Una classificazione di Stato delle riviste, con una netta divisione tra riviste di classe A e le altre, è una infelice prerogativa italiana che si aggiunge al semplice ricorso, già oggetto di numerose critiche, a ranking di riviste o a journal-based metrics per la valutazione di individui, e che finisce per incidere sulla stessa libertà della cultura e della ricerca. È particolarmente evidente come una rivista serva non soltanto a validare e diffondere “prodotti di ricerca”, ma a costituire, promuovere, sviluppare un ambiente di discussione, a sottolineare o far emergere tematiche, a operare scelte culturali. La presenza di fattori estrinseci che intervengono da fuori e dall’alto su queste dinamiche sociali e culturali può tuttavia snaturare il senso e gli esiti di una libera produzione e confronto di idee, e arrivare ad introdurre fattori di distorsione dello stesso mercato editoriale. Dalla convinzione di un ruolo che può rivestire e assumere in forme rinnovate l’esistenza delle riviste, è nato il Coordinamento delle riviste italiane di filosofia, al quale hanno dato la loro adesione, fino al momento attuale, ottanta riviste. Il CORIFI non soltanto è aperto alla adesione di riviste di altri ambiti, ma intende promuovere la collaborazione su queste tematiche con altre aree, avviando un dialogo il più possibile vasto ed un’azione comune. Confidando che possano esser le riviste stesse, nel loro libero confrontarsi con la ricerca, le comunità scientifiche, i contesti sociali ed economici, le nuove forme di comunicazione, a decidere del loro destino e del loro ruolo.
A cosa serve una rivista scientifica? Non è proprio una domanda sconcertante come quella celebre di Agostino sul tempo,[1] ma di certo una domanda che oggi può generare qualche imbarazzo. Le riviste stanno cambiando la loro forma fisica, sta mutando il loro contesto economico, il quadro culturale e accademico in cui operano, e naturalmente la loro funzione è coinvolta in questi processi di trasformazione. I cambiamenti sono così radicali che non manca chi – sostenendo che le riviste, da strumenti di diffusione della ricerca sarebbero diventate, con l’eccezione dell’open access, mezzi di limitazione e resistenza alla circolazione delle ricerche – le indica come qualcosa che costituirebbe ormai una “aberrazione”.[2]
Le sfide che investono oggi la vita un tempo tranquilla delle riviste – rendendola in realtà assai inquieta – sono senz’altro molte: dal rapporto tra stampa e diffusione digitale, al peso e alla necessità del confronto internazionale, ai problemi di concentrazione editoriale, alla nuova funzione “simbolica” che esercitano nei processi di valutazione, secondo il modello del trasferimento del valore del contenitore a quello del contenuto. Se da un lato sono numerosi gli elementi che sembrano spingere in favore di una radicale trasformazione del ruolo delle riviste, se non proprio ad un loro superamento, dall’altro emergono nuove funzioni o “usi”, che nella stessa digitalizzazione trovano la loro condizione di possibilità, come quella della produzione di indici bibliometrici o di forme comunque meccanizzate di valutazione. È curioso che, in almeno apparente contraddizione con l’obsolescenza presunta, se non l’aberrazione, costituita dall’esistenza di riviste scientifiche, si assista ad un sorgere frequente di nuove testate, un fenomeno che l’economicità del mezzo elettronico forse favorisce, ma non spiega: non lo spiegherebbe se la loro funzione – almeno quella “percepita” – fosse in esaurimento.
