“La Neolingua era la lingua ufficiale dell’Oceania ed era stata messa a punto per le esigenze ideologiche del Socing o socialismo inglese (…) Fine specifico della Neolingua non era solo quello di fornire, a beneficio degli adepti del Socing, un mezzo espressivo che sostituisse la vecchia visione del mondo e le vecchie abitudini mentali, ma di rendere impossibile ogni forma di pensiero. Si riteneva che una volta che la Neolingua fosse stata adottata in tutto e per tutto e l’Archelingua dimenticata, ogni pensiero eretico (vale a dire ogni pensiero che si discostasse dai principi del Socing) sarebbe stato letteralmente impossibile, almeno per quanto riguarda quelle forme speculative che dipendono dalle parole (…) La Neolingua non era concepita per ampliare le capacità speculative, ma per ridurle, e un simile scopo veniva indirettamente raggiunto riducendo al minimo le possibilità di scelta”. Evocando Orwell, Giovanni Pascuzzi svolge una riflessione sui corsi universitari in lingua inglese, una questione che non cessa di alimentare dibattiti anche dopo le nette prese di posizione della Consulta e del Consiglio di Stato dello scorso anno.
* 1. Introduzione. Preceduta dalla sentenza della Consulta, la pronuncia del Consiglio di Stato sui corsi universitari in lingua inglese ha avuto ampia eco anche fuori dall’ambito strettamente accademico. Si veda ad esempio l’articolo di Roger Abravanel, Perché è sbagliato proibire i corsi universitari in inglese, apparso sul Corriere della Sera del 27 febbraio 2018, nel quale si sostiene che i giudici avrebbero limitato il diritto allo studio e rafforzato i nemici del merito. All’editorialista del Corriere ha risposto il Presidente dell’Accademia della Crusca, Claudio Marazzini, con un saggio dal titolo Ma siamo proprio sicuri che la lingua della ricerca sia solo l’inglese?, pubblicato su www.accademiadellacrusca.it, nel marzo 2018[i].
In un dibattito già molto ricco è utile svolgere qualche considerazione per allargare la prospettiva.
2. La qualità della didattica. Nella vita delle Università, il problema dei corsi di laurea impartiti in lingua inglese si riallaccia al grande tema della (qualità della) didattica. Malgrado i proclami, l’argomento è, di regola, sottovalutato. Si assiste addirittura ad paradosso: tutti vogliono una didattica efficace, moderna e di qualità, ma il sistema non incentiva a diventare dei bravi docenti. Le procedure previste per diventare docenti universitari si basano sul conseguimento della “abilitazione scientifica nazionale” che mira a verificare quasi esclusivamente la maturità scientifica dei ricercatori. Questi ultimi, quindi, hanno interesse spasmodico a pubblicare tanti articoli se vogliono fare carriera. Non hanno però alcun incentivo reale a impegnarsi né nella didattica innovativa né in quella tradizionale.
Nel sistema c’è un corto circuito: da una parte si chiede alle università di migliorare e innovare la didattica in modo da garantire un miglior apprendimento da parte degli studenti (parametro che rileva anche in sede di accreditamento delle sedi), dall’altra quasi nessun peso viene dato all’accertamento del possesso di capacità didattiche in sede di reclutamento dei docenti che poi dovranno svolgere la didattica stessa[ii].
Occorrerebbe dunque rendere più coerente il sistema normativo e nello stesso tempo prevedere, per i giovani interessati alla carriera universitaria, eventi formativi che li aiutino ad apprendere i diversi modi di insegnare[iii].
3. La libertà di apprendimento. La lingua è solo uno degli aspetti che rilevano quando si parla di didattica. Molti tra quelli che discutono dei “corsi in inglese” hanno in mente esclusivamente la lezione cattedratica e quindi una sola strategia didattica (quella tradizionale). E per dar fondamento alla pretesa di insegnare in italiano viene spesso invocata la “libertà di insegnamento” tutelata dall’articolo 33 della Costituzione[iv]. Forse si dovrebbe cominciare a discutere della necessità di costituzionalizzare anche “la libertà di apprendimento[v]”. Può sembrare una battuta: ma la sostanza è che ogni discorso sulla didattica deve mettere al centro della riflessione non chi insegna bensì il soggetto che apprende. Gli obiettivi formativi devono assicurare l’acquisizione di saperi, abilità e competenze[vi]. Per ottenere davvero questo risultato, alla lezione frontale devono accompagnarsi strategie didattiche anche molto diverse[vii]. Se l’innovazione consiste nel fornire un medesimo modello formativo cambiando semplicemente la lingua di somministrazione del corso il rischio che per strada si perdano conoscenze e competenze è particolarmente elevato. Il tema è ben sviscerato dalla letteratura in materia di Content and Language Integrated Learning (CLIL)[viii]. Mette conto notare, peraltro, che per poter insegnare nelle scuole primarie e secondarie una disciplina non linguistica in lingua straniera occorre frequentare appositi corsi e conseguire un certificato abilitante[ix].
