C’è qualcosa di buono da apprendere dalla vicenda del TFA, al di là del disastro organizzativo, cognitivo e di comunicazione che abbiamo già in precedenza sottolineato in due precedenti articoli su Roars (vedi link1 e link2) e su cui ancora non si spengono le polemiche (vedi La Stampa)?
La disastrosa vicissitudine gestita con incompetente dilettantismo dagli esperti del ministero e dai suoi massimi responsabili ha inciso negativamente sulla vita e sui destini di centinaia di candidati. Le pezze apposte con il numero elevatissimo di quesiti erronei dichiarati con una certa indulgenza dalla apposita Commissione nominata dal Ministro ha solo in parte sanato il vulnus (in certi casi, come in lingua francese, portando la percentuale degli ammessi dal misero 2,94% al 38,22%), giacché restano degli squilibri elevatisssimi e incomprensibili – in ogni caso non equi – tra le percentuali degli ammessi nelle varie classi di concorso, a meno di non ammettere una generalizzata astenia conoscitiva in alcuni campi disciplinari e una eccellenza in altri (v. il grafico 1). Come infatti giustificare – pur dopo gli interventi effettuati dalla Commissione che ha portato a dichiarare in certi casi ben 25 quesiti errati su 60 – l’abisso che esiste tra l’85,51% circa di ammessi nella classe A060 (Scienze naturali, chimica e geografia, microbiologia) e il misero 9,98% della A050 (Materie letterarie negli istituti di istruzione secondaria di II)? Un’Italia di scienziati e tecnologi d’avanguardia e di scadenti letterati? Non si direbbe, se poi nella classe A059 (Matematiche e scienze nella scuola secondaria di I grado) abbiamo anche un valore molto basso, ovvero il 12,64% e nella A037 (Filosofia e storia) navighiamo verso il 64%. No, non si tratta di una differente propensione degli studenti italiani per certe discipline a preferenza di altre, ma semplicemente di quesiti mal concepiti, con grandi differenze nei gradienti di difficoltà e nelle percentuali di errore, con la conseguenza di un giusto sentimento di frustrazione per i candidati che sono finiti in quelle più penalizzate.
Tuttavia tali test di ammissione presentano per un discorso più generale un evidente vantaggio: costituiscono una sorta di screening nazionale in cui tutti i laureati vengono sottoposti ai medesimi quesiti, così permettendo di valutarne non tanto le conoscenze in senso assoluto, bensì il loro differenziale tra le varie sedi e le varie parti d’Italia. Precisiamo però che ad essere valutata non è tanto la preparazione scientifica o l’intelligenza cognitiva, ma assai spesso la mera conoscenza nozionistica, in quanto molti test (specie nelle materie umanistiche, in cui si trattava di azzeccare ad es. l’autore di un’opera e cose consimili) hanno proprio questo carattere, diversamente da quelli scientifici, in cui per lo più bisognava risolvere problemi o calcolare dei valori. Infine, tali quesiti sono rivelatori, al più, del grado di preparazione degli studenti che escono dalle diverse sedi universitarie; cioè testimoniano della efficacia della didattica, che non ha nulla a che vedere con la qualità o l’eccellenza scientifica del personale docente nelle diverse sedi: è ben noto, infatti, che un ottimo ricercatore può non essere un altrettanto bravo docente; e viceversa, un docente “al di sotto della mediana”, può essere un ottimo insegnante, che fornisce ai propri studenti tutto quanto è necessario – in termini di conoscenze utili – per superare questo tipo di quesiti. Questo trova una immediata conferma se confrontiamo le prestazioni fornite da certi atenei nel TFA con le posizioni da essi occupate nei principali ranking che ne misurano in particolare la qualità scientifica, sicché può accadere che Napoli Federico II, tra le ultime nel TFA, invece riceve – comparativamente con gli altri atenei italiani – delle ottime performance nei ranking internazionali (vedi la tabella comparativa da noi pubblicata). Quindi, nel valutare le risposte fornite ai quesiti del TFA è necessario tener presente questo loro significato limitato, ma ritengo importante, anche se negli ultimi tempi trascurato per il prevalere dell’accento sulla sola “eccellenza scientifica” che è diventata – a seguito di quanto fatto dall’Anvur – una ossessione nazionale che sta risucchiando tutte le risorse di atenei e personale docente.
