studenti promossi, tanto che e` diventato difficile per loro svolgere bene il loro lavoro, essendo incoraggiati a promuovere anche chi non lo meriterebbe. Un poliziotto deve prevenire il crimine e identificarne gli autori, ma oggi il poliziotto viene monitorato attraverso quel particolare numeretto che e` il numero delle persone che egli arresta (non importa se colpevoli o innocenti, forse ci penseranno altri a occuparsi di questo aspetto). Risultato: il poliziotto arresta a man bassa. Eccetera. Torna in mente la stizzita, sintomatica reazione di Rubele, che “dice no” alla “ideologia del laissez-faire”: la mia prima risposta a questa reazione, in cui si parla di “ideologia”, e` che il più conosce il meno. La seconda risposta e` che i risultati di “dire no” alla “ideologia del laissez-faire” si vedono. Non e` il caso di rispondere a uno slogan con uno slogan, ma di tornare con i piedi per terra, lontano dagli astratti numeretti partoriti dalla immaginazione dei teorici della vita, dell’universo e di tutto quanto, lontano dagli astratti schemi dei teorici della qualita` del lavoro umano (quale? tutto! loro hanno l’asso piglia tutto!), lontano dalla aberrante idea che per migliorare la qualita` del lavoro umano lo si debba prima di tutto e a tutti i costi ostacolare.
Caro Di Biase, fra le categorie di persone che “hanno un interesse corporativo a usare metodi standardizzati per il monitoraggio della qualità del lavoro umano” hai dimenticato i matematici/statistici.
Per il resto ho trovato utile questo tuo esercizio di riflessione, nel senso che l’introduzione di tecniche avanzate di valutazione serve innanzitutto per coinvolgere di più i diretti interessati, e far loro partecipi dello sforzo collettivo di cui stiamo parlando.
Invece non ho interesse, tempo e voglia di fare anch’io un altro intervento così articolato, ma almeno su un punto faccio una replica: non so perché ti sei messo in testa che per “monitorare la qualità del lavoro umano, incoraggiandone la qualità, bisogna prima di tutto ostacolare quel lavoro o stravolgerlo”.
Se c’è una finalità palese in tutto il macchinario dei sistemi di assicurazione della qualità, è far sì che il lavoro in questione sia migliore, sia fatto meglio. Del resto – anche per me che sono Ateo, ma non imbecille – è chiaro che chi ha inventato Dio e le religioni lo ha fatto perché voleva fare del bene all’Umanità, non “ostacolare” l’uomo e fargli del male. Dopodiché, se l’intenzione era di un tipo e poi c’è disaccordo sociale sui contenuti, ecco che è venuto in soccorso l’ordinamento civile, che si può modellare e cambiare indipendentemente da ciò che vuole Dio, o la religione.
Continua così, mi raccomando, e produci altre riflessioni sulla qualità e sul controllo di qualità dei processi produttivi, che fa solo bene allo salute.
Del resto tutti i matematici che ho incontrato hanno sempre detto: “fate da soli numerosi esercizi”.
L’invenzione del RAD blindato è degna di uno stato totalitario.
[…] Dopo i medici anche la Conferenza per l’Ingegneria contro il delirio burocratico AVA (ROARS) […]
Caro Rubele, ti ringrazio per l’interesse nelle mie riflessioni. Questa mattina ho subito un infortunio stradale e, pur essendo ancora vivo, non potrò dedicarmi, per qualche tempo, a questa istruttiva discussione. Intendo farlo non appena starò meglio … Stay with us! Grazie ancora per la simpatia :-)
Mi dispiace molto, in bocca al lupo!
Un abbraccio anche dalla redazione.
Le posizioni espresse qui sopra non sono poi tanto distanti.
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“l’introduzione di tecniche avanzate di valutazione serve innanzitutto per coinvolgere di più i diretti interessati, e far loro partecipi dello sforzo collettivo.”
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Questo sarebbe un principio sano di valutazione che nasce “all’interno” di un’organizzazione, anche adottando modelli esterni, ma modellandoli sulle proprie esigenze e sulle proprie caratteristiche organizzative. La mia università (Salerno) non può avere le stesse aspettative di placement di Milano, così come non ha la stessa probabilità di attrarre studenti di magistrale di una qualsiasi Università del Nord. Sarà poco rilevante per il miglioramento della nostra qualità confrontare la perfomance in termini di placement o di attrattività con le Università del Nord, perché non è colpa dell’Università se gli studenti troveranno più facilmente lavoro al Nord. Il modello deve essere adattato all’organizzazione e allo stato del mondo che la circonda. Di qui il secondo passaggio.
