In Italia ci sarebbero troppe università, troppi corsi di laurea, troppi professori e troppi laureati. È proprio così? Vediamo cosa dicono le statistiche Eurostat per l’Unione Europea a 28 nazioni. Come percentuale di laureati nel segmento di età 30-34 anni, nel 2004 l’Italia era quartultima (seguita da Slovacchia, Repubblica Ceca e Romania). Oggi, dopo un decennio, occupiamo saldamente l’ultimo posto in Europa. Nella pagina Europe 2020 della Commissione Europea è anche possibile confrontare gli obiettivi per il 2020 di ogni nazione: quello dell’Italia è mantenere l’ultima posizione e aggravare il distacco, dato che il suo target (26-27% di laureati) è il più modesto di tutta l’Unione Europea. Non ci toglierebbe dall’ultima posizione nemmeno l’ingresso nell’UE della Turchia, perché anch’essa è in procinto di sorpassare l’Italia in quanto a percentuale di laureati.
Qualche giorno fa, Eurostat ha diffuso i dati aggiornati sul numero di laureati nelle nazioni dell’Unione Europea. È una buona occasione per fare il punto sull’evoluzione del numero di laureati nell’ultimo decennio, sempre con l’aiuto dei dati scaricabili dal database Eurostat.
In particolare, è interessante esaminare il grafico della percentuale di laureati nel segmento di età 30-34 anni lungo il periodo che abbraccia il decennio 2004-2013.
Come è immediato notare, nel 2004 l’Italia era quartultima (seguita da Slovacchia, Repubblica Ceca e Romania). Nel corso dell’ultimo decennio, siamo stati superati anche da queste tre nazioni e nel 2013 occupiamo saldamente l’ultimo posto in Europa.
Ma quali sono le prospettive nell’immediato futuro? Stiamo progettando una rimonta per risalire almeno qualche posizione? Non sembra proprio.
Sulla pagina Europe 2020 della Commissione Europea è disponibile un documento che riporta gli obiettivi per il 2020 di ogni singola nazione. Nel suo complesso, l’UE punta a raggiungere almeno il 40% di laureati:
In the area of tertiary education, the Europe 2020 Strategy set the headline target that at least 40 % of 30-34 year olds should have a tertiary or equivalent qualification by 2020.
Va notato che i target delle 28 nazioni dell’Unione sono differenziati tra loro. Come si può vedere dal grafico riportato di seguito, otto nazioni hanno un target superiore al 40%. L’Italia, al contrario, non solo è tra le dieci nazioni il cui target è inferiore al 40%, ma presenta il target più basso dell’intera UE: 26-27%, partendo dal 21,7% del 2012. Un target decisamente meno ambizioso di quello di altre nazioni come Malta (MT), Croazia (HR) e Slovacchia (SK), il cui dato di partenza supera di poco quello italiano.
Fonte: EUROPE 2020 TARGET: TERTIARY EDUCATION ATTAINMENT
In altre parole, l’Italia, che parte in ultima posizione, da qui al 2020 si prefigge di perdere terreno nei confronti di chi già la precede. Se gli obiettivi dovessero essere mantenuti, continueremo ad inseguire la Romania, il cui target – seppur modesto – è superiore a quello italiano, mentre si consoliderà un netto distacco da tutto il resto dell’UE.
Qualcuno potrebbe pensare che, se la Turchia entrerà nell’Unione Europea, spetterà a lei il ruolo di “fanalino di coda” dell’UE. Per verificarlo, approfittiamo del fatto che il database Eurostat fornisce anche i dati di alcune nazioni non appartenenti all’UE, tra cui la Turchia. Ecco il confronto tra la serie storica italiana e quella turca.
Negli utlimi anni, la Turchia ha quasi annullato il distacco nei confronti dell’Italia. Se la sua percentuale di laureati nella fascia 30-34 continuasse a crescere con la stessa velocità, è destinata a raggiungere il 30% nel 2020, una percentuale superiore a quel 26-27% che costituisce il target dell’Italia.
