Uno degli argomenti che viene ripetuto come un ritornello da chi sostiene la necessità di abolire il valore legale del titolo di studio è che, senza di esso, i concorsi e le assunzioni sarebbero maggiormente basate sul merito e così le commissioni giudicanti – ad es. in un concorso per ricercatore all’università – sarebbero maggiormente in grado di valutare i rispettivi valori dei candidati in concorrenza. “Nella nostra Pubblica amministrazione se ti laurei con 110 in una pessima università conti di più di un laureato con 100 in un’università prestigiosa e rigorosa” (parole del rettore di Ca’ Foscari, un esempio fra tanti). E così vengono di volta in volta proposte o l’abolizione tout court del suo valore legale (ultimi neofiti di questa posizione sono i grillini, per come risulta – senza alcuna motivazione – dal loro programma), oppure vari meccanismi di sua ‘pesatura’, in base all’università di provenienza o al curriculum seguito. Tutto ciò dovrebbe essere finalizzato alla possibilità da parte delle singole commissioni di far ‘contare’ il titolo per quanto esso effettivamente vale (in tal senso si sono espressi ad es. da Ichino e Terlizzese – v. articolo). Ma cosa significa esattamente una tale circostanza? Possiamo cercare di capirlo meglio esaminando un caso concreto di concorso contestato, senza entrare nel merito delle ragioni dei contendenti, ma utilizzandolo come “case study” che ci permette di fare diversi ipotesi alternative di comportamenti.
In un recente concorso per ricercatore a tempo determinato tenutosi presso la Facoltà di Lingue di Catania, sede di Ragusa, il perdente ha contestato la liceità del suo esito. Cosa avrebbe fatto la commissione di illecito? Il vincitore è in possesso dalla laurea in architettura e il concorso è in storia contemporanea; quindi, a quanto pare, la specificità della laurea ha contato poco e di conseguenza altrettanto poco ha contato il suo valore legale. Inoltre, sui 100 punti assegnabili, solo 30 erano quelli attribuibili ai titoli, che comprendono il conseguimento del dottorato (max 4 punti), lo svolgimento di attività didattica (max 5 punti) e di varie tipologie di attività di ricerca e formazione (in totale 20 punti), la direzione e coordinamento di gruppi di ricerca (max 4 punti), la partecipazione in qualità di relatore a congressi (max 5 punti), il conseguimento di premi e riconoscimenti (max 2 punti). Gli altri 70 punti sono tutti assegnati a pubblicazioni scientifiche, secondo il peso che vengono date alle sue varie tipologie (vedi i criteri fissati nel verbale della Commissione).
Ebbene come si vede nessuno dei criteri preliminari prende in esame il possesso di una laurea specifica (tant’è vero che il vincitore è laureato in architettura) in quanto nella declaratoria del concorso (vedi il bando) si poneva come requisito o il possesso di laurea specialistica nello specifico settore disciplinare e/o – e qui sta il bello – di “documentata attività di ricerca svolta, dopo la laurea specialistica o magistrale o vecchio ordinamento, presso istituzioni italiane o straniere di livello universitario o presso enti di ricerca”. Insomma bastava aver comunque fatto attività di ricerca, anche in un istituto di biologia, per essere ammessi al concorso. Ovviamente bisognava poi di dimostrare competenze (cioè pubblicazioni) e titoli dello specifico settore scientifico disciplinare per poter poi vincere il posto di ricercatore. Ed è quanto è esattamente avvenuto: la vincitrice, laureata in architettura, non in possesso di dottorato (che secondo il bando avrebbe costituito titolo preferenziale) e con attività di ricerca presso dipartimenti non certo di storia, esibendo le proprie pubblicazioni con tenui attinenze al settore di pertinenza concorsuale è risulta vincitrice. Insomma la laurea e il suo valore legale hanno inciso meno che nulla. Ed è questa la prima contestazione fatta dal perdente: quella della incongruità del titolo di studio.
