Nelle pieghe dell’articolo 4 del Decreto legge “Valore cultura” troviamo due commi importanti  rispetto al tema dell’accesso aperto. In particolare, “Le pubblicazioni che documentano i risultati di ricerche finanziate per una quota pari o superiore al cinquanta per cento con fondi pubblici […] devono essere depositate, non oltre sei mesi dalla pubblicazione, in archivi elettronici istituzionali o di settore, predisposti in modo tale da garantire l’accesso aperto, libero e gratuito. Come va interpretato e come si colloca l’obbligo di deposito negli archivi rispetto all’anagrafe nazionale della ricerca (ANPREPS), alla banca dati nazionale delle tesi di dottorato e alle iniziative già intraprese dai singoli atenei? La durata del periodo di “embargo” stabilita in sei mesi è adeguata per tutte le aree disciplinari? Nell’articolo, proviamo a dare qualche risposta.

Il Consiglio dei Ministri ha approvato il 2 agosto il Decreto legge “Valore cultura” : DECRETO LEGGE RECANTE DISPOSIZIONI URGENTI PER LA TUTELA, LA VALORIZZAZIONE E IL RILANCIO DEI BENI E DELLE ATTIVITA’ CULTURALI

Il titolo I Disposizioni urgenti per la tutela, il restauro e la valorizzazione del patrimonio culturale italiano abbraccia tematiche assai differenti fra di loro:

riqualificazione ambientale e valorizzazione dell’area pompeiana, digitalizzazione del patrimonio culturale italiano, sviluppo di biblioteche e archivi e promozione della recitazione e della lettura, realizzazione del Museo nazionale dell’ebraismo italiano e della Shoah, realizzazione di centri di produzione di arte contemporanea.

Nelle pieghe dell’articolo 4 troviamo due commi (2 e 3) molto importanti per chi da anni aspetta una presa di posizione del Governo rispetto al tema dell’accesso aperto alla ricerca finanziata con fondi pubblici:

2. Le pubblicazioni che documentano i risultati di ricerche finanziate per una quota pari o superiore al cinquanta per cento con fondi pubblici, indipendentemente dal formato della prima pubblicazione e dalle modalità della sua distribuzione o messa a disposizione del pubblico, devono essere depositate, non oltre sei mesi dalla pubblicazione, in archivi elettronici istituzionali o di settore, predisposti in modo tale da garantire l’accesso aperto, libero e gratuito, dal luogo e nel momento scelti individualmente, l’interoperabilità all’interno e all’esterno dell’Unione Europea e la conservazione a lungo termine in formato elettronico. I soggetti preposti all’erogazione o alla gestione dei finanziamenti adottano le misure necessarie per l’attuazione dell’accesso aperto ai risultati della ricerca finanziata con fondi pubblici.

3. Al fine di ottimizzare le risorse disponibili e di facilitare il reperimento e l’uso dell’informazione culturale e scientifica, il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo ed il Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca adottano strategie coordinate per la piena integrazione, interoperabilità e non duplicazione delle banche dati rispettivamente gestite, quali quelle riguardanti l’anagrafe nazionale della ricerca, il deposito legale dei documenti digitali e la documentazione bibliografica .[grassetto nostro]

Sorprende un po’ vedere che una iniziativa così importante per la ricerca  non sia stata promossa dal MIUR, che dimostra in questo modo ancora una volta la sua arretratezza  non solo rispetto ad altri paesi europei ma anche internamente rispetto ad altri Ministeri. Tuttavia è importante sottolineare che questo è il primo atto significativo dopo la Dichiarazione di Messina del 2004, sottoscritta in varie fasi dalla quasi totalità degli atenei italiani e altrettanto quasi totalmente disattesa. Con la pubblicazione del Decreto l’Italia si allinea alla politica della EC prevista per una parte dei finanziamenti FP7 (il 20% dei finanziamenti nelle aree Energy, Environment, Health, Information and communication technologies, Research infrastructures, Science in Society, Socio-economic sciences and Humanities  prevedono il deposito dei lavori negli archivi istituzionali e in Openaire) e per la totalità dei finanziamenti di Horizon 2020.