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“non esiste un’ideologia della necessita’ della deriva burocratica?”
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Quando l’esigenza di un processo di miglioramento è trasformata in legge dello stato, il senso stesso di miglioramento assume una connotazione burocratica che nulla ha a che vedere con il moto di autorganizzazione di cui sopra. Il miglioramento imposto diventa un onere incomprensibile, mal sopportato, proprio perché imposto. Tutto il contrario di ciò che un processo di miglioramento richiederebbe. Il miglioramento dipende dalle condizioni iniziali, è un processo. L’importante è che si metta in moto attraverso adeguati incentivi e non per imposizione di legge, altrimenti fallisce il suo stesso obiettivo.
Si potrebbe rispondere in molti modi, comunque alla base di tutto il punto fondamentale è che questo lavoro riguarda i propri doveri d’ufficio, ed è pagato dallo stipendio. Non ci devono essere ‘incentivi’ [e daje!] a fare bene il proprio dovere se non quelli ordinari, e i metodi organizzativi di cui stiamo parlando devono aiutare tutti a fare questo.
Si potrebbe rispondere in molti modi, oppure non rispondere affatto. Lo stipendio di un universitario paga tre dimensioni: didattica, ricerca e compiti istituzionali e organizzativi. Gli incentivi (non strettamente monetari) ci sono per la ricerca, mentre le altre due dimensioni sono solo ingabbiate in prescrizioni legislative. Di qui il free riding di molti, che sfuggono ai propri doveri istituzionali e di didattica, per perseguire solo il proprio successo personale. Che razza di modello organizzativo è questo?
L’utilità delle teorie sui sistemi di monitoraggio della qualità è inversamente proporzionale alla loro generalità e astrattezza. Teorie che fanno astrazione dalla attività che deve essere monitorata si riducono alla applicazione universale di precetti generali che, per loro natura, non possono essere utili, in quanto non tengono nel dovuto conto le specificità della particolare attività che viene messa sotto controllo.
Questo truismo fa a cazzotti con l’approccio teologico che traspira dalla pagina wikipedia dedicata alla “quality assurance” (QA), intesa appunto come Teoria Astratta sul Miglioramento della Qualità:
QA is not limited to the manufacturing, and can be applied to any business or non-business activity:
• Design
• Consulting
• Banking
• Insurance
• Computer software development
• Retailing
• Transportation
• Education
• Translation
It comprises a quality improvement process, which is generic in the sense that it can be applied to any of these activities and it establishes a behavior pattern, which supports the achievement of quality.
Sono pronto a a scommettere con Rubele una cena a base di pesce, brodetto incluso (alloggio incluso, spese di viaggio escluse) che queste parole, che affermano tanto chiaramente il credo nella esistenza di una utile Teoria Astratta sul Miglioramento della Qualità, non riflettono meramente la posizione dell’estensore della pagina wikipedia, ma sono invece la rappresentazione fedele della teologia degli studiosi della suddetta teoria. Una Teoria Astratta sul Miglioramento della Qualità (della qualità di che cosa? aridajje! di tutto! viene scritto a chiare lettere qui sopra!).
Ora, anche il più ingenuo difensore della Teoria Astratta sul Miglioramento della Qualità dovrà a un certo punto ammettere che la sua Teoria deve essere “applicata” al caso specifico, e, arrivato a quel punto, si limiterà a cercare qualche “parametro”, naturalmente quantificabile, se possibile in un numeretto, e avrà soddisfatto quella parte del protocollo che gli impone di “adattare” la sua Teoria al caso specifico.
Si arriva così a prescrivere controlli su alcuni parametri quantitativi (ad esempio: il numero degli studenti che vengono promossi, o il numero delle persone che vengono arrestate, o il numero delle memorie scientifiche in cui una data memoria viene citata) che poco hanno a che fare con la qualità specifica della specifica attività in questione.