4. Lingue, linguaggi e saperi. L’internazionalizzazione è uno degli obiettivi che da qualche tempo il sistema universitario italiano si è (giustamente) posto[x]. E i corsi in lingua inglese sono considerati strumento della strategia di internazionalizzazione. Occorre però avere presente il rapporto che esiste tra lingua e conoscenza anche per evitare di trattare in maniera identica situazioni molto diverse tra loro[xi].
La specie umana ha diverse capacità biologicamente determinate: capacità motorie, percettive, di memoria, di attenzione. Fra queste c’è anche il linguaggio. La facoltà di linguaggio consente alle comunità umane di produrre e utilizzare le lingue, ovvero sistemi simbolici in cui i singoli elementi (parole e frasi) si riferiscono a cose reali o immaginarie diverse da sé[xii].
Il linguaggio è una tecnologia del pensiero e attraverso il linguaggio noi costruiamo e trasmettiamo il sapere: dalla scuola all’università, studiamo manuali che usano il linguaggio per rappresentare la conoscenza.
Possono esistere diversi tipi di linguaggi (prodotti del pensiero umano):
– il linguaggio naturale (la lingua in senso proprio: italiano, inglese, e così via): è quello che si usa normalmente per comunicare;
– il linguaggio tecnicizzato: serve ad esprimere concetti propri di determinate discipline. La tecnicizzazione può consistere nell’introduzione di nuovi termini (termini tecnici) ovvero nella ridefinizione di termini già in uso nel linguaggio naturale (termini tecnicizzati)[xiii];
– il linguaggio formalizzato: è quello che ricorre a segni e simboli. È usato nei contesti matematici, logici ed informatici[xiv].
Ci sono saperi che costruiscono conoscenza utilizzando linguaggi specifici. Fisica e matematica fanno leva sui segni matematici[xv]; chimica e biologia ricorrono a linguaggi simbolici[xvi]; l’informatica ha inventano i linguaggi di programmazione[xvii]; in medicina molto rilevante è la semeiotica[xviii].
Negli esempi appena formulati, il linguaggio naturale (i.e.: la lingua) costituisce solo in parte lo strumento attraverso il quale si costruisce la conoscenza in quel determinato dominio.
In altri casi, invece, si pensi alla letteratura, la lingua è l’essenza stessa del processo di produzione di conoscenza: la lingua è il serbatoio culturale che innerva totalmente i contenuti del sapere.
La decisione di istituire corsi di laurea impartiti in una lingua diversa dall’italiano deve avere ben presente la distinzione appena tracciata e può essere presa solo se vengono assicurati meccanismi idonei ad evitare che parti anche consistenti di conoscenza venga persa per strada. Sapendo che non sempre questo è possibile.
5. Il rischio del conformismo culturale. Una riflessione sulla possibilità/opportunità di offrire esperienza formative che non facciano leva necessariamente sulla lingua italiana non può che essere vista con favore. Purtroppo, in molti discorsi, i corsi di laurea in inglese si traducono in mere operazioni di marketing: perché va di moda e perché l’obiettivo è attrarre studenti visto che la numerosità dei laureati è uno dei parametri in base ai quali le università vengono finanziate. Un aspetto, quindi, di quella svolta aziendalistica che ha tra i suoi mantra anche la necessità di mettere gli studenti nella condizione di poter competere nel mercato globale ma spesso è lungi dal migliorare l’efficienza degli Atenei e corre il rischio di generare dipendenza culturale, conformismo e uno scadimento complessivo della qualità della formazione[xix].
6. La profezia di Orwell. Si è detto poc’anzi che il linguaggio è una tecnologia del pensiero. E come ogni tecnologia, essa retroagisce sul pensiero stesso plasmandolo. Per convincersi di quanto delicato sia il tema che stiamo affrontando, forse è utile ricordare che al termine del romanzo 1984, George Orwell pubblicò una Appendice contenente sui “Principi della Neolingua”. Di seguito la citazione di un breve passaggio:
“Newspeak was the official language of Oceania and had been devised to meet the ideological needs of Ingsoc, or English Socialism…
The purpose of Newspeak was not only to provide a medium of expression for the world-view and mental habits proper to the devotees of Ingsoc, but to make all other modes of thought impossible. It was intended that when Newspeak had been adopted once and for all and Oldspeak forgotten, a heretical thought — that is, a thought diverging from the principles of Ingsoc — should be literally unthinkable, at least so far as thought is dependent on words….