Ma non sono poche le cautele che debbono essere prese nel far questo tipo di analisi. Innanzi tutto perché il già detto carattere nozionistico di molti quesiti li faceva assai sensibili alle condizioni ‘locali’: bastava una vigilanza d’aula disattenta o ‘generosa’ e gli studenti avrebbero facilmente trovato la risposta collegandosi a Wikipedia col cellulare custodito in tasca, oltre a quello regolarmente consegnato all’ingresso. In secondo luogo, perché non vi è una corrispondenza esatta tra sede universitaria e classe di concorso: le prove di alcune di queste, infatti, sono assegnate a un certo ateneo e non a quello limitrofo, che per compenso ne ha assegnate altre, pur laureando entrambi studenti in grado di partecipare ad entrambi i concorsi. Un esempio per tutti: la Kore di Enna è in Sicilia unica sede di prove di ammissione per la lingua spagnola, per cui in essa confluiscono tutti gli studenti delle altre università siciliane (Catania, Messina, Palermo), sicché il risultato in percentuale degli ammessi riflette una condizione regionale piuttosto che le caratteristiche dell’ateneo; e situazioni di questo tipo ve ne sono parecchie. Inoltre dovrebbe essere anche preso in considerazione il fenomeno dell’emigrazione concorsuale, ovvero la decisione di molti candidati di non tentare nell’università in cui si sono laureati, ma in altra sede ritenuta verosimilmente meno affollata e quindi con maggiori opportunità di ammissione. Infine, affinché l’analisi possa effettivamente discriminare tra le diverse situazioni universitarie, bisognerebbe valutare il cosiddetto “valore aggiunto” che ciascuna università fornisce alla preparazione in entrata dei suoi studenti; è infatti evidente che anche la migliore università con la migliore didattica non può far miracoli con studenti provenienti dalla scuola superiore con una preparazione assai scadente.
Nonostante tutti questi caveat – che invitano in sostanza a non assolutizzare i risultati parziali di singole sedi o i valori di singole classi nel senso della eccellenza o della deficienza – resta il fatto che una analisi delle percentuali degli ammessi nelle varie classi di concorso per le diverse sedi universitarie mostra una notevole convergenza verso certi esiti, che assai difficilmente potrebbero essere ritenuti, nella loro generalità, un mero accidente statistico. Per rendere quanto più omogeneo e significativo il confronto abbiamo scelto le classi di concorso più significative e di base (in tutto 18), in ambito umanistico e scientifico, che avessero anche il vantaggio di comprendere un numero di sedi concorsuali abbastanza elevato (la classi di concorso analizzate sono quelle indicate nella tabella 1).
Abbiamo quindi calcolato la percentuale degli ammessi per ciascuna sede in ognuna delle prescelte classi di concorso (un lavoro fatto a mano, con gli inevitabili possibili errori, sulla base delle tabelle pubblicate dal Cineca, in quanto il servizio tecnico di questo ha rifiutato di fornirci i dati richiesti, ovvero numero di ammessi e numero di concorrenti per ciascuna università e classe di concorso). Sulla base di tali percentuali, abbiamo poi suddiviso in quartili i risultati di ciascuna classe di concorso (v. un esempio nella tabella 2, che è quella col numero maggiore di sedi universitarie: il quartile migliore è colorato in verde, il secondo quartile in azzurro e così via) e quindi abbiamo calcolato quante volte ciascuna sede universitaria è presente in ciascuno dei quartili, ricavandone poi il valore percentuale.
Il risultato che ne è scaturito viene riassunto nella tabella 3, che converge verso un chiaro esito: le sedi universitarie che hanno riportato le collocazioni peggiori sono per lo più quelle meridionali, cui seguono quelle del centro e quindi spiccano alcune università del Nord. Si direbbe proprio – stando a questi risultati – che la preparazione (con tutti i caveat da noi precedentemente esposti) fornita dalle università meridionali sia meno idonea a far superare agli studenti test quali quello del TFA. Se poi si incrociano questi risultati con quelli che ci provengono dal PISA Assessment Framework del 2009 (che valuta le competenze chiave degli studenti 15enni delle scuole secondarie superiori nel campo delle scienze e della matematica e della comprensione del testo scritto, in 65 paesi del mondo), si vede che esiste una notevole convergenza nella differenziazione tra macroaree italiane. Anche in questo caso, infatti, mentre gli studenti del Nord si collocano al di sopra della media italiana e di quella Ocse e quelli del Centro sono nella media, invece quelli del Sud si pongono al di sotto sia della media italiana che di quella Ocse (vedi l’analisi effettuata in un testo dell’Invalsi). E i recenti risultati di un rapporto Invalsi – che cura le indagini PISA per l’Italia – basato anch’esso sulla somministrazione di test a risposta multipla nelle scuole e pubblicato nel luglio di quest’anno, testimoniano anch’essi come il sistema scolastico fornisca livelli di preparazione differenziati tra Nord, Centro e Sud.