Teorie che fanno astrazione dalla attività in questione, per loro natura, si riducono alla applicazione di precetti generali i quali, proprio perché fanno astrazione dalle specificità proprie della particolare attività, si devono basare su metodologie universali, quali la scomposizione della “attività” messa sotto controllo nelle varie “fasi”, e la imposizione, agli “operatori” che svolgono quella attività, di attività supplementari, che consistono nella appropriata documentazione autoriflessiva del proprio flusso di autocoscienza, al fine di avere una “documentazione” che possa essere poi usata dai “revisori” in fase di controllo. Il risultato inevitabile di questo approccio è che si interferisce in modo pesante sulle attività messe sotto controllo.
Con questo rispondo alla domanda di Rubele: “non so perché ti sei messo in testa che per “monitorare la qualità del lavoro umano, incoraggiandone la qualità, bisogna prima di tutto ostacolare quel lavoro o stravolgerlo”.”. Questa cosa che mi sarei “messo in testa” appare proprio essere un corollario immediato della impostazione astratta dei teorici della QA.
Secondo costoro, una stessa armatura concettuale, quella della suddetta Teoria Astratta sul Miglioramento della Qualità (chiamata “QA”) può utilmente essere applicata di volta in volta ai vari casi specifici, sopra elencati. Ora, il fatto che una teoria esista, non significa che essa sia utile, o che sia utile in tutti i casi. Il fatto che certe teorie possano essere utili nel campo manifatturiero (un fatto che non intendo mettere in dubbio) non implica che esse siano utili in altri campi, ad esempio in quello della educazione.
Appare chiara l’impostazione teologica di questi convincimenti. Appare anche chiaro, sia dagli esempio che ho portato nei precedenti commenti, sia in base a considerazioni generali, quanto questo approccio sia catastroficamente sballato. Appare anche chiaro quale sia la dinamica che ci ha portato fin qui: una volta che nasce una struttura concettuale, con ben precisi interessi industriali, poi nasce una industria, nascono società professionali, nascono riviste, nasce una nuova disciplina, nascono professionisti della QA, e allora basta convincere i politici, in un modo o nell’altro, della assoluta necessità di sottoporre tutto all’attenzione dei professionisti della QA, e il gioco è fatto. E se hai qualcosa da dire sei un Nemico della Qualità e della Valutazione.
Come ulteriore esempio delle conseguenze catastrofiche di questo approccio teologico, vorrei osservare che, secondo i precetti della QA, il punto di vista da prendere in considerazione, nella definizione di “qualità”, è quello del cliente o del consumatore, non quello della società in generale. Appare evidente quanto questo precetto sia destinato a scontrarsi con la natura specifica di alcuni casi particolari. Prendiamo l’educazione, ad esempio. In questo caso, infatti, è sbagliato considerare gli studenti come se fossero clienti o consumatori del processo educativo, visto che il processo educativo ha come referente proprio la società, per la precisione la società del domani, che sarà in mano proprio a coloro che oggi sono studenti.
Osservo infine che questa storia ricorda l’idea che si possa insegnare a qualcuno a insegnare, facendo astrazione dalla particolare materia di insegnamento. Su questo problema, rimando il lettore al libro di Giorgio Israel “Chi sono i nemici della scienza?” e alla relativa bibliografia.
“infatti, è sbagliato considerare gli studenti come se fossero clienti o consumatori del processo educativo, visto che il processo educativo ha come referente proprio la società, per la precisione la società del domani, che sarà in mano proprio a coloro che oggi sono studenti. ”
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Credo che si tenti di risolvere l’aporia tramite la nozione di “stakeholders” (portatori di interessi) che per l’università dovrebbero incarnare tutte quelle realtà economiche e sociali che traggono beneficio dall’istruzione universitaria.
Rimane un punto interessante: queste astrazioni nascono per ridurre la variabilità di processi produttivi industriali e poi vengono generalizzate (diventando più astratte) in altri ambiti (servizi, istruzione, ricerca, etc). Tuttavia, portano l’impronta della loro origine. Rimane qualche perplessità a pensare che le leggi universali per garantire il buon funzionamento di un corso di studi portino l’impronta delle regole utili per organizzare la produzione di bulloni.
Faccio un esempio, preso dai miei archivi del Progetto Campus. Dato che in ISO 9000 c’era l’approvvigionamento, ci veniva chiesto di rispondere ai seguenti requisiti:
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III-4 Approvvigionamenti
III -4 39 Esiste ed è sistematicamente applicata una metodologia di controllo del processo di approvvigionamento tale da garantire che i prodotti e i servizi approvvigionati siano conformi ai requisiti del CS?