Newspeak was designed not to extend but to diminish the range of thought, and this purpose was indirectly assisted by cutting the choice of words down to a minimum[xx]”
* Il contributo è stato pubblicato in Il foro italiano, 2018, III, 233.
[i] Tra gli altri interventi v.: Guindani, Lingua, insegnamento e lavoro, in Il Sole 24 Ore del 1° marzo 2018, p. 8.
[ii] Il d.m. 12 dicembre 2016 n. 987 (recante “Autovalutazione, valutazione, accreditamento iniziale e periodico delle sedi e dei corsi di studio”) indica i requisiti che i Corsi di Studio (CdS) devono rispettare per poter ottenere l’accreditamento. Tra i requisiti ed indicatori di qualità, l’allegato C ne contiene uno, l’R3, che così recita: “Qualità dei corsi di studio – Per ciascun corso sono garantite la disponibilità di risorse adeguate di docenza, personale e servizi, sono curati il monitoraggio dei risultati e le strategie adottate a fini di correzione e di miglioramento e l’apprendimento incentrato sullo studente”.
Se ne deduce, ai fini di quanto si dirà nel testo, che se lo studente è semplicemente un ascoltatore passivo delle lezioni, il corso non è di grande qualità, quale che sia la lingua parlata dal docente: italiano, inglese o altra.
[iii] V. Pascuzzi, Verso l’avvocatura e il notariato, in Pasciuta e Loschiavo, La formazione del giurista. Contributi a una riflessione, Roma, 2018, p. 101 (in corso di stampa).
[iv] Sul tema v., da ultimo, Iannuzzi, Commento all’articolo 33, in Clementi, Cuocolo, Rosa e Vigevani, La Costituzione italiana. Commento articolo per articolo, Bologna, 2018, pp. 220 ss
[v] L’art. 2, comma 6, del d.p.r. 24 giugno 1998 n. 249 (Regolamento recante lo statuto delle studentesse e degli studenti della scuola secondaria) così recita: “Gli studenti hanno diritto alla libertà di apprendimento ed esercitano autonomamente il diritto di scelta tra le attività curricolari integrative e tra le attività aggiuntive facoltative offerte dalla scuola. Le attività didattiche curricolari e le attività aggiuntive facoltative sono organizzate secondo tempi e modalità che tengono conto dei ritmi di apprendimento e delle esigenze di vita degli studenti”.
[vi] Si vedano le definizioni di “conoscenza”, “abilità” e “competenza” fornite nella Raccomandazione del Parlamento europeo e del Consiglio del 23 aprile 2008 sulla costituzione del Quadro europeo delle qualifiche per l’apprendimento permanente. Per approfondimenti Pascuzzi, Giuristi si diventa. Come riconoscere e apprendere le abilità proprie delle professioni legali, Bologna, 2013, p. 14.
[vii] Sulle diverse strategie didattiche v. Pascuzzi, Avvocati formano avvocati. Guida all’insegnamento dei saperi forensi, Bologna, 2015, pp. 97 e ss.
[viii] Per approfondimenti v. Ricci Garotti (a cura di), Il futuro si chiama CLIL, Trento, 2006; Antonucci, CLIL: istruzioni per l’uso. Guida per orientarsi nella nuova metodologia per l’apprendimento, Macerata, 2016.
[ix] Cfr.l’art. 14 del d.m. 249/2010.
[x] Come indici normativi v.:
– artt. 2, 5 e 23 della legge 240/2010 (Norme in materia di organizzazione delle università, di personale accademico e reclutamento, nonché delega al Governo per incentivare la qualità e l’efficienza del sistema universitario);
– art. 13, comma 2, lett. b del d.m. 45/2013 (Regolamento recante modalità di accreditamento delle sedi e dei corsi di dottorato e criteri per la istituzione dei corsi di dottorato da parte degli enti accreditati);
– art. 1, comma 2, lett. c) del d.m. 987/2016 (Autovalutazione, valutazione, accreditamento iniziale e periodico delle sedi e dei corsi di studio).
In dottrina v.: Cabiddu, La lingua e il mito (dell’internazionalizzazione), in Dir. pubbl., 2013, 559
[xi] Chomsky, Linguaggio e problemi della conoscenza, Bologna, 2015.