Dalla convinzione di un ruolo che può rivestire e assumere in forme rinnovate l’esistenza delle riviste, e di un ruolo particolare forse proprio in ambito filosofico, è nata l’iniziativa che ha dato luogo di recente alla costituzione formale del Coordinamento delle riviste italiane di filosofia, che ha definito un proprio Statuto, un Comitato esecutivo, e al quale hanno dato la loro adesione , fino al momento attuale, ottanta riviste. Naturalmente il comune denominatore non è e non può essere quello di una risposta unica ed univoca alla domanda sulla funzione delle riviste, o in particolare di quelle di filosofia. Senz’altro però vi è la convergenza su una preoccupazione condivisa, ossia quella che le riviste vengano concepite soltanto come un contenitore con funzione di mera diffusione e di semplice controllo di qualità dei propri contenuti. A questi scopi, come segnala un illuminante paradosso, sarebbe sufficiente un’unica rivista, o almeno un’unica rivista per disciplina. L’esistenza delle riviste è stata da sempre legata invece a quella “presenza di una originale ed autonoma progettualità” che lo Statuto CORIFI riconosce come “un carattere distintivo delle riviste scientifiche, particolarmente rilevante in area filosofica”, assumendo perciò “tra i propri compiti anche quello della difesa e tutela di questa specificità e del pluralismo delle idee”.
L’esigenza di un coordinamento nasce dalla consapevolezza che i cambiamenti in corso richiedono uno scambio e una riflessione approfonditi, da svolgere in comune. La specificità culturale non riguarda naturalmente solo la filosofia, ma in ambito filosofico è particolarmente evidente come una rivista serva non soltanto a validare e diffondere “prodotti di ricerca”, ma a costituire, promuovere, sviluppare un ambiente di discussione, a sottolineare o far emergere tematiche, a operare scelte culturali di cui ci si assume la responsabilità, a dare forma a comunità di interessi o di intenti,[3] assumendo altresì, e non secondariamente, come ricorda lo Statuto, un “ruolo anche pubblico”. Si tratta di operazioni che si muovono e devono muoversi all’interno delle logiche proprie della cultura e della ricerca “scientifica”, come anche di quelle di un libero mercato editoriale, e trovare in esse la loro conferma o i loro limiti. Come si accennava, il contesto di vita delle pubblicazioni periodiche a stampa o digitali, in open access o meno, è sufficientemente movimentato e tempestoso perché le sfide che si presentano non possano non indurre a riflessioni anche profonde. La presenza di fattori estrinseci che intervengono da fuori e dall’alto su queste dinamiche sociali e culturali può tuttavia snaturare il senso e gli esiti di una libera produzione e confronto di idee, e arrivare ad introdurre fattori di distorsione dello stesso mercato editoriale. È anche per questo motivo che il primo documento prodotto dal CORIFI, che ne ha accompagnato anzi il sorgere, investe, con il problema della qualità delle riviste, quello delle forme istituzionalizzate di valutazione. È importante sottolineare che questo documento (già pubblicato su ROARS nel settembre scorso, quando le adesioni erano “solo” 55, è stato sottoscritto fino ad oggi da 77 riviste), sul quale nella fase di definizione del coordinamento vi sono state ampie discussioni, è solo un primo atto del CORIFI e non esaurisce le posizioni possibili al suo interno.[4] Il suo senso è da un lato quello di proporre un autonomo impegno verso alcune modalità procedurali che favoriscano un comune innalzamento della qualità delle riviste e del lavoro di ricerca, dall’altro quello di porre in questione le attuali forme istituzionalizzate di valutazione, ovvero tanto i criteri previsti dal Regolamento ANVUR per la “classificazione” delle riviste, criteri, come quello del riferimento alla VQR, criticati da più parti[5] e nel frattempo considerati come criticabili anche da esponenti ANVUR, quanto la stessa classificazione binaria delle riviste, con la individuazione di una “classe A” il cui uso trova diretta applicazione, con immediate conseguenze normative, nella ASN, nell’accreditamento dei collegi di dottorato, e in molti usi autorizzati e non. Una classificazione di Stato delle riviste,[6] con una netta divisione tra riviste di classe A e le altre, è una infelice prerogativa italiana che si aggiunge al semplice ricorso, già oggetto di numerose critiche, a ranking di riviste o a journal-based metrics per la valutazione di individui,[7] e che finisce per incidere sulla stessa libertà della cultura e della ricerca.