III -4 40 Sono definiti chiaramente i dati ed i requisiti relativi a prodotti e servizi oggetto di approvvigionamento?
III -4 41 Sono definiti ed applicati metodi di verifica dei prodotti e servizi approvvigionati?
III -4 42 Sono previste azioni mirate all’accrescimento del valore nelle relazioni con i fornitori del CS?
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Devo però dire che avevano avuto il buon gusto ci cambiare il nome alla parte dedicata a “imballaggio e immagazzinamento”, che erano diventati “Inserimento nel mercato del lavoro e aggiornamento dei diplomati”.
In effetti, non ci è ancora capitato di incellofanare i neolaureati o di metterli in un magazzino pronti per essere inviati alle aziende che ne fanno richiesta.
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III-6 Inserimento nel mercato del lavoro e aggiornamento dei diplomati
Rif.
III -6 46 La DCS adotta metodologie per favorire l’inserimento dei diplomati nel mondo del lavoro e ne valuta l’efficacia?
III -6 47 La DCS adotta un sistema che permetta di individuare le esigenze di formazione integrativa i diplomati e propone corsi di aggiornamento ai diplomati dopo il loro inserimento nel mondo del lavoro?
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A distanza di anni, confesso che imparare a ragionare (?) in quei termini era stata un’esperienza vagamente surreale. Lo studente era il nostro bullone e dovevamo assicurarci che i diametri fossero tutti entro le tolleranze. Però dovevamo anche chiederci a cosa corrispondesse in ambito formativo la calibratura della chiave inglese. All’epoca ci eravamo adattati: in cambio si riceveva un finanziamento per i Diplomi Universitari e l’avevamo preso come un gioco, cercando di assimilare qualche idea sensata (per es. il Manuale della Qualità potrebbe essere una specie di “testo unico” di tutte le regole in vigore che spesso finiscono sepolte nelle delibere degli organi al punto di non sapere più cosa sia in vigore e cosa no).
La metafora “teologica” non è campata in aria. Le norme ISO-9000 erano una specie di Sacra Scrittura e lo sforzo per renderle utilizzabili in ambito formativo era del tutto simile allo sforzo esegetico necessario per interpretare le Sacre Scritture al fine di derivarne prescrizioni normative per la vita dei fedeli che vivono in un contesto assai diverso dalla Palestina dei patriarchi.
Giuseppe, ho scritto una replica specifica più sotto, con data 16/06 ore 17:57.
Ringrazio Giuseppe de Nicolao per le sue osservazioni e gli esempi. Certo, “rimane qualche perplessità a pensare che le leggi universali per garantire il buon funzionamento di un corso di studi portino l’impronta delle regole utili per organizzare la produzione di bulloni”. Perplessità è un utile eufemismo. Leggere le recenti regole AVA è proprio una “esperienza vagamente surreale”.
P.S. Vorrei riprendere il sinistro parallelismo tra l’idea che si possa insegnare a insegnare, indipendentemente dalla materia che deve essere oggetto di insegnamento, e l’idea che si possa utilmente costruire una Teoria Astratta del Miglioramento della Qualità, indipendentemente dalla attività che deve essere portatrice di miglioramento.
Questi sono entrambi esempi del procedimento di astrazione (che è un processo di sottrazione di realtà). Ora a me sembra evidente che questa tendenza sia propria del linguaggio umano. Sentiamo ad esempio cosa scrive Federigo Enriques nel suo libro “Problemi della scienza”, a pagina 10.
“[…] si deve avvertire che il linguaggio, del quale ci serviamo per esprimere i nostri pensieri, è, in fin dei conti, un sistema di rappresentazione simbolica delle cose. Poiché esso ci fornisce un processo di schematizzazione, saliente per gradi all’espressione di fatti più generali, ci permette di ragionare intorno ad idee astratte, molto lontane dalla realtà immediata che cade sotto i nostri sensi.
Ma l’uso di questo potente istrumento, che viene in aiuto alla debolezza del nostro intelletto, non è esente da pericoli. Prendendo il volo verso le alte regioni del pensiero, si corre il rischio di dimenticare il significato delle parole, che diventano vuote di senso appena che cessino di rappresentare le cose. Giunti a questo punto, nulla è più facile che operare formalmente sui simboli, mentre lo sviluppo del pensiero tendente alla generalità non trova alcun freno nel mondo concreto, a cui resta estraneo.