[xii] Tabossi, Il linguaggio, Bologna, 2002.
[xiii] Il linguaggio giuridico è un linguaggio tecnicizzato perché accanto ai termini del linguaggio comune comprende termini tecnici o tecnicizzati. Per vocaboli (o espressioni) tecnici si intendono quei vocaboli che non ricorrono nel discorrere abituale, e ricorrono, invece, solo nei discorsi di chi pratica una data scienza e negli enunciati di quella scienza. Ad esempio, i termini “prelazione” e “massa dei creditori” sono termini tecnici delle discipline giuridiche. Per vocaboli (o espressioni) tecnicizzati si intendono quei vocaboli dell’uso ordinario che nell’ambito di una scienza o tecnica si specializzano e in questa conservano solo una delle diverse accezioni che hanno nell’uso ordinario, ovvero adottano un senso più ristretto e meglio precisato di quello che hanno nell’uso ordinario. Ad esempio, termini come “possesso” “famiglia”, “impresa” assumono nel linguaggio giuridico significati speciali (talvolta diversi a seconda del ramo del diritto di cui si tratta). Cfr. Tarello, L’interpretazione della legge, Milano, 1980, 108.
[xiv] Brissoni, Linguaggio formale e conoscenza, Firenze, 1978.
[xv] Bagni, Labella e Gorla, Introduzione alla logica e al linguaggio matematico Milano, 2010.
[xvi] Dagognet, Tavole e linguaggi della chimica, Roma, 1987.
[xvii] Gabbrielli e Martini, Linguaggi di programmazione. Principi e paradigmi, Milano, 2011.
[xviii] Amoroso, Rossi Fanelli e Afeltra, Semeiotica medica e metodologia clinica, Roma, 2017.
[xix] Pascuzzi, Il fascino discreto degli indicatori: quale impatto sull’università?, in Foro it., 2017, I, 2549.
[xx] Orwell, 1984, Milano, 2018 (ristampa), pp. 307 ss. (traduzione di Stefano Manferlotti):
“La Neolingua era la lingua ufficiale dell’Oceania ed era stata messa a punto per le esigenze ideologiche del Socing o socialismo inglese….
Fine specifico della Neolingua non era solo quello di fornire, a beneficio degli adepti del Socing, un mezzo espressivo che sostituisse la vecchia visione del mondo e le vecchie abitudini mentali, ma di rendere impossibile ogni forma di pensiero. Si riteneva che una volta che la Neolingua fosse stata adottata in tutto e per tutto e l’Archelingua dimenticata, ogni pensiero eretico (vale a dire ogni pensiero che si discostasse dai principi del Socing) sarebbe stato letteralmente impossibile, almeno per quanto riguarda quelle forme speculative che dipendono dalle parole….
La Neolingua non era concepita per ampliare le capacità speculative, ma per ridurle, e un simile scopo veniva indirettamente raggiunto riducendo al minimo le possibilità di scelta”.
Se è per questo, anche nella produzione in italiano si nota il ricorrere del new speak: chi non lo possiede e diverge non ha le carte in regola …
Ciò che è più triste è che stiamo così addestrando anche i nostri giovani: ripetitori di frasi ormai stereotipate di cui non conoscono a fondo il significato, quale teoria o ideologia le innervi, ma che sanno sono ben accette …
Dall’articolo di Abravanel, in chiusura: “… la sentenza del Consiglio di Stato … se sarà attuata lederà … il loro [degli studenti] diritto al lavoro e rafforzerà i nemici del merito della università italiana.” Non studiando in inglese in un’università italiana, agli studenti si lede il diritto al lavoro. Un lavoro, dove? In Italia o all’estero? Se in Italia, in molte realtà di lavoro un ingegnere stabilisce rapporti migliori con i suoi operai, ancora oggi, se mastica anche un po’ di “dialetto”, cioè di idioma locale. Andrebbe quindi introdotto anche un corso accelerato di “basic dialect” differenziato a seconda delle realtà di lavoro. Questa possibilità non viene però contemplata, perché interessa soltanto l’inglese, dunque il lavoro sarà all’estero o in un ambiente internazionale. Parte finale: si rafforzano i nemici del merito. Quindi: il merito si raggiunge e si dimostra solo o soprattutto attraverso l’inglese. Sarebbe stato più rapido dire semplicemente che la globalizzazione impone la conoscenza dell’inglese, generale ed eventualmente settoriale (lingua specialistica), dal momento che l’inglese è comunque la lingua internazionale più diffusa. E che, anzitutto, la conoscenza dell’inglese va programmata attentamente a partire dalla scuola (se è tanto importante!), e non lo si studia solo all’università, alla magistrale o per il dottorato (poco e male). Né l’inglese né l’italiano garantiscono lavoro o merito se uno sa poco e dice ancor meno. Per molte riviste internazionali che pubblicano solo in inglese (e fanno male, perché dovrebbero scegliere anche un’altra lingua di grande diffusione o importanza, a seconda dell’ambito disciplinare), in Italia la gente spesso scrive in italiano e se lo fa tradurre in inglese, o per lo meno se lo fa rivedere. Donde il business della lingua inglese, che porta molti soldini all’Inghilterra anzitutto, tra corsi, docenti, certificazioni; è una delle merci più esportate.