Insomma i risultati che provengono dall’esito delle prove del TFA sembrano completare il quadro fornito da PISA e Invalsi per le scuole secondarie superiori, mostrando come il ritardo nella preparazione disciplinare degli studenti della scuola delle regioni meridionali prosegua anche nelle università: queste ultime non sembrano essere in grado di colmare il ritardo già accumulato dagli studenti in entrata, provenienti dalle scuole superiori, e quindi alla fine del percorso universitario non riescono a fornire ai propri laureati uno stock di conoscenze adatto a superare il tipo di prove basate per lo più su quesiti a risposta multipla. E questo deficit meridionale nella complessiva filiera educativa sembra approfondire e illuminare sinistramente quel generale ritardo economico, civile e sociale che caratterizza le regioni meridionali, inscrivendosi in esso ed esigendo riflessioni e risposte adeguate.
Certamente questo tipo di considerazioni e risultati possono essere oggetto – e lo sono stati a ragione – di molte obiezioni; e tra queste v’è in primo luogo quella sulla idoneità di siffatti strumenti a misurare effettivamente la preparazione culturale e la competenza cognitiva, che non coincide affatto con la mera informazione che è per lo più presupposta per superare i quesiti, almeno quelli del TFA. Tuttavia un discorso è cercare di utilizzarli cum grano salis e facendo uso delle metodologie corrette, consapevoli dei limiti di un simile approccio – un altro invece brandirli come arma di sterminio in base a delle generalizzazioni e a dei taciti presupposti ideologici che, a dire il vero, sembrano dominare l’attuale dibattito italiano su università, formazione ed eccellenza scientifica. Non si tratta ovviamente di rifiutare ogni forma di valutazione (qui a Roars lo abbiamo più volte ribadito in merito al VQR e all’opera portata avanti dall’Anvur), ma di effettuarla nei modi corretti, senza che essa diventi una resa dei conti tra gruppi di potere, tra ceti sociali o tra interessi campanilistici e macroregionali.
Cosa infatti si potrebbe inferire incautamente dall’esito di questo esame sul TFA, assunto nel suo dato grezzo e senza andare a considerare altri fattori che possono su esso influire (come ad es. la spesa media per studente assicurato dal FFO per ciascuna università, il rapporto docenti/studenti in ciascun ateneo, che non ha scarso peso per assicurare l’efficacia della didattica dell’insegnamento, oppure la dimensione degli atenei con la possibilità di seguire più da vicino gli studenti in quelli piccoli rispetto alle megastrutture; infine il contesto economico-sociale nel quale sono collocate le università)? Qualcuno potrebbe tranquillamente dire che ciò conforta la tesi sulla necessità di chiudere le università inefficienti e di concentrare le risorse su quelle migliori, specie se questo dato fosse ulteriormente confortato anche con quello concernente la qualità scientifica, così come dovrebbe risultare dal VQR. E certamente qualche leghista griderebbe allo spreco del Sud e alla sua cronica incapacità di mantenere standard qualitativi degni dell’Europa. E magari vi sarà chi dirà che bisogna in qualche modo penalizzare le università didatticamente meno efficace, dimostrandosi così un seguace del principio di San Matteo per cui a chi ha molto sarà dato di più, a chi ha poco sarà tolto quello che ha.