Nel corso di questi anni molti atenei e istituzioni italiane si sono dotati di archivi istituzionali (Opendoar www.opendoar.org/  ne elenca 65) che hanno varie politiche di popolamento: in alcuni casi raccolgono l’intera produzione scientifica, con una minima parte di PDF delle pubblicazioni (esempi di questo tipo sono AIR http://air.unimi.it  o BOA http://boa.unimib.it ) in altri raccolgono solo i lavori di cui è inserito anche il PDF. In altri casi ancora il PDF è archiviato ma non risulta nella maggior parte dei casi consultabile (http://porto.polito.it/).

Alcuni enti finanziatori della ricerca italiani hanno adottato negli anni passati una policy di accesso aperto alle ricerche finanziate (Telethon, Cariplo), vale a dire che le pubblicazioni sono o pubblicate in riviste ad accesso aperto  o autoarchiviate in repository istituzionali e/o disciplinari. Di recente anche alcuni atenei si sono dotati di regolamenti (Università di Torino) o policy (Università di Trieste) che prevedono l’accesso aperto ai risultati della ricerca e la CRUI ha approvato in giugno un modello di policy e un modello di regolamento per l’accesso aperto a cui gli atenei si possono ispirare.

Il problema dello scarso popolamento degli archivi è spesso legato ai diritti d’autore (tendenzialmente a una scarsa conoscenza dei diritti o ad una loro gestione sommaria o alla non consapevolezza di cosa si è ceduto in sede di firma di contratto), e al fatto che il singolo ricercatore o il singolo ateneo hanno scarso potere contrattuale nella gestione dei contratti con gli editori.

Ora che esiste un decreto che prevede a livello nazionale l’obbligo di deposito negli archivi, sarà necessario per gli editori un aggiustamento delle politiche. Cosa a cui gli editori stranieri sono già abituati per cui di solito dichiarano la propria compatibilità con le politiche nazionali (come nel nostro caso) o con quelle degli  enti finanziatori della ricerca (come è già avvenuto con Cariplo e Telethon).

Per quanto riguarda gli editori italiani, che pubblicano soprattutto (anche se non solo) lavori di ambito umanistico, in particolare miscellanee e monografie, il vincolo posto dal decreto si colloca in una situazione in cui i lavori abitualmente  finanziati dagli atenei sono quelli per i quali, per specificità delle tematiche e per target, l’editore non si assume il rischio di impresa, e che restano in libreria (quando ci arrivano) solo per pochi giorni. L’obbligo di rendere questi lavori accessibili negli archivi istituzionali rappresenta senza dubbio uno stimolo a produrre opere di qualità ed una occasione per diffondere e far conoscere ad un pubblico più ampio lavori che altrimenti pochi leggerebbero.

Il tipo di accesso aperto prescritto dal Decreto “Valore cultura” è un green open access, vale a dire la ripubblicazione di lavori finanziati per almeno il 50% con fondi pubblici in archivi istituzionali e o disciplinari. Il vincolo di obbligo di deposito riguarda dunque sia le pubblicazioni finanziate direttamente dagli atenei (tipicamente, ma non solo, le pubblicazioni di ambito umanistico), sia le pubblicazioni frutto di finanziamenti di progetti (PRIN, FIRB ad esempio). Queste prevedono che nella rendicontazione vengano elencate le pubblicazioni a cui il finanziamento ha dato luogo. Auspicabilmente, l’indicazione dovrebbe essere anche posta nei metadati delle pubblicazioni negli archivi stessi, rendendo pubblica questa informazione ed evitando così il rischio di finanziamenti multipli di una stessa ricerca.

Il Decreto implica per quelle strutture che ancora non si sono dotate di un archivio aperto una necessità di adeguamento che potrebbe risolversi in alcuni casi anche in maniera consortile (ad esempio più atenei che condividono lo stesso archivio o un archivio centrale che raccolga i lavori di quegli atenei che non hanno un archivio istituzionale).

Un punto che non risulta del tutto equilibrato è la durata dell’embargo. Anche la EC distingue fra ricerca negli ambiti delle scienze dure (per cui sono previsti 6 mesi di embargo) e ricerca nell’ambito delle scienze umane e sociali (per cui sono previsti 12 mesi di embargo). Forse la durata andrebbe ricalibrata sugli ambiti disciplinari. E in effetti, il fatto che venga fissata la quota di finanziamento del 50% rende la norma potenzialmente aggirabile in quanto di difficile verifica.

