Qualche mese fa sono stato sorteggiato come commissario per una procedura valutativa e avendo letto la Delibera n. 209/2017 dell’ANAC, ho dichiarato i «rapporti a qualsiasi titolo intercorsi o in essere» con l’unico candidato. Non ero parente del candidato. Non esisteva fra noi una «comunione di interessi economici o di vita».  Il candidato non era neppure mio allievo e lavorava in un’università diversa dalla mia. Solamente, io e il candidato siamo stati, in anni diversi, allievi dello stesso maestro. La responsabile del procedimento mi ha invitato a dimettermi, cosa che ho fatto immediatamente. Si è cercato di risolvere il problema della giustizia dei concorsi trasformando il merito in numeri e imponendo una rete di regole sempre più complessa, dettagliata e opprimente. Il risultato è sotto gli occhi di tutti.  Si continua invece a parlare troppo poco delle anomalie che si traducono in altrettante distorsioni dello stesso criterio meritocratico. È illegittima l’aspettativa di chi, dopo essersi impegnato per anni e spesso gratuitamente, con carichi importanti di didattica, esami, ricerca  e perfino organizzativi, si considera un “precario” che dovrebbe vedere infine riconosciuta la qualità del suo lavoro? Chi non ce la fa a rispondere con un “sì” netto deve avere il coraggio di pretendere l’azzeramento di queste situazioni e non contribuire in alcun modo al loro mantenimento, neppure con l’argomento che altrimenti “si chiude”. È meglio chiudere, costringendo finalmente chi ci governa ad assumersi la responsabilità di quanto sta accadendo, che sfruttare le doti, le speranze e la passione dei tanti giovani la cui dignità è oggi più a rischio di quella dei loro professori.

 

 

Qualche mese fa sono stato sorteggiato come commissario per una procedura valutativa. Si trattava di un “concorso” particolare, riservato (a norma di legge) ai ricercatori in servizio presso l’università che lo bandiva e in possesso della abilitazione scientifica nazionale. In buona sostanza: un avanzamento di carriera, che si potrebbe garantire a chi lo merita in modo molto più semplice e rapido. Avendo letto (e commentato in un articolo) la Delibera n. 209/2017 dell’Autorità nazionale anticorruzione che già si occupava di questo tema e avendo seri dubbi sul modo di interpretarla, mi sono attenuto scrupolosamente a quanto in essa indicato: ho dichiarato all’Amministrazione dell’ateneo interessato i «rapporti a qualsiasi titolo intercorsi o in essere» con l’unico candidato. La responsabile del procedimento, con una decisione che considero ineccepibile, mi ha invitato a dimettermi, cosa che ho fatto immediatamente. Sono stato prontamente sostituito e il ricercatore in questione è adesso in attesa della meritata “presa di servizio” come professore associato.

Non ero parente del candidato. Non esisteva fra noi – cito sempre la Delibera dell’ANAC – una «comunione di interessi economici o di vita» che presentasse i caratteri di sistematicità, stabilità, continuità propri di un «sodalizio professionale». Non avevo firmato insieme a lui oltre il novanta per cento delle pubblicazioni presentate, per richiamare l’esempio contenuto nella bozza dell’Aggiornamento 2017 al Piano Nazionale Anticorruzione che dedica ampio spazio all’università e che è stata oggetto di una consultazione pubblica da poco conclusa. Il candidato, infine, non era neppure mio allievo e lavorava in un’università diversa dalla mia. Ma ci sono altri tipi di rapporto che possono mettere a rischio l’indipendenza e l’obiettività del giudizio o far comunque temere tale possibilità e che per questo mi è sembrato doveroso dichiarare.

Tutti coloro che hanno l’onore e il privilegio di fare il mio mestiere sanno che il “legame” più forte, tanto che per parlarne viene spesso utilizzato proprio il vocabolario delle relazioni familiari, è quello che si crea nel rapporto fra un “maestro” e i suoi allievi, che con lui e dopo di lui arrivano in molti casi a costruire una “scuola”. Il lavoro accademico è impensabile senza questo rapporto. Ma è semplicemente impossibile immaginare che non si creino così «relazioni personali» che possono condizionare un commissario nel momento in cui si trova a giudicare appunto i suoi insieme agli altri. E spingere tutti a “non fidarsi” di quello che potrebbero fare i colleghi. Io e il candidato siamo stati, in anni diversi, allievi dello stesso maestro e dopo la sua prematura scomparsa  abbiamo cercato insieme ad altri di custodire l’eredità del suo pensiero e delle tante e importanti attività scientifiche da lui promosse. Se ci fossero stati altri candidati, non si sarebbero sentiti rassicurati dalla constatazione che non siamo avvocati o ingegneri che lavorano nello stesso studio professionale.