Nato nel contesto di un dialogo all’interno delle riviste filosofiche, il CORIFI sottolinea al contempo nel suo Statuto “come costitutiva della riflessione filosofica l’apertura alle ricerche svolte nelle discipline confinanti ed una ampia trasversalità disciplinare della produzione scientifica”. Anche per questo, ma soprattutto nella consapevolezza che la questione del ruolo culturale e della sopravvivenza delle riviste riguarda ogni ambito di ricerca, in particolare nel campo delle discipline umanistico-sociali, il CORIFI non soltanto è aperto alla adesione di riviste di altri ambiti, ma intende promuovere la collaborazione su queste tematiche con altre aree, avviando un dialogo il più possibile vasto ed un’azione comune. Confidando che possano esser le riviste stesse, nel loro libero confrontarsi con la ricerca, le comunità scientifiche, i contesti sociali ed economici, le nuove forme di comunicazione, a decidere del loro destino e del loro ruolo.
[1] «Quid est ergo tempus? Si nemo ex me quaerat, scio; si quaerenti explicare velim, nescio (che cosa è il tempo? se nessuno me lo chiede lo so; se voglio spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so)» (Agostino, Confessiones, XI, 14).
[2] Marcello Vitali-Rosati, Qu’est-ce qu’une revue scientifique ? Et… qu’est-ce qu’elle devrait être ?, «The Conversation», May 21, 2017. Sul futuro, destino e “ragione di esistere” delle riviste cfr. anche Valeria Pinto, Tanatologia della critica. Le riviste nell’epoca della valutazione, «Laboratorio dell’ISPF», X, 2013, pp. 1-13.
[3] Il citato articolo di Vitali-Rosati, decisamente critico rispetto a ruoli e forme “tradizionali” delle riviste, indica nella “creazione di comunità” un elemento importante della loro véritable mission.
[4] Il documento è stato approvato già nel luglio 2018, in una fase di sussistenza ancora informale del Coordinamento, con l’adesione iniziale di un primo nucleo di 29 riviste (cfr. https://www.roars.it/per-un-coordinamento-delle-riviste-di-filosofia/), poi cresciuto rapidamente a 55 (cfr. anche l’intervento di Stefano Semplici: https://www.roars.it/46-riviste-di-filosofia-lanciano-lattacco-contro-la-classe-a-di-anvur/).
[5] Cfr. da ultimo il documento del CRIS; inoltre il documento di alcune riviste di area storica: ; e quello della Consulta Universitaria di Studi Latini.
[6] Alla classificazione si aggiunge tutta una serie di “categorizzazioni” rigide di tipologie di testi legate all’uso di forme quantitative e meccaniche di valutazione (articolo, recensione, ecc.) che vanno in controtendenza rispetto alla maggiore libertà e fluidità delle forme testuali che il mezzo digitale rende possibile e che sono aperte se non a una valutazione (quella delle progettate alternative metrics, cfr. P. Galimberti, La saggezza della folla, in A. Banfi, E. Franzini, P. Galimberti, Non sparate sull’umanista. La sfida della valutazione, Milano, Guerini, 2015, pp. 113-149), ad una interazione più profonda con la comunità scientifica e culturale.
[7] Accanto alla San Francisco Declaration on Research Assessment, che è sempre opportuno richiamare, cfr., per un primo approccio, S.M. Nkomo, The Seductive Power of Academic Journal Rankings: Challenges of Searching for the Otherwise, «Academy of Management Learning & Education», 2009, vol. 8, n. 1, pp. 106-116; A. Banfi, Il resistibile fascino delle classifiche di riviste, «Rassegna italiana di valutazione», 2011, XV, n. 51, pp. 9-21; A. Sangster, You cannot judge a book by its cover: the problems with journal rankings, «Accounting Education: an international journal», 2015, 24, 3, pp. 175-186.
Le riviste possono essere libere. Scritte per essere lette, prima di tutto. Dovrebbero accogliere il pensiero, che non è mai unico: renderlo unico è una violenta imposizione di persone che difficilmente potremo chiamare intellettuali.
Bisognerebbe avere il coraggio di mettere in pratica. Ben vengano i casi di riviste libere, libere tanto da non esiliare tagli critici, temi, non di moda.
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