Molto positivo è invece il fatto che il Decreto preveda integrazione e interoperabilità fra gli strumenti e le banche dati dei diversi soggetti coinvolti. Il riferimento alla anagrafe nazionale della ricerca (ANPREPS) e alla banca dati nazionale delle tesi di dottorato è esplicito. Sembra dunque che sia stata recepita la richiesta degli atenei (parecchi) che gestiscono già una anagrafe della ricerca locale in linea con gli standard internazionali (e di quelli che raccolgono le tesi di dottorato in full-text) di poter fornire i propri dati alle banche dati ministeriali senza duplicazione di strumenti e, soprattutto, di costi.

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27 Commenti

  1. Ritengo l’open access una buona iniziativa, ma al momento ritengo pericoloso che vengano prese posizione drastiche come quella di imporre che tutte le pubblicazioni siano open per via dei costi (a mio parere non del tutto giustificati) richiesti per le pubblicazioni. Alcune riviste chiedono migliaia di dollari per una pubblicazione, costo che non puo’ ovviamente essere sostenuto se non finanziato a priori.
    L’iniziativa dell’open access dovrebbe essere accompagnata da una decisa azione di riduzione dei costi di pubblicazione, che secondo me, grazie ad internet, hanno grossi margini per essere ridotti.

    • Continuerò a pubblicare gratis su riviste di buon livello a pagamento come ho sempre fatto. Posso depositare un reprint alla biblioteca. Da li in poi non può essere più un problema mio. Siamo matti?

  2. Il testo però non dice che si deve pagare per pubblicare. L’obbligo riguarda il deposito negli archivi istituzionali o disciplinari dei risultati delle ricerche finanziate almeno al 50% con fondi pubblici.

    • il punto mi pare importantissimo. una cosa è pubblicare a pagamento, altro è avere avuto fondi per svolgere una ricerca, pubblicata poi senza pagare, e doverla rendere ad accesso aperto.
      premesso che l’open access è una bellissima cosa, mi chiedo perché un editore come laterza o einaudi dovrebbe mettere in open access testi sulla cui vendita si basano le proprie possibilità di sopravvivenza economica…

    • Su ArXiv L’utente finale non solo accede liberamente ma anche NON paga NULLA.

      Io non ho mai PAGATO. Non ho mai pagato ne per legggere i lavori degli altri, ne per sottomettere un preprint.

      Dato che ho votato la cosa, so che il Dipartimento di Fisica e Astronomia dell’Universita’ di Padova versa un contributo. Ma e’ completamente volontario.

      Ripeto, tutti possono accedere liberamente e gratuitamenete al sito. Non c’e’ bisogno di avere un PROXY particolare o una qualche password per poter scaricare i lavori presenti nell’archivio.

  3. @Thor Da li in poi non può essere più un problema mio.

    Veramente non lo so se non è più un problema suo. Dipende da che forma prenderà il decreto una volta che sarà stato trasformato in legge. Quanto alla libertà di pubblicare dove le pare ci mancherebbe altro!

    • La qualità della pubblicazione ha un costo. Per le riviste a pagamento viene coperto dagli abbonamenti mentre per l’accesso libero dall’autore. Da qui non si scappa. Mi auguro non sia una mossa per tagliare i fondi per gli abbonamenti costringendo per di più l’autore a pagare l’open access al proprio lavoro. In questo caso molti non potrebbero più pubblicare.

    • Caro Baccini, hai ragione ma non sarà certo l’Italia a cambiare il comportamento delle riviste riguardo al mercato. Direi anzi che l’Italia con le regole medianiche sta dando una mano alle riviste. Sarò pessimista, ma vedo solo tagli all’orizzonte.

  4. @Thor …non sarà certo l’Italia a cambiare il comportamento delle riviste riguardo al mercato.
    Intanto si potrebbe cercare di far cambiare il comportamento ai ricercatori. I matematici o i fisici o gli informatici hanno già l’abitudine di rendere disponibili a tutti i propri lavori. In altre comunità scientifiche si comincia a riservarsi il diritto di archiviazione nel repository della propria istituzione.
    Il fine di questa norma è a mio parere corretto e risponde a criteri di trasparenza: La libera consultabilità e la conservazione della ricerca finanziata con fondi pubblici. Che poi le modalità per raggiungere questo fine siano un po’ più articolate di quanto espresso nella norma è altrettanto vero. Ma è un inizio su cui costruire.