Se dunque non si vuole smarrirsi in un sogno vuoto di senso, non si deve dimenticare la condizione suprema di positività, per cui il giudizio conoscitivo deve affermare o negare, in ultima analisi, dei fatti particolari o generali.”
. . . . .
Ma c’è di più. A me sembra che questa naturale deriva, inerente alla nostra attività linguistica, si sia agganciata alle esigenze comunicative proprie delle moderne società di massa, in cui opera un potente sistema di propaganda di massa, attuato, appunto, nei mezzi di comunicazione di massa. [Nota 1]. Queste “esigenze comunicative” sono naturalmente funzionali sia a una funzione propagandistica, sia alla esigenza di semplificare. Alexis de Tocqueville ha osservato in tempo reale, a proposito della nascente democrazia statunitense, i risultati che questo agganciamento ha sul linguaggio. Il linguista Uwe Poerksen ha documentato la nascita e l’affermazione di quelle che chiama “parole di plastica”, nel suo libro omonimo, cioè parole che nascono da un gergo specialistico e poi perdono la precisione del loro significato originale e diventano delle parole-tuttofare, dal significato indeterminato, ambiguo.
A me sembra che il fenomeno documentato da Poerksen sia in parte assimilabile al procedimento generale di astrazione, dove si opera per sottrazione, pervenendo a un concetto astratto, appunto. Però un conto è l’astrazione ottenuta per riflessione speculativa, un altro conto è quella ottenuta usando il linguaggio in modo improprio, cioè facendo ciò che viene documentato da Poerksen: si prende un termine tecnico-scientifico e la si usa come se fosse una parola comune, che per sua natura ha uno spettro semantico generalmente assai ampio. Il fenomeno documentato da Poerksen a sua volta è parallelo a quello che abbiamo osservato a proposito della Teoria Astratta sul Miglioramento della Qualità, che proviene da un ambito specialistico quale la produzione industriale manufatturiera ed è stato modificato per farne una Teoria Astratta con la pretesa di poterla utilmente applicare a tutto.
Osservo infine che il predominio della immagine sul linguaggio scritto-parlato, che si registra nella
realtà comunicativa della moderna società di massa, ha a sua volta un impatto diretto sul linguaggio scritto-parlato, dove vengono a prevalere slogan e frasi fatte, e parole di plastica, appunto, che sono l’analogo, nel linguaggio scritto-parlato, delle immagini. Infatti, la caratteristica dell’immagine è di essere irriducibile al linguaggio scritto-parlato. Possiamo parlare della Gioconda di Leonardo, o di un tramonto, ma queste immagini restano quello che sono, fondamentalmente aliene e irriducibili al linguaggio scritto-parlato. Il linguaggio scritto-parlato, invece, ci permette, in linea di principio, di scavare a fondo, di interrogarci, di smentire, di smentirci ad libitum … tranne quando diventa un linguaggio fatto da slogan, frasi fatte, e parole di plastica, formazioni linguistiche che sono impermeabili all’analisi. [Nota 2]
L’uso selvaggio degli acronomi è un altro segno dei tempi. Quando non è possibile semplificare o personificare in una immagine, si usano acronimi. QA, ad esempio. L’acronimo, un po’ come l’immagine, tende a essere irriducibile al linguaggio scritto-parlato, e quindi si viene a porre in una zona extraterritoriale dove non può essere lambito dall’analisi critica.
Nota 1. Cf. il libro “Manufacturing Consent. The political economy of the mass media” di Chomsky e Herman.
Nota 2. Non a caso è così faticoso smontare tutta la serie di pseudo-concetti e parole vuote che prevalgono nel discorso politico corrente, essendo molto più facile, di fronte a un pubblico che non è più abituato al lavoro di analisi critica, pronunciare slogan e proporre idee sbagliate ma efficaci, e per giunta terroristiche, perché destinate a terrorizzare l’opinione pubblica. Esempi correnti sono lo slogan “ce lo chiede l’Europa”, e la identificazione tra euro e Europa (nozione a sua volta astratta: quale? quella geografica? quella politica?), e la tesi che senza l’euro saremmo in guerra. Ambiguità! in hoc signo vinces!
Sempre meglio, caro Di Biase, non posso che confermare che i tuoi esercizi sulla materia della QA procedono bene, e stai raggiungendo il livello in cui sei in grado di formulare delle domande corrette – anche se non ancora tutte le risposte: del resto alcuni decenni di dibattito politico-scientifico non si possono macinare in poche settimane.