Ma v’è di più. Da quanto afferma l’on. Paolo Corsini nella sua interrogazione parlamentare del 12 maggio scorso, l’aver assegnato massimo 70 punti per le pubblicazioni ha penalizzato il perdente, in quanto questi avrebbe totalizzato 110 punti, che sono stati così artificialmente ridotti al tetto massimo; mentre la vincitrice ha avuto valutate per intero le sue pubblicazioni, arrivando a 63 punti. Un comportamento più corretto della commissione sarebbe consistito nel ‘normalizzare’ a 100 i punteggi delle pubblicazioni di tutti i candidati, assegnando tale punteggio a colui che aveva il punteggio maggiore e scalando in proporzione tutti gli altri. Ma la commissione ha scelto, in piena legittimità, in modo diverso e ciò sta a dimostrare un’altra cosa: il potere praticamente assoluto che hanno le commissioni nel manipolare – senza commettere alcuna palese violazione formale – titoli, pubblicazioni e punteggi al di là di quelli che sono i criteri stabiliti in via preliminare.
Non solo, ma con le nuove regole stabilite dalla ‘rigorosa’ legge Gelmini, tanto lodata per aver stabilito la meritocrazia e “tagliato le unghie” ai baroni, il colloquio orale sui titoli e sulle pubblicazioni è praticamente ininfluente, in quanto di fatto serve solo a confermare quanto risulta dalla preliminare valutazione di titoli e pubblicazioni atta a decidere quali dei candidati è degno di essere ammesso al colloquio orale (v. l. 240/2010, art. 24, c. 2, punto c); e in ogni caso tale attribuzione di punteggio avviene nei fatti successivamente a colloqui orali e quindi può essere ‘calibrata’ in base al loro esito in modo da ottenere il risultato voluto. Anche la possibilità prevista dalla legge (ma non attuata nel concorso in esame) di limitare a solo 12 le pubblicazioni cui assegnare il punteggio, va nella direzione di favorire il meno dotato coll’abbassare i punteggi attribuibili a chi possiede più titoli.
Insomma questo è un caso esemplare di quanto poco importi il valore legale del titolo di studio; anzi, la sua assoluta ininfluenza – resa possibile dalle norme della legge Gelmini tanto lodato dai sostenitori della soppressione del valore legale – si traduce in una onnipotenza discrezionale delle commissioni di concorso e/o esame. Viceversa la ipotizzata attribuzione differenziale di un valore alla laurea andrebbe in direzione esattamente contraria, in quanto ingesserebbe il sistema concorsuale e in sostanza limiterebbe il potere delle commissioni giudicatrici, che dovrebbero in tal modo attenersi a un valore della laurea fissato in altra sede (l’Anvur? il Miur? le corporazioni professionali? O chi altro?). Infatti due sono i casi: o le norme concorsuali restano quelle che sono (almeno per le assunzioni dei ricercatori, primo gradino per l’ingresso nella carriera universitaria; quelli successivi, come tutti sanno, prescindono persino dal possesso della laurea) e allora nulla cambierebbe; oppure si impone con una nuova normativa di tener conto del valore differenziale della laurea sino al punto da renderlo decisivo, riducendo così al minimo il potere discrezionale delle commissioni di giudizio: e in questo caso allora si avrebbe una sorta di predestinazione al lavoro e alla ricerca in base a dove è stata conseguita la laurea, indipendente dal merito dei singoli, ovunque essi si sono laureati. Sarebbe questa sì una bella conquista in favore del merito e dell’eccellenza!
Perché coloro che ripetono i soliti ritornelli sull’abolizione del valore legale della laurea non si cimentano con la concretezza dei modi in cui effettivamente si procede alle assunzioni e alla promozione dei talenti (e non solo nelle università, perché questo discorso si potrebbe anche ripetere per le altre amministrazioni pubbliche), invece di ripetere all’infinito i soliti refrain che ormai sembrano le formule apotropaiche di apprendisti stregoni? Di certo il dibattito ne riceverebbe un contributo positivo.
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Anche questo problema non è semplice. Sentiamo ogni tanto di ottimi medici di cui si scopre dopo anni che non hanno la laurea (avendo interrotto ad un certo opunto l’iter, casomai mancando solo la tesi) e conosciamo personalmente e leggiamo di medici laureati e specializzati che si rilevano ottimi cani che rovinano la vita. Forse più che la laurea il valore legale lo dovrebbe avere ”l’Esame di Stato” che appunto garantito imparziale dallo Stato, dovrebbe garantire i cittadini sulla qualità minima di certi laureati (quelli potenzialmente dannosi come medici, ingegneri, avvocati, commercialisti, e qualcun altro).