    • Esistono regole e leggi sul copyright che non possono essere violate. Consentire alla casalinga in Australia di leggersi liberamente gli articoli scientifici pubblicati su riviste a pagamento non è possibile. Chi lo rende possibile paga, evidentemente, qualcosa alla rivista (non ho ben capito se alla Cornell funziona così). Nel mio settore esistevano database dove i preprint venivano poi cancellati al momento della pubblicazione effettiva. Sul repository istituzionale non ho nulla in contrario a patto che non mi costi un centesimo. Non vedo proprio cosa debba fare un ricercatore preso fra i mille fuochi dei bandi dei finanziamenti, delle abilitazioni, della scarsità dei fondi, delle biblioteche che piangono miseria chiedendo soldi in modo uguale a tutti senza andare dai gruppi più potenti, ecc…

  5. Non si tratta di violare le leggi sul copyright. Se parliamo di diritti ceduti all’editore, l’autore non è costretto a cedere tutti i diritti o a cederli tutti in via esclusiva. Può contrattare ad esempio il diritto ad autoarchiviare il proprio lavoro nel repository della sua istituzione, soprattutto se ha alle spalle una legge che glielo impone (pensi a FP7 e alla clausola 39 http://www.openaire.eu/en/component/content/article/45-open-access-pilot/146-open-access-pilot-fp7-rationale
    Sul sito Sherpa Romeo http://www.sherpa.ac.uk/romeo/ si possono consultare le policies degli editori rispetto a dove (tendenzialmente repository istituzionali), quando (eventuale periodo di embargo) e quale versione (preprint, post print, versione editoriale)autoarchiviare. Alcuni editori permettono anche l’archiviazione del PDF editoriale http://www.sherpa.ac.uk/romeo/PDFandIR.php?la=en.
    Quanto all’accesso ai lavori di ricerca, non è solo la casalinga australiana, o quella francese che non vi può accedere, ma anche tutti quei colleghi le cui istituzioni hanno dovuto decidere di chiudere i contratti con i grandi editori (perché insostenibili economicamente), o con i piccoli editori (perché tutte le risorse sono assorbite dai contratti coi grandi editori).

  6. Questa idea di dover obbligatoriamente rendere accessibili i propri articoli mi preoccupa un po’.
    Esempio pratico: nella chimica, l’editore più prestigioso è ACS, American Chemical Society. ACS non permette di postare gli articoli su alcun sito, tuttavia ha una politica definita AuthorChoice http://pubs.acs.org/page/policy/authorchoice/index.html
    Ovvero: l’istituzione o il singolo ricercatore paga e ACS fornisce accesso più o meno libero all’articolo. Diverse istituzioni americane e britanniche effettivamente richiedono che i risultati delle ricerche da loro finanziati siano resi disponibili in forma aperta.
    Perché la situazione nell’università italiana è radicalmente diversa e penso che questo decreto sia pericoloso?
    L’opzione “open access” dell’ACS ha un costo non indifferente, che varia dai 3000 ai 1000 dollari americani per singolo articolo. Chi sostiene questo costo? Il decreto parla di obblighi, ma non mi risulta che fornisca le risorse per adempiere a queste prescrizioni. I fondi PRIN per il 2013 sono in totale 39 milioni che euro, che idealmente divisi per i ricercatori e docenti strutturati italiani sono meno di 800 euro a testa. Pensare che da questi soldi si debba anche ricavare una quota per l’accesso libero alle pubblicazioni è molto discutibile. Inoltre, c’è un aspetto che ha evidenziato molto bene Thor: a chi giova tutto questo?
    In pratica, tutte le istituzioni scientifiche italiane e mondiali che si occupano di chimica hanno una sottoscrizione ad ACS. Se qualcuno che non ha un accesso istituzionale (la casalinga australiana) decidesse di leggere un articolo ACS, non ha senso investire 1000 dollari… sarebbe più conveniente regalargli i 30-40 dollari per scaricarsi il reprint dal sito ACS.
    In conclusione, se il decreto fosse approvato così come prospettato, rischierebbe di avere delle conseguenze nefaste. O si smette di pubblicare su riviste di prestigio o si viola quello che sarà la legge, in quanto non vi sono risorse sufficienti per adempiere agli obblighi previsti. A meno che questa non diventi l’ennesima “legge intuile” che non risulta applicabile.