Tutto ciò è il sintomo di una riduzione della considerazione del ruolo sociale dell’università a due sole dimensioni: quella professionalizzante e quella di volano dell’economia attraverso la ricerca scientifica (è l’idea che sottende la “società della conoscenza”). Per il primo aspetto, una università vale solo se fornisce una preparazione che permetta di trovare la migliore collocazione sul mercato del lavoro; per il secondo, una università è tanto più efficiente quanto più riesce a inserirsi nel processo di innovazione tecnologica e quindi a suscitare una ricaduta economica. Resta del tutto esclusa da questo orizzonte quella che di solito viene considerata la “terza missione dell’università”, ovvero la sua capacità di garantire la tenuta culturale e identitaria del tessuto civile, di assicurare un’alta qualità umana diffusa sul territorio e quindi di innescare del processi di miglioramento complessivo sul piano civile e sociale, che costituiscono i prerequisiti per il progresso economico. Non è una stravaganza il fatto che tutti gli indicatori internazionali dei maggiori organismi economici e della stessa Banca d’Italia sottolineino come la crescita economica dell’Italia sia frenata da inefficienza, corruzione, criminalità e scarsa qualità del capitale umano: tutti fattori su cui può solo incidere una educazione di massa diffusa sul territorio e di qualità che, al livello più elevato, è assicurata da una diffusione capillare e uniforme del sistema universitario. Di fronte alla crisi drammatica del meridione – in tutti i suoi aspetti, ivi compreso quello universitario – non sono possibili soluzioni semplicistiche basate sul bastone e la carota, ma è necessario un processo graduale di accompagnamento che permetta alle istituzioni universitarie meridionali di superare i propri limiti, affrontare le proprie criticità e quindi mettersi al passo con il resto d’Italia e con l’Europa. Esse possono così avere una funzione pilota nel rinnovamento e nella rinascita complessiva del Sud. Ma purtroppo negli ultimi anni si sono preferite le scelte demagogiche, come quella di qualche anno fa di premiare le università aventi minori fuoricorso, che ha immediatamente innescato un meccanismo di promozione facilitata, per evitare la penalizzazione della propria sede: tutto il contrario di quello che serve per una migliore preparazione. E ora, l’idea di una maggiore tassazione per i fuori corso potrebbe stimolare il comportamento contrario: alle università converrebbe averne molti, in quanto così incrementerebbero le proprie entrate.
La riforma Gelmini è stata la quintessenza della demagogia: rivoltare come un guanto l’università, sottoporla a un ulteriore shock organizzativo, creare un centro di potere incontrollato come l’Anvur, che si è assunto l’onere della salvezza e del risanamento del sistema universitario italiano con le sue genialate bibliometriche, senza però affrontarne i problemi reali, di gran lunga più radicati nel tempo e nel suo tessuto organizzativo di quanto non possa risolvere una cinica operazione di mobbing verso gli ordinari incapaci. I problemi reali non si risolvono come i quiz a risposta multipla, all’interno di una logica semplice e semplificatoria. Devono essere affrontati con competenza e rigore, passo dopo passo (direi popperianamente, con una sorta di ingegneria a spizzico), senza sognare complessive palingenesi e – più importante – senza credere che vi siano degli angeli vendicatori che da soli, con qualche formuletta, possano risanare in un fiat ciò che necessita di un lungo processo di graduale convalescenza.
Ahem. Non è vero che “un bravo ricercatore non è un bravo docente e viceversa”. Il problema sono i tempi da dedicare a ricerca e didattica.
Ho scritto: «un ottimo ricercatore può non essere un altrettanto bravo docente». Mi pare che vi sia una certa differenza…
non vedo la A033 educazione Tecnica, di cui 9 su 60 sono le risposte errate secondo il miur
Caro Antoniotti,
credo nessuno abbia affermato (o possa affermare) che didattica e ricerca siano mutuamente esclusive.
Se si è un ricercatore con affidamenti didattici (come per esempio da noi tutti i ricercatori di ingegneria) la contraddizione emerge immediatamente, però. Gli associati, almeno da noi, hanno tutti compiti didattici importanti e non se la passano molto meglio, ma almeno possono contare su una loro squadretta (o sperarci).
Solo che se a contare è solo la ricerca, intesa come produzione industriale di articoli, le cose peggiorano molto: già a meno di non stare in un gruppo forte, è di fatto impossibile tener dietro al ritmo di cartiere ben interconnesse in ambito internazionale. A soffrirne è inevitabilmente la didattica.
La situazione dei ricercatori rimasti isolati, o poco connessi, è a questo proposito esemplare.
PS ti devo una replica circa 3+2, ordinamenti e crediti formativi, ma in questo momento (e in questa sede) mi risulta impossibile. Per ora mi limito, da pasdaran del “5 secco” (altro che 3+2, 3, y e compagnia bella), a confermare che in assenza di un biennio iniziale tradizionale con Analisi I e II, Fisica I e II etc., il tuo pur valido chimico triennale verrebbe murato a furia di CFU nei sotterranei della nostra facoltà.
mi piace questo articolo, soprattutto la parte finale, che propongo all’attenta riflessione di tutti: ” Devono essere affrontati con competenza e rigore, passo dopo passo (direi popperianamente, con una sorta di ingegneria a spizzico), senza sognare complessive palingenesi e – più importante – senza credere che vi siano degli angeli vendicatori che da soli, con qualche formuletta, possano risanare in un fiat ciò che necessita di un lungo processo di graduale convalescenza. ”
I tanti ‘Salvatori della patria’ osannati da giornalisti faziosi ed ignoranti, non fanno altro che rovinare ancor peggio le cose.