«La cooptazione – lo ha ribadito Raffaele Cantone in un’intervista di pochi giorni fa – non è un male in sé, non lo sono le scuole, non lo è certo il rapporto docente-allievo». Il problema è quello della giustizia dei concorsi, da assicurare «sulla base del merito». Si è cercato di risolverlo trasformando il merito in numeri (i misteriosi algoritmi dell’ANVUR) e imponendo una rete di regole sempre più complessa, dettagliata e opprimente. Il risultato è sotto gli occhi di tutti. E quel che è stato possibile fare nel mio caso per una procedura locale, oltretutto sforzandosi di interpretare indicazioni tutt’altro che chiare, diventerebbe semplicemente impossibile per una commissione di abilitazione nazionale. Si otterrebbe la paralisi e non la salvezza del sistema.

La via breve dei numeri e delle regole è utile per evitare che possa diventare ordinario chi non ha scritto nulla o che una cattedra, in qualche dipartimento, si trasmetta di padre in figlio. Il taglio necessariamente netto di una norma giuridicamente vincolante deve tuttavia fermarsi a un certo punto, come accade per i gradi di parentela. E devono comunque essere ridotti al minimo, se non si vuole aumentare anziché ridurre il contenzioso, i margini di discrezionalità su quel che si deve dichiarare e quel che deve essere considerato rilevante per far scattare una incompatibilità, trovando un punto di equilibrio che valga senza equivoci per tutti. Questo non basterà probabilmente a risolvere il problema delle tante e diverse ragioni per le quali ci possiamo trovare in una situazione di conflitto di interessi e che siamo magari i soli a conoscere, a partire da quelle indissolubilmente e virtuosamente legate alla natura dell’attività scientifica e accademica. Senza dimenticare che le “inimicizie”, non meno delle “fratellanze”, possono creare condizionamenti insidiosi.

Per questo occorre lavorare sulla via lunga di un’etica personale e collettiva che allarghi gli spazi di un’astensione facoltativa praticabile senza timore e sensi di colpa per la possibile penalizzazione di chi ci è vicino e costringa chi cede alla tentazione di indebiti favoritismi nell’angolo della vergogna e dell’emarginazione: pochi numeri, le regole indispensabili (ovviamente fatte rispettare con rigore) e sempre la “faccia” ben riconoscibile di chi affida a qualcuno la responsabilità di diventare professore. Controlli e verifiche puntuali sull’attività e i risultati ottenuti dai nuovi docenti e ricercatori, più “visibili” e anche più incisivi nei loro effetti di quelli che già sono stati introdotti, devono rendere chiaro a tutti che i commissari e i dipartimenti che promuovono chi non lo merita non avranno per sempre le risorse per continuare a sbagliare.

Su questo molti sono ormai d’accordo. Così come sulla impossibilità di una politica del merito che si fondi non sulla retorica di circostanza ma sulla disponibilità di finanziamenti che almeno si avvicinino a quelli messi a disposizione del sistema universitario in altri paesi. Si continua invece a parlare troppo poco, purtroppo, della necessaria opera di disboscamento delle anomalie e iniquità che si traducono in altrettante distorsioni dello stesso criterio meritocratico. Un esempio per tutti: è illegittima l’aspettativa di chi, dopo essersi impegnato per anni e spesso gratuitamente attendendo il suo momento, con carichi importanti di didattica, esami, ricerca  e perfino organizzativi, si considera un “precario” che dovrebbe vedere infine riconosciuta la qualità del suo lavoro? Chi non ce la fa a rispondere con un “sì” netto deve avere il coraggio di pretendere l’azzeramento di queste situazioni e non contribuire in alcun modo al loro mantenimento, neppure con l’argomento che altrimenti “si chiude”. È meglio chiudere, costringendo finalmente chi ci governa ad assumersi la responsabilità di quanto sta accadendo, che sfruttare le doti, le speranze e la passione dei tanti giovani la cui dignità è oggi più a rischio di quella dei loro professori.