  7. Non si tratta di rendere obbligatoriamente accessibili i propri articoli, ma solo le pubblicazioni esito di ricerche finanziate per il 50% e oltre con fondi pubblici.
    ACS è un buon esempio perché è un editore che ha politiche piuttosto restrittive, e tuttavia vediamo che con un adeguato embargo l’autoarchiviazione è possibile proprio nel caso di una politica di obbligo di deposito istituzionale o dell’ente finanziatore. http://www.sherpa.ac.uk/romeo/search.php?id=4&la=en&fIDnum=all&mode=simple&format=full. In sede di firma di contratto si farà funque presente all’editore che esiste un obbligo di deposito a livello nazionale.COme fanno ad esempio i ricercatori che ricevono finanziamenti da NIH.
    Il DL non dice di pubblicare OA, ma di autoarchiviare il proprio lavoro in un repository istituzionale.
    A chi giova tutto questo? direi a quelle istituzioni (non solo università) che pur avendo un settore di chimica non hanno un abbonamento alle riviste ACS, oppure ai ricercatori di aree diverse ma affini (medicina, biologia, farmacologia)laddove l’istituzione ha scelto di sottoscrivere un abbonamento a RSC rinunciando ad es.ad ACS ecc.

    • Il decreto sembra scritto da chi non ha mai gestito un gruppo di ricerca e non ha idea della situazione della ricerca in Italia.

      1) L’accesso libero agli articoli in un database aperto, anche se istituzionale, ha un costo e non piccolo: per ACS (American Chemical Society) varia da 3000 a 1000 dollari.

      2) Chi opera nella chimica in Italia si trova a gestire fondi che sono in modo ottimistico dell’ordine di 10.000 euro l’anno per ricercatore. In questa situazione, pubblicare su ACS un paio di articoli può erodere sensibilmente il budget per la ricerca (se assumiamo il costo medio di 2000 dollari ad articolo e il cambio 1E=1.33 US $ abbiamo una riduzione del 30% circa per due soli articoli!)

      3) NIH (National Institute of Health) ha effettivamente una politica di dover garantire l’accesso libero alle pubblicazioni derivanti da progetti da loro approvati, ma i finanziamenti erogati sono dell’ordine delle centinaia di migliaia di dollari, nulla a che vedere con i finanziamenti ottenibili in Italia.

      4) Per ACS in particolare, chi invia un articolo da essere considerato in una eventuale pubblicazione, non firma nessun “contratto”. Può solo accettare di trasferire il copyright ad ACS, se non accetta semplicemente il suo articolo non è neppure inviato ai referee e rimandato al mittente. Non esiste nessun potere contrattuale verso ACS da parte dei potenziali autori e il decreto non cambia questa situazione di una virgola.

      5) Cosa succederebbe nel caso tutt’altro che ipotetico che un ricercatore italiano ha un articolo accettato sul più prestigioso giornale di chimica ACS, Journal of the American Chemical Society, e non ha i soldi per depositarlo nell’archivio istituzionale?? Ritira l’articolo? Ce li mette lui di tasca propria??

      6) Non è proponibile che gli archivi istituzionali nei quali sono contenuti solo articoli di autori italiani possano in qualche modo surrogare l’accesso istituzionale ad ACS (sito sul quale sono contenute pubblicazioni di studiosi da tutto il mondo) o editori simili.
      In ultima analisi, ben venga un database istituzionale che contenga tutti gli articoli pubblicati in seguito ad un finanziamento pubblico. Tuttavia, ci si deve rendere conto che questo ha un costo niente affatto trascurabile, e che l’idea di tagliare ancora di più i finanziamenti alla ricerca per garantire un accesso aperto alle pubblicazioni è molto discutibile. E’ incomprensibile che un decreto preveda obblighi ma non destini risorse specifiche per adempiere a questi obblighi. O si trovano le risorse oppure spero che il decreto non sia mai convertito in legge.