Vorrei dire qualcosa sul “main theme” dei tuoi interventi, cioè sulla presunta invadenza dei metodi sussunti “direttamente” dalle Norme ISO sulla QA per l’istruzione. Orbene, questo “parallelo” esiste, ma esiste solo come frammento del dibattito scientifico (e, aggiungo, non poteva non essere così). Dico, cioè, che l’appoggiarsi alle Norme ISO per determinare un Sistema di Gestione per la Qualità nell’Istruzione è una strada che è stata percorsa, e che può essere “cheap” o “meno cheap” a seconda del livello di complicazione e dettaglio su cui si lavora (si è lavorato). MA è stato subito chiaro a molti che l’utilizzo “canonico” delle ISO non era la strada più corretta per approcciare il mondo dell’istruzione universitaria, e per questo il livello “politico” non ha mai sussunto (o dato mandato di seguire) quei modelli, nelle more della definizione dei sistemi di QA per le istituzioni di istruzione superiore.
Casomai è vero il contrario, e cioè che la autonoma elaborazione delle “European Standards and Guidelines” (come di tutte le Normative valide negli USA, o altrove) costituisce precisamente una fuoriuscita dall’ossatura delle ISO per ricercare la metodologia più appropriata al settore peculiare in oggetto.
Mi sono spiegato, almeno su questo?
Per capire bene, deve leggerti almeno le ESG
http://www.processodibologna.it/content/index.php?action=read_cnt&id_cnt=6716
e un sistema di standard USA, ad esempio quello della MSCHE
http://www.msche.org/publications.asp
e vedere come sono diversi dalle ISO.
Ciao e buon recupero.
Grazie, non tanti elogi, ma dimmi un po’, caro Rubele: alcuni decenni di dibattito, per capire che occorreva fuoriuscire dalla ossatura delle ISO per ricercare la metodologia più appropriata al settore peculiare in oggetto? Non ricordo se l’albero viene giudicato dal frutto, o il frutto dall’albero. Ricordo che Cristo ha fatto seccare un intero albero. Ecco, da quel poco che ho visto e sperimentato, anche sulla mia pelle, questo particolare albero dovrebbe essere fatto seccare, per piantarne uno nuovo, su basi più serie.
Non c’è nulla di poco serio nella idea che la qualità delle attività umane dovrebbe migliorare. Ciò che è poco serio è l’idea che esista una utile Teoria Generale Astratta sul Miglioramento della Qualità, che faccia astrazione dalla attività in questione. I teologi di questa Teoria Astratta, per ragioni che mi sembra di aver ben compreso e descritto in un commento precedente, per (de)formazione professionale non potranno dare un contributo utile. Questo mi sembra evidente.
Io dico una cosa molto semplice: bisogna adottare un approccio terra terra, molto concreto, che la Zia Lucia possa comprendere. Chi è la Zia Lucia? Nelle mie classi, c’è sempre uno studente, o una studentessa, che ha una Zia che si chiama Lucia, e che sa poco o nulla di matematica. E pretendo che i miei studenti sappiano spiegare le cose in modo che la Zia Lucia possa comprendere. Infatti, facilmente essi imparano quattro espressioni gergali (del gergo della matematica) di cui però ignorano il significato. Quando invece devono spiegare le cose alla Zia Lucia, si vede subito se comprendono ciò che dicono o no. Ecco, tutta questa Teoria Astratta, sulla base dei risultati ai quali ci ha condotti, andrebbe cestinata, perché l’idea alla base è sbagliata. Bisogna determinare, caso per caso, delle metodologie appropriate, ignorando completamente la Teoria Astratta di cui sopra. Bisogna mettersi proprio al livello di Zia Lucia, cioè al livello dei bisogni reali della collettività. Infatti, è chiaro che chi si arroga il compito di migliorare la qualità di una istituzione pubblica, lo fa su mandato della collettività.
Ripeto che, a giudicare dai risultati fin qui ottenuti, tutta la seriosissima combriccola dei teologia della QA dovrebbe chiudere bottega e cercarsi un altro lavoro. O, almeno, limitarsi a lavorare nel settore privato, dove, in alcuni campi, svolge, suppongo, un ottimo lavoro. Ma deve abbandonare il tentativo di conquistare il mondo, e di farlo per giunta con quei metodi e a nostre spese.