Trascurando quest’infelice articolo di R. Abravanel, che è anche membro dell’Advisory Board del Politecnico (https://www.roars.it/politecnico-vinci-il-ricorso-a-raddrizzarti-la-schiena-ci-pensa-ladvisory-board-e-il-corriere/), l’articolo sopra riprodotto mescola più argomenti, e di nuovo non si pone attenzione sull’acquisizione graduale di una lingua e sul livello di competenza di entrambe le parti, docenti e studenti. E non c’è nemmeno la consapevolezza che una persona bi o trilingue non è la somma aritmetica di 2-3 monolingui. La neolingua orwelliana non ha nessuna attinenza con la questione dell’inglese: se a noi l’inglese serve o no, se va imposto o no. Si tratta di una distopia linguistica proiettata in un mondo distopicamente dittatoriale, in cui lingua e pensiero sono predeterminati in un modo ben preciso (ideologico), sono formalizzati e controllati, e ogni deviazione o violazione viene severamente punita. Se si optasse per l’inglese lingua comune, questa lingua non trasmetterebbe contenuti prefissati e immutabili dal momento che in qualsiasi lingua storica (non naturale!), lungo la sua storia – e non nello stesso momento x – si può esprimere qualsiasi cosa si esprima in altre lingue: onnipotenza semantica. Il conformismo di pensiero e culturale non verrebbe dall’inglese in sé ma consisterebbe nell’accettazione passiva della sua imposizione, anzitutto, nonché di certi modelli culturali di cui la lingua è solo una parte (veicolati nella zona d’ombra del piano Marshall; https://fr.wikipedia.org/wiki/Plan_Marshall#Critiques). E determinerebbe, come conseguenza del conformismo, anche quell’operazione di marketing di cui si parla nell’articolo. Tuttavia, stiamo più attenti con il concetto di “conformismo culturale”. Il conformismo culturale su larga scala nei confronti del mondo anglo-americano si sta diffondendo a macchia d’olio dalla seconda guerra mondiale, come minimo (lingua dei vincitori e di uno degli stati più potenti che ha imposto o fornito, a seconda, certi ‘aiuti’; c’entra anche il passato coloniale britannico ecc. ecc.) E quando si dice jobs act o advisory board, questo dipende non dalla globalizzazione ma dal conformismo più misero; e non è nemmeno segno di una buona padronanza dell’inglese. E stiamo anche attenti all’invocare il miracolistico CLIL: presuppone e impone una profonda revisione linguistica dell’istruzione in generale. Ricordo quando anni fa, all’insegna della modernizzazione e della modernità, gli insegnanti di scuola facevano sfoggio della sigla magica CLIL e cinguettavano di clil-clil-clil, di cui, conformisticamente, era più semplice parlare. E infatti, dove sono riusciti a realizzarlo in maniera organica ed efficace e non episodica, come si era fatto ancor prima coll’introduzione catastrofica di due lingue straniere alle elementari? Ci ha pensato la Buona Scuola? In che modo si preparano i docenti, delle elementari fino all’università, a dominare la loro materia in due lingue? Ricordo di nuovo le conclusioni alle quali sono giunti i rettori delle università tedesche: https://www.roars.it/insegnare-in-inglese-abbassa-la-qualita-lo-dicono-times-higher-education-e-la-conferenza-dei-rettori-tedeschi/. Il problema, in Italia, è stato ben messo a fuoco ad es. anche qui: https://nuovoeutile.it/inglese-alluniversita-tra-sogno-e-nightmare/ (ottima l’illustrazione ship-sheep); leggere anche i commenti interessanti.
Non affronto minimamente la questione di lingua-linguaggio e il loro rapporto col pensiero, che viene liquidata in poche frasi apodittiche affermative (auto-evidenti). Non è proprio così, altrimenti non ci sarebbero biblioteche intere su questi argomenti.