  8. @marco bella Il decreto sembra scritto da chi non ha mai gestito un gruppo di ricerca e non ha idea della situazione della ricerca in Italia.
    Assolutamente d’accordo.
    Rispetto al punto 1 quello di cui parla è l’open access gold. Che ACS indichi che la strada per poter essere compliant con i diversi mandati è in prima battuta questa, è una scorrettezza, ma è anche legata al tipo di politica adottata in UK dai Research Councils http://www.rcuk.ac.uk/documents/documents/RCUKOpenAccessPolicy.pdf. Se però legge sul sito di ACS esiste anche un’altra opzione. L’opzione B, che è a costo 0 http://pubs.acs.org/page/policy/nih/index.html. Se esiste un obbligo di deposito gli editori non possono non riconoscerlo. E se ci sono editori come ACS che necessitano un accordo con l’ente che richiede il deposito dei lavori negli archivi istituzionali credo che sia compito del ministero stipulare questo accordo (così come è stato fatto da NIH).
    Quanto al punto 6) un archivio istituzionale raccoglie la produzione scientifica dell’istituzione. Indipendentemente dalla nazionalità degli autori. Gli archivi istituzionali non sostituiscono affatto l’accesso istituzionale ad ACS, e proprio per questo una politica così restrittiva è assurda.
    Gli editori accademici dovrebbero in prima battuta essere al servizio della comunità accademica. Non viceversa.

  9. Con l’art. 4 del DL si viene a creare finalmente anche in Italia un dibattito costruttivo sull’open access delle pubblicazioni scientifiche finanziate con fondi pubblici. Le istituzioni accademiche dovranno assumere atteggiamenti, decisioni e prassi editoriali in modo più trasparente. Il tutto andrà a beneficio dei ricercatori perché il loro lavoro avrà un maggiore impatto nella propria comunità scientifica di rferimento; idem per le istituzioni accademiche che potranno realmente manifestare alla comunità scientifica internazionale il valore delle ricerche finanziate; idem per i giovani ricercatori e per gli studenti che potranno acquisire senza costi gli strumenti dell’apprendimento accademico.
    Se invece a dolersene saranno alcuni editori, non facciamone un problema. Ci sono regole di concorrenza e competitività che supporteranno in modo adeguato una nuova filiera del libro scientifico in libero accesso.
    Giovanni Sica

  10. @Paola Galimberti
    Molte grazie per il Link sull’open access “opzione 2” dell’ACS, che non conoscevo. Effettivamente, c’è una possibilità di postare in modo corretto i propri articoli in versione “preprint”. Tuttavia, il periodo di “embargo” per ACS è di 12 mesi, non sei come prescritto dal decreto legge. Inoltre, non sono sicuro che i 12 mesi siano automaticamente estensibili alla situazione italiana. Dubito fortemente che ACS possa cambiare la propria politica alla luce di questo decreto. Una cosa è NIH, National Institute for Health, che è un’istituzione Americana e un’altra cosa il governo di un altro stato.
    Ad oggi, se esistesse l’obbligo di rendere universalmente accessibili le proprie pubblicazioni finanziate tramite fondi pubblici su ACS dopo sei mesi le opzioni sono solo quattro:

    1) Si paga una cifra che varia dai 1000 ai 3000 dollari ad ACS.

    2) Si pubblica su ACS e si disattende il decreto non depositando l’articolo nei tempi previsti.

    3) Si pubblica su ACS e si infrange il copyright rendendo accessibile l’articolo dopo solo sei mesi.

    4) Non si pubblica su ACS, con tutti i danni derivanti dal caso.

    @ Giovanni Sica
    Per quello che ho potuto leggere, il decreto non tocca affatto le istituzioni ma i singoli ricercatori, aggiungendo un obbligo ulteriore che è quello di trovare il modo (per nulla semplice) di rendere accessibili le proprie pubblicazioni dopo solo sei mesi senza infrangere il copyright. Soprattutto, non sono previste affatto risorse aggiuntive per questo obbligo, per cui se si vorrà comunque pubblicare con alcuni editori i lavori in forma open access si dovranno destinare parte dei propri scarsi fondi di ricerca personali alla puibblicazione. Se si applicasse in modo rigoroso la legge, questo colpirà in primis proprio i giovani ricercatori che cercano di lavorare in modo indipendente. Per quanto riguarda gli studenti, almeno per quanto riguarda quelli della mio corso di Laurea nel mio ateneo, hanno assolutamente accesso a tutte le pubblicazioni a cui ho accesso io stesso. Per quanto riguarda la mia situazione specifica (ma potrebbe essere diversa in altri ambiti come quello ad es. umanistico che non conosco a fondo) il decreto introduce sono ostacoli e benefici molto molto marginali.