Pertanto, l’Italia ha ottime probabilità di mantenere e consolidare l’ultima posizione nella classifica europea della formazione universitaria, anche a fronte di un eventuale ingresso della Turchia in Europa.
La notizia del poco invidiabile primato italiano è stata ripresa anche nel corso della puntata di 8 e mezzo del 7 giugno 2014.
[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=qJ2Gw6Ysuk4&start=1080]
Gli obiettivi per il 2020 sono stati “proposti” dai singoli Paesi, e accettati in sede UE laddove “ragionevoli”, in quanto si è convenuto che non fosse realistico mettere obiettivi uguali per tutti (e in questo caso anche alla luce delle differenze complessive nei sistemi produttivi, oltre che in quelli educativi).
Per la cronaca, gli obiettivi per l’Italia sono stati fissati da Tremonti, illis temporibus (2011).
In effetti, nel fissare un target così modesto Tremonti è stato coerente con le politiche perseguite dal governo di cui faceva parte (tagli FFO, riduzione turn-over) ed anche con la sua visione del mondo (con la cultura non si mangia).
Sì, è proprio colpa di quel cattivone di Tremonti e della sua visione del mondo.
Ma qual è quel partito che ha fatto sempre parte della maggioranza di governo negli ultimi anni (governi Monti, Letta, Renzi)?
C’è l’ho sulla punta della lingua … Partito della Destra? Partito della Distruzione del welfare state?
Niente da fare, mi viene in mente solo l’acronimo, aiutatemi voi.
Errata Corrige: “Ce l’ho”. Oltre alla verità storica e politica vorrei cercare di rispettare anche la grammatica.
Amico, stiamo parlando di sistema-Paese (classi dirigenti e cittadini nel loro complesso), non tanto di singoli Partiti politici, che ovviamente vivono in un certo ambiente che ne influenza l’azione e le scelte.
Dopodiché, mi si lasci anche la possibilità di valutare la diversità di attitudini e di aggressività nei confronti del sistema Università-ricerca che hanno avuto in questi 10-15 anni i governi di centro-destra (2001-2006, 2008-2012) di centro-sinistra (2006-2008) e di Larghe Intese (2012-2014).
E’ un bel guaio quando in un paese manca l’opposizione.
Caro Rubele,
ricambio l’attesto di amicizia che generosamente ricevo da lei. E in amicizia le faccio osservare che Tremonti non l’ho citato io per primo. E sempre in amicizia le lascio la possibilità di valutare le attitudini e l’aggressività di chi le pare.
Quando riuscirà a dimostrarmi che i ministri Profumo, Carrozza e Giannini hanno fatto molto peggio del ministro Gelmini sarò lieto di riconoscerlo.
P.S. Ma non è su ROARS che avete ridicolizzato l’attitudine di un primo ministro che voleva fare 4 o 5 poli come Harvard in Italia (e per il resto tabula rasa)? Di che partito era questo premier?
Niente, non mi viene …
Errata corrige bis: “Quando riuscirà a dimostrarmi che i ministri Profumo, Carrozza e Giannini hanno fatto molto MEGLIO del ministro Gelmini sarò lieto di riconoscerlo.”
Amico, non è chiarissima la tesi che Lei vuole dimostrare. Né il testo dell’articolo né i primi commenti volevano mettere sul tavolo una caciara partigiana, salvo garantire le opinioni di chi preferisce identificare responsabili maggiori di altri.
Io non intendo, in particolare, “dimostrare” alcunché circa i Ministri – e del resto ho una scarsa opinione personale di Profumo, Carrozza, Giannini uti Ministri, che non penso serva granché nell’affrontare questa Grande Questione.
La discussione qui riportata mostra i veri limiti dell’università.