Circa i concorsi …. Non conosco nel dettaglio la legge Gelmini ma la logica vorrebbe che per i titoli la commissione faccia un lavoro ”ricognitorio” sulla base di criterii stabiliti in anticipo dal bando. Se non sono stringenti la commissione dovrebbe poter solo valutare se un certo titolo astrattamente previsto (una pubblicazione) abbia attinenza al lavoro che la persona sarà chiamata a fare. ma se il bando non dà tale facoltà alla commissione ?
L’anno passato ho fatto parte di una commissione del genere. I titoli, di cui avevamo un elenco preciso con i punteggi attribuibili, li abbiam valutati prima della correzione degli elaborati, anche se avendo coretto prima i compiti di matematica, non abbiamo corretto quelli di italiano di chi non aveva avuto la sufficienza in matematica (per economia delle risorse).
Mi sembra quindi che anche in questo caso il problema, più che la legge, siano i discendenti regolamenti e bandi, spesso fatti male.
Gentile Pro. coniglione,
il ricorrente ha ragione da vendere a indignarsi perche’ le sue pubblicazioni e il suo dottorato sono stati valutati poco (e male), ma non condivido per nulla la contestazione del fatto che la vincitrice sia laureata in architettura anziche’ in storia.
Ricordo a tutti i lettori (non al ricorrente, che, a quanto ho capito, si è occupato anche lui di ricerche interdisciplinari) che esiste un oggetto quasi ignoto in italia: l’interdisciplinarieta’. Mendel e Francis Crick, tanto per citare due biologi a caso, erano entrambi laureati in fisica….
Non vedo percio’ il senso delle Sue perplesse osservazioni (io, per lo meno, le percepisco come perplesse): “Insomma bastava aver comunque fatto attività di ricerca, anche in un istituto di biologia, per essere ammessi al concorso” (e che ci sarebbe di strano ? non ci si puo’ occupare di storia della biologia ?) “…e con attività di ricerca presso dipartimenti non certo di storia” (vedi sopra).
L’abolizione del valore legale del titolo di studio in teoria sarebbe giusta (l’osservazione del rettore di Ca’ Foscari non è per nulla peregrina), ma in pratica diventa complessa e non fattibile, quindi la intrpreto come una delle tante boutades del defunto (spero) governo Berlusconi.
Caro d’Onofrio, in premessa avevo detto che non volevo dare giudizio sulle ragioni dei contendenti, per cui la mia osservazione sulla laurea non era una contestazione, ma una semplice constatazione per dimostrare quanto fosse irrilevante non solo il voto, ma persino la tipologia della laurea. E’ il ricorrente a contestare tale fatto e sarà la magistratura a dire quanto questa circostanza sia rilevante o meno. Per il resto posso essere anche d’accordo, sulla interdisciplinarietà e quant’altro. Ma appunto non è questo il problema: esso è dato dalla tesi di chi sostiene che l’abolizione del valore legale renderebbe più facile il successo dei migliori ecc. Il caso da me portato (ma di questi casi ce ne sono innumerevoli) dimostra che non è il valore legale della laurea a far vincere (o perdere) il migliore.
Caro Coniglione, se è così, allora mi sono ingannato. Tuttavia, il mio ragionamento è stato il seguente: dato che entrambi i concorrenti erano laureati presso due differenti (e io aggiungo, anche se non dovrebbe per legge importare, prestigiose) università italiane, come questo caso viene a interagire con la questione del valore legale della laurea ? Il problema ci sarebbe stato se i commissari avessero scritto nel verbale “diamo il contratto a X perche’ si è laureato nella università Z, che è più prestigiosa”. Dato che la legge, giustamente, non pone paletti sulla laurea di provenienza, ho (erroneamente, a quanto lei mi dice: e ne sono felice) pensato che la pietra dello scandalo fosse il tipo di laurea e la esperienza di ricerca in dipartimenti non storici.