    • In Italia ci sono già da tempo “cantieri aperti” di editori che realizzano pratiche di accesso libero alla versione digitale delle pubblicazioni di ricerca accademica.
      Il termine “editori” va inteso ovviamente nell’accezione più ampia di “ente, istituzione, società scientifica, impresa privara, ecc.. che pubblicano testi scientifici in libero accesso…”
      Se si legiferasse nei termini dell’art. 4 dl, le università e qualunque istituzione pubblica, che finanziasse ai sensi della legge una ricerca, sono – a mio parere – obbligate a darsi un regolamento interno che attui quanto previsto dalla legge. L’università di Torino ha già emanato un regolamento che in buona parte va in questa direzione e che si rinforza “in diritto” della nuova normativa.
      Va da sè che si verranno a creare nuove condizioni di concorrenzialità e competitività nel mercato editoriale di quanti vorranno percepire i cd. contributi alla pubblicazione, riservati oggi alle pubblicazioni a stampa e un domani estesi anche alle versioni elettroniche delle pubblicazioni finanziate con fondi pubblici e – in quanto tali – in open access.

  11. I diversi punti di vista presenti nei commenti finora apparsi mi sembra che dimostrino ampiamente (se mai ce ne fosse stato bisogno) le differenze abissali di prospettiva tra settori diversi. Ed e’ anche chiaro che le soluzioni che funzionano o possono fuinzionare in un settore difficilmente potranno funzionare in un altro (l’ equivalente di ArXiV in un settore umanistico in cui si pubblichino principalmente libri presso editori italiani mi sembra di difficile implementazione, non fosse altro per le differenze tra copyright e diritto d’autore; non dimentichiamo poi che qui in Italia abbiamo quello strano oggetto che si chiama SIAE).

    La parte assolutamente condivisibile dei commenti e’ che una pubblicazione open-access su riviste straniere allo stato attuale si paga, e non poco, ma i finanziamenti per la ricerca non sono cresciuti in corrispondenza di questa ennesima petizione di principio scritta evidentemente per il magico mondo dei nostri legislatori e non per quello reale in cui lavoriamo.

    Anche l’ escamotage del self-archiving ha i suoi costi pero’. Quanto tempo devo perdere per studiarmi rivista per rivista le politiche sul copyright e sul self-archiving che variano nel tempo e con l’ editore ?
    E questo tempo devo sommarlo a quello che perdo per studiare i deliri dell’ anvur in fatto di valutazione, dei tanti regolamenti di ateneo, di tutte le mini-differenze tra un anno e l’ altro nelle regole di rendicontazione o di accesso a finanziamenti,…
    Sempre piu’ spesso mi chiedo cosa avrebbero mai combinato in Fisica i vari Galilei, Newton, Einstein, etc. se avessero dovuto operare in Italia oggi.

    E questa sarebbe la “semplificazione burocratica” di cui si fa gran sfoggio sui media?

    Quanto all’ idea che tutto questo potra’ modificare le condizioni di mercato, per certi settori e’ pura fantascienza.

    Comunque, tutto questo puo’ essere gran rumore per nulla in quanto nello stesso art. 4 fa esplicito riferimento alla mitica anagrafe nazionale della ricerca di cui non si vede ancora traccia sui radar del MIUR.

    • Forse vale la pena di rileggere le FAQ sull’Open Access elaborate qualche tempo fa da Maria Chiara Pievatolo https://www.roars.it/accesso-aperto-che-cose-f-a-q-answers/
      La cosa che trovo sempre abbastanza sorprendente è che l’Open Access riguarda la ricerca e i ricercatori. La trasparenza dei processi di validazione e pubblicazione dei loro lavori.Non è qualcosa che riguarda qualcuno o qualcosa d’altro. L’accesso aperto garantisce alle comunità scientifiche una trasparenza e un controllo sul lavoro dei colleghi (autori e revisori) che la pubblicazione in recinti chiusi non permette (o non permette a molti). Esistono banche dati (Sherpa Romeo) che raccolgono le politiche dei maggiori editori stranieri, facilmente consultabili, e per chi pubblica in Italia esistono i contratti di edizione.
      L’editore per pubblicare non ha bisogno di farsi cedere tutti i diritti. Spesso basterebbe riservarsi quello di ripubblicazione in un archivio istituzionale. A maggior ragione se i lavori vengono pubblicati con un contributo dell’istituzione.
      Quanto all’anagrafe della ricerca, tutta l’infrastruttura tecnologica è presente.
      Ma la gestione non può essere come sempre “senza ulteriori oneri per lo Stato”.

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