Unica soluzione:
didattica agli attuali professori
organizzazione ed obiettivi e manager esterni completamente nuovi e slegati da ligiche culturali dell’università attuale
Chi abbia letto qualche cronaca delle vicende universitarie (inglesi o australiane, per esempio) dove il potere è passato ai manager intuisce che esiste qualcosa di molto peggio dell’autogoverno dei professori, per quanto litigiosi, collusi, inconcludenti e narcisisti essi possano essere.
oh finalmente una buona idea. manager esterni che si occupano un po’ di tutto, dal costuire capannoni a pubblicizzare i corsi di studio e magari a promuovere i prodotti della ricerca. Facciamo una cosa: apriamo un bel bando in confindustria e magari qualcuno si trova (non quelli che sono stati appena nominati a ENI ecc., ma ce ne faremo una ragione).
La Germania ha la stessa proporzione di “laureati”, titolo equivalente ISCED 5a, dell’Italia (e della Grecia).
Bene fare confronti con altre nazioni, male fare cherry-picking: la Turchia, dato il suo recente sviluppo economico ha chiaramente un deficit di 50-60enni laureati (che in Italia, con le condizioni attuali, abbiamo in abbondanza), dato che un’economia moderna richiede un certo numero di laureati, se essi non ci sono giá, andaranno urgentemente “creati”.
Difatti quello che cambia, confrontando Italia con Germania e Austria, paesi simili al nostro, sono i titoli ISCED 5b e ISCED 4, che per riassumere molto volgarmente, sonoistruzione post-secondaria e/o terziaria professionalizzante, che servono all’industria/servizi.
Quindi, l’italia non é male perché non ha laureati, l’italia é male perché non gli servono i laureati.
Quindi, si, ci sono troppe universitá, troppi professori, troppi corsi di laurea.
Ma del resto abbiamo deciso che uno dei grandi vantaggi dell’€pa unita é che possiamo importare economicamente quello di cui abbiamo bisogno, siano materie prime, semilavorati, prodotti finiti, competenze o servizi, perché dovremmo ancora essere in grado di fare qualcosa?
“male fare cherry-picking: la Turchia, dato il suo recente sviluppo economico ha chiaramente un deficit di 50-60enni laureati (che in Italia, con le condizioni attuali, abbiamo in abbondanza), dato che un’economia moderna richiede un certo numero di laureati, se essi non ci sono giá, andaranno urgentemente “creati”.
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Ma come ho fatto a non capirlo? Non abbiamo ragione di preoccuparci: la crescita dei laureati turchi non è strutturale ma serve a compensare urgentemente il loro deficit di 50-60-enni laureati.
Riguardo al cherry-picking: nonostante la buona volontà, la ciliegia era proprio una sola. Tutte le altre nazioni extra-UE monitorate da Eurostat hanno una percentuale di laureati superiore a quella italiana.
Quindi in tutti i paesi dove i laureati aumentano di molto é strutturale, se invece aumentano di poco non lo é e sono cattive politiche?
Facevo fatica a cogliere il punto, ma lo accetto e improvvisamente inizio a preoccuparmi, prima non lo ero per nulla e passavo di qua solo per dirvi che va tutto bene e le aule delle universitá sono sempre piene.
Infatti leggendo questo:
http://skills.oecd.org/OECD_Skills_Outlook_2013.pdf
mi ero quasi convinto che fosse banalmente un problema medio di qualitá dell’istruzione, visto che come competenze numeriche e letterarie siamo agli ultimi (eh si, anche qui!) posti tra i paesi avanzati, spesso insieme alla Spagna, a paritá di livelli d’istruzione raggiunti (a paritá e non, visto che i diplomati di scuole superiori olandesi hanno competenze pari ai laureati italiani).
Beata la Spagna che almeno ha molti piú laureati!
In Italia tra l’altro abbiamo il piú alto tasso di abbandono dell’universitá (33%) e il piú basso tasso di ritorno (solo l’8%) ( http://www.timeshighereducation.co.uk/news/uk-has-lowest-drop-out-rate-in-europe/2012400.article ) .