Poi, scusami, tu parli di dibattito scientifico. Non basta avere una Teoria Astratta per avere una scienza. Bisogna che tale Teoria Astratta si sia dimostrata utile a comprendere il mondo. Di fatto, la suddetta Teoria Astratta non si pone come scopo quello di comprendere, ma quello normativo di guidare il mondo ad andare per il verso giusto. Ma il punto è che l’utilità di questa Teoria Astratta non è stata dimostrata, e anzi viene smentita da alcuni esempi concreti. La sua utilità viene data apoditticamente come acquisita dai suoi teologi, che però lasciano che i loro epigoni producano dei veri e propri disastri.
Tu confermi che è stata seguita la strada a buon mercato di modellare un sistema per il miglioramento della qualità della istruzione sulle norme ISO. Il fatto stesso che tale strada sia stata percorsa conferma le pretese assolutistiche dei teologi della Teoria Astratta per il Miglioramento della Qualità, che avevo correttamente intuito. Questi teologi formano evidentemente una società professionale e esercitano pressione sui “politici” perché essi usino i loro servigi, naturalmente nell’interesse della collettività.
Tu parli di “una fuoriuscita dall’ossatura delle ISO per ricercare la metodologia più appropriata al settore peculiare in oggetto” e così facendo confermi l’assunto che era dato per scontato: che una stessa ossatura potesse essere utile in tutti i campi. Infatti, per (fuori)uscire devi prima essere entrato dentro.
Leggerò pacatamente e con curiosità i documenti che gentilmente mi segnali. Grazie ancora per la simpatia.
:-)
Rispondo ancora per una volta, oggi, anche per offrire una replica diretta all’intervento di Giuseppe De Nicolao, più sopra.
Ho cercato di dare evidenza di come l’Assicurazione di Qualità/Accreditamento in campo di universitario non è mai stato schiavo, né oggi, ne in passato, di Modelli particolari, specie se percepiti come estranei o inadeguati per quel peculiare servizio che è l’istruzione universitaria.
Detto questo, v’è stata una linea di condotta del tutto sensata tesa ad utilizzare il meglio degli schemi concettuali generali per la Gestione della Qualità, e la CRUI ha aderito a tale “policy” per produrre un Modello/Proposta “in-house”, si potrebbe dire, e comunque culturalmente alternativo ai Modelli che nel frattempo il CNVSU andava elaborando e proponendo (basati soprattutto sulle risorse docenti, come ricorderete).
Non so se Giuseppe abbia presente l’ultima versione del Modello CRUI, che vedo essere datata gennaio 2011, e che è migliorata anche e proprio dopo/con l’esperienza dei Progetti Campus/CampusOne.
http://www.fondazionecrui.it/certificazione/Pagine/pubblicazione-qualita.aspx
In qualità di Ingegnere [i.e. visto che lui è un Ingegnere], consiglio a Giuseppe un’attitudine più ottimista verso un simile Modello, che, si dovrà ammettere, è molto più coerente e comprensibile rispetto alla ciofeca dell’AVA, e perdipiù è stato limato per essere in accordo con le ESG dell’ENQA.
A mio avviso ROARS dovrebbe dare pubblicità esplicita di tale modello e aprire un dibattito sul merito.
Ho cercato di avere un’attitudine ottimista durante gli anni dei Progetti Campus e Campus-One (la cui regia era della CRUI), ma non potevo esimermi dal provare una certa qual sensazione di ridicolo. Mi sembra del tutto lodevole che l’ultima versione del modello CRUI sia molto migliore, ma i modelli propinatici all’epoca venivano proposti come se fossero l’ultimo ritrovato della Scienza della Qualità. Dopo qualche anno scopriamo che nessuno li prende più per buoni e che abbiamo fatto da cavie (beh, devo dire che mentre giravo nella ruota come un criceto, qualche sospetto l’avevo avuto). Io non avrei avuto la faccia tosta di rifilare dei modelli come quelli dei Progetti Campus e, ai miei occhi, la CRUI si è giocata un po’ di credibilità. Perché se mi fai fare da cavia e poi mi proponi un’altra pozione spiegando che è molto migliore della precedente, mi sento in diritto di mostrarmi leggermente diffidente. Non meno diffidente se la pozione viene dall’ANVUR, i cui precedenti (ASN, VQR e accreditamento dottorati) gridano vendetta al cielo.