 

Testo già apparso su Corriere.it

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12 Commenti

  1. Bisogna riflettere sul fatto che la cooptazione è utilizzata in tutto il mondo universitario occidentale, l’unica differenza è come viene fatta, cioè tramite concorso oppure in via più o meno diretta tramite un’assunzione di responsabilità da parte di chi assume.
    Il problema della cooptazione non è la cooptazione in sé (che va bene), ma la deresponsabilizzazione che il sistema del concorso necessariamente pone in atto. Da qui anche le relative ipocrisie di chi dice che si trova in un determinato posto “perché ha vinto un concorso”. Cosa tecnicamente vera e giuridicamente cogente, ma si omette ovviamente il fatto che il concorso è stato pensato da qualcuno.
    Anche fuori Italia è così, bisogna ribadirlo. In Francia è uguale, forse peggio. Nel mondo anglosassone funziona come sappiamo attraverso una più diretta assunzione di responsabilità. C’è anche da dire però che il mondo anglosassone è comunque diverso; per esempio non c’è in linea di massima il valore legale del titolo di laurea, un fatto non da poco.
    In ogni caso, la cooptazione non è il problema, il problema è l’assunzione di responsabilità da parte di chi coopta.

  2. La norma in oggetto non risolve il problema.
    E se il valutatore (in astratto) fosse amico intimo del maestro del valutato pur non avendo mai visto in faccia il valutato?
    E poi, scusate, interviene l’Anac e non il Miur?
    Mi ritorna in mente un personaggio storico vissuto ai tempi di Gesù, che, in qualche modo, aveva a che fare con l’acqua e con la pulizia delle mani,
    a voi no?

  3. @Stefano Semplice
    “La responsabile del procedimento mi ha invitato a dimettermi, cosa che ho fatto immediatamente.” Sono allibito, quello che lei candidamente afferma è, a mio modesto parere, semplicemente una notitia criminis. E’ inaccettabile sul piano giuridico, etico, deontologico, formale e sostanziale che un responsabile del procedimento induca un docente universitario a rinunciare ad un diritto/dovere, quello di partecipare ai lavori di una commissione di cui faceva legittimamente parte, modificando sostanzialmente il percorso di un atto amministrativo ed una procedura di valutazione comparativa senza alcuna motivazione valida. Sarebbe interessante sapere se questa richiesta sia stata formalizzata per iscritto, cosa che non credo. Nel caso fosse stata formalizzata per iscritto personalmente avrei inviato la lettera al Rettore al fine di valutare elementi di legittimità della richiesta ed alla Procura della Repubblica per una valutazione di eventuali profili penali.
    Quello che Stefano Semplice descrive è emblematica di una cultura del sospetto che nulla hanno a che vedere con l’etica e la correttezza formale sostanziale di una procedura concorsuale contro cui un docente universitario ha il diritto/dovere di ribellarsi.
    Nicola Ferrara

  4. Ma ancora con questa retorica sui concorsi, sulla cooptazione e sulle relazioni fra commissario e concorrente? E’ molto più chiaro di quanto non si voglia credere. Innanzitutto prima era la giungla: concorsi di prima fascia vinti senza una pubblicazione degna di questo nome e senza attività di didattica locale e internazionale degne di nota. E concorsi di ricercatori vinti con pubblicazioni ZERO (per intenderci… concorso perso dal sottoscritto). Oggi il ruolo della commissione è quella di verificare la coerenza e la veridicità dei curricula: per le pubblicazioni, per esempio, la posizione del nome e (più importante) l’essere correspondent author, la presenza costante del “maestro”, l’originalità o l’evoluzione rispetto ai temi del “maestro”, la coerenza sui temi nel tempo ecc. ci dicono tanto sul lavoro del candidato. Per esempio, 20 pubblicazioni con il nome sempre dietro a quello del “maestro”, senza un apporto innovativo rispetto ai temi, senza essere mai autore principale, su mille argomenti non legati da alcun filo conduttore, ci danno delle belle notizie sul candidato. Ma questo è tutto scritto persino negli indicatori di Dublino, nell’atto di valutazione dei nostri studenti (coerenza, autonomia…). Quindi, niente di nuovo. Lo stesso vale per i criteri aggiuntivi: fellowship solitarie non accompagnate da nessun risultato concreto (pubblicazioni comuni, progetti comuni finanziati, ecc.), Visiting fatte dal 12 al 19 agosto o dal 21 dicembre al 3 gennaio (sic!). Tutto questo dovrebbe essere valutato dal commissario. Prima che lo faccia un magistrato. A volte basta far ventilare l’ipotesi del ricorso alla magistratura per avere un concorso equo. Insomma, mi sembra chiaro, e spesso su ROARS se ne parla, che il ricorso preventivo alla magistratura può svolgere un ruolo importante (al netto della tristezza che implica) su due fronti: la garanzia di un concorso libero per il candidato e quella, per il commissario, di non finire sui titoli di Ultim’ora di SKYtg24