Ottimo esempio per dimostrare che regole su come le commissioni debbano comportarsi, punteggi minimimi e massimi per legge, valori legali uguali o diversi per legge non servono a nulla: complicano solo la vita a tutti senza benefici.
Non so nulla di questo caso, ne’ voglio saperne. Ogni dipartimento dovrebbe essere libero di scegliere chi vuole, come vuole con i criteri che vuole. Quindi in linea generale, e senza saper nulla del caso, non mi scandilazza la scelta della commissione. John Nash non e’ un economista e a vinto il premio Nobel per l’economia.
Quello che invece serve e’ un sistema efficace che punisca chi fa scelte per interessi privati e non nell’interesse della collettivia’ rilevante (il dipartimento, l’ateneno la societ
scusate: ho inviato la prima parte del messaggio senza aver terminato. Riprendo:
Quello che invece serve e’ un sistema efficace di valutazione della performance dei dipartimenti, che punisca chi fa scelte per interessi privati e non nell’interesse della collettivita’ rilevante (il dipartimento, l’ateneno, la societa’?). Tra i sistemi di valutazione possibili, abbiamo il mercato (USA) o un sistema di valutazione pubblico centralizzato (UK-RAE; Anvur). Per quel che ne so non sono al corrente di altre soluzioni. Ma se qualcuno ne ha ben vengano le proposte.
Qualora disponessimo di un sistema di valuatazione affidabile e da tutti condiviso, non avremmo piu’ bisogno di valori legali, uguali o diversificati, e potremmo fidarci della scelta dei dipartimenti perche’ subirebbero le conseguenze di scelte sbagliate.
(e perdonate l'”a” senza “h” e altri errori di ortografia nella prima parte del messaggio)
andrea ichino
un sistema di valutazione decente può essere utile solo a trovare i minimi non i massimi e per questo che il valore legale deve rimanere un caposaldo.
Mi chiedo come non si offendano i professori delle università considerate di serie B! IN ogni caso forse sarebbe molto più rispettoso della meritocrazia un concorso su base nazionale uguale per tutti, con un’unica commissione, valutazione univoca dei titoli di studio e delle pubblicazioni, prove scritte e serio colloquio, con la creazione di un albo dei ricercatori da cui le università possano attingere. Questo garantirebbe una maggiore equità di trattamento, maggiori possibilità per tutti coloro che desiderano dedicarsi a questa carriera, un maggiore anonimato dei partecipanti al concorso.
Perché tutto questo è necessario per entrare nella scuola secondaria di primo e secondo grado e non all’università, dove la selezione dovrebbe essere anche più severa?
basta con questa storia che bisogna punire chi usa male i soldi per la ricerca! Manca un’analisi di sinistra della situazione generale. L’abolizione del valore legale è un passaggio obbligato per smantellare il nostro sistema pubblico di istruzione, che è caratterizzato da OMOGENEITA’. In tutte le università, oggi, uno trova professori buoni e mezze calzette. E’ così inaccettabile? No, perché le nostre 60 università garantiscono a tutti, o quasi, senza che debbano spostarsi di centinaia di km e spendere maree di quattrini, di trovare qualcosa di decente sotto casa. L’altro modello è quello di concentrare l’oro, o presunto tale (a volte è una patacca), in una dozzina di università, mentre MIGLIAIA di altre sono di livello INFIMO (negli Usa queste sono 3500 contro le mitiche 10-12 “università americane”, come vengono chiamate come se lì ci fossero solo quelle). Domanda: a chi conviene trasformare il nostro modello DIFFUSO in un modello CONCENTRATO, con scarsa accessibilità, molta appetibilità, pochi professori ben pagati e molti studenti che portano tanti soldi in pochissimi posti? A quelli che vogliono trasformare il servizio sociale in affare privato, come stanno facendo con la sanità. Alle élite ‘imprenditoriali’ pigre e in cerca di rendite di posizione, ottenute attraverso l’influenza (che loro sperano crecente nel tempo) dei privati nei consigli di amministrazione degli atenei.
Questo è un modello che conviene solo a chi lo sfrutta, NON ai potenziali ‘utenti’, e cioè gli studenti del futuro. Ci vogliamo dare una bella svegliata?