  5. Se si decide di far vincere un candidato in dipartimento, si arriva alla soluzione, con o senza ‘compagni di scuola’, caro Semplici. Il Suo è un falso problema. Tutti gli atenei hanno regolamenti tali da permettere la composizione di commissioni in grado di portare a termine l’obiettivo programmato dal dipartimento. Ne va da sè che il concorso si trasformi in una vera e propria farsa. Dispendio di tempo per commissari in trasferta e uffici che impiegano settimane a redigere bandi a prova di ricorsi. La farsa dei concorsi ad esito previsto (al 99%) continua da anni. Con il silenzio assordante della politica che si scandalizza ogni tanto quando qualche volta si inceppa il meccanismo e qualcuno è chiamato a risponderne amministrativamente o penalmente.

  6. piuttosto la classica ipocrisia italica. Personalmente, non trovo in alcun modo scandaloso che un maestro sia nella commissione del concorso dell’allievo, come è sempre accaduto. Sarebbe scandaloso, piuttosto, se il maestro si disinteressasse del percorso accademico degli allievi. Non sarebbe un maestro. Ma, di questi tempi, è di moda fingere che i commissari di concorso siano marziani, che mai hanno incontrato i candidati e mai hanno letto le loro pubblicazioni, prima del concorso. In effetti, il commissario straniero aveva tutti i requisiti formali del marziano. E tutto si è risolto in una buffonata, tale essendo l’idea di partenza. Prescindo dai pur rilevanti profili giuridici: individuazione delle fattispecie di maestro, allievo, comune allievo, etc., oltre all’applicazione fantasiosa e arbitraria di norme giuridiche, da parte di soggetti non legittimati

  7. Cito:
    «La cooptazione – lo ha ribadito Raffaele Cantone in un’intervista di pochi giorni fa – non è un male in sé, non lo sono le scuole, non lo è certo il rapporto docente-allievo».
    L’Anac, dunque, ammette l’esistenza delle “SCUOLE”.
    Se l’Anac avesse approfondito la questione universitaria,
    saprebbe che le “SCUOLE” danno ordini dall’alto.
    L’ORDINE proveniente dalle SCUOLE può benissimo andare al buon fine sia con una commissione che NON conosce il candidato sia con una commissione che conosce il candidato.
    Ciò è dovuto al fatto che la “comunione di interessi” può aversi anche tra collega e collega e non solo (come dice l’Anac) tra allievo e maestro.
    L’Anac dice “no alla comunione di interesse tra maestro e allievo”.
    ma non dice “no alla comunione di interessi tra collega e collega (entrambi ordinari)”,
    semplicemente perché per come è strutturato il sistema italiano, esso si regge proprio sulla comunione tra ordinario e ordinario, all’interno della Scuola e tra le Scuole.
    L’ANAC ignora il funzionamento delle Scuole.
    Dico bene?

  8. Ah, poi mi dimenticavo un’altra cosa assurda:
    nei criteri aggiuntivi ASN c’è il requisito dell’affiliazione di accademie di studiosi di prestigio.
    Questo, cara Anac, potrebbe benissimo portare a fare gruppi e gruppetti, cordate e rivalità.
    Lo richiede le legge e ovviamente ciò incoraggia alla parzialità.
    Legge VS Anac, chi vincerà?

  9. L’ANAC non può discettare su tutto e su tutti. La sua impostazione parte dal presupposto che ognuno ed ogni cosa siano corrotti e quindi cerca di stabilire regole per impedire la corruzione. Così paralizza tutto e favorisce di fatto la corruzione, perchè, se tutte le sue regole sono applicate, la corruzione non c’è. Ed invece è proprio in quel caso che la corruzione c’è o ci può essere. Si cominciò con il certificato antimafia e le ditte che lo esibivano di sicuro erano e sono quelle mafiose. Ora siamo ad un livello di sofisticazione maggiore. Così anche il corrotto si eleva ad un livello di sofisticazione maggiore e la fa franca col beneplacido dell’ANAC. Basta, non se può più. Un commissario che ha tutti i titoli per esserlo, viene estromesso da un funzionario! Roba da pazzi. E chi lo sostituisce chi lo ‘garantisce’ come puro?

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