Il record di abbandono mi fa pensare ad un gap elevato tra istruzione secondaria e terziaria (ovviamente credo che vada migliorata la prima e probabilmente anche l’istruzione primaria, o continuiamo a tollerare l’ignoranza diffusa?), il record di non-ritorno invece mi fa pensare che chi abbandona l’universitá si renda conto di quanto poco vantaggioso sia avere la laurea, rispetto a non averla (ma sono solo il 92% del 33% che abbandona gli studi universitari, devono essere degli ignoranti che non capiscono appieno il valore della laurea, evidentemente non capiscono il valore delle cose).
Dati questi due paletti, l’unica azione che vedo possibile, per aumentare il numero dei laureati, é andare incontro alle ridotte capacitá degli studenti in entrata, abbassando “le richieste” per completare l’istruzione terziaria.
Cosí avremo piú laureati, ma anche un numero minore di essi troverá lavoro all’estero: ridurremo cosí la fuga dei cervelli e il numero dei cervelli stessi.
“Quindi in tutti i paesi dove i laureati aumentano di molto é strutturale, se invece aumentano di poco non lo é e sono cattive politiche?”
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Forse sfugge che la crescita turca non e’ un fenomeno eccezionale selezionato col lanternino per far fare brutta figura alle discutibili ricette italiane (perche’ se tagli le borse di studio, aumenti le tasse di iscrizione, tagli il fondo di finanziamento ordinario, dai una sforbiciata ai docenti, riduci sedi periferiche e corsi di laurea, scrivi su tutti i giornali che l’universita’ italiana non e’ all’altezza e il pezzo di carta non serve a nulla, qualche effetto alla fine si vede).
Se si guardano i numeri, in Turchia la percentuale di laureati (+7,6 punti percentuali dal 2006 al 2013) sta crescendo *piu’ lentamente* di quanto accade in media in UE-28 (+8 punti percentuali, http://epp.eurostat.ec.europa.eu/tgm/table.do?tab=table&init=1&language=en&pcode=tsdsc480&plugin=1). Paradossalmente, dovrei pensare che la carenza di laureati 50-60-enni sia un fenomeno drammaticamente dilagante in tutta l’Unione Europea.
Lo dico con personale soddisfazione: e’ finalmente giunto il momento della riscossa dei 50-60-enni con laurea.
Brizzolati di tutta Europa, unitevi!
Penso che la polemica nasca da un malinteso: è chiaro che è del tutto legittimo pensare che l’Italia “debba” avere pochi laureati (diciamo pochi formati attraverso l’istruzione terziaria, in termini generali). Tuttavia la totalità delle analisi politiche comunemente accettate nel mondo (e la cui conoscenza si dà per scontata al lettore medio di ROARS) afferma che vi sono forti correlazioni fra grado di istruzione della popolazione e capacità di sostenere uno sviluppo economico di qualità, e non relegato a segmenti di mercato sempre più esposti alla concorrenza sui prezzi da parte dei Paesi Emergenti.
Pertanto sta al decisore politico e al popolo sovrano fare le opportune valutazioni; è sottointeso che molti Redattori (e lettori) di ROARS abbiano già fatto la loro, e che tale scelta si discosti da quella fatta dalle élite politico-economiche italiane in questi anni.
Mi scuso a priori per la banalita’ del mio (primo) intervento su Roars. Dall’istogramma della Tabella 1 si deduce chiaramente (come osservato da Urpi) che la ragione PRINCIPALE del basso tasso di istruzione terziaria in Italia e’ la sostanziale assenza di titoli di tipo ISCED5B:
Tertiary-type B programmes (ISCED 5B) are typically shorter than those of tertiary-type A and focus on practical, technical or occupational skills for direct entry into the labour market, although some theoretical foundations may be covered in the respective programmes. They have a minimum duration of two years full-time equivalent at the tertiary level.
Questi tipo di titoli sono presenti non solo in Germania (che ha una struttura produttiva molto simile alla nostra), ma anche negli USA (esempio: associate degree rilasciato da un community college).
Perche’ in Italia gli Istituti Tecnici Superiori non decollano?
Se permettete, la risposta la potete trovare qui
http://www.imille.org/2011/10/l%E2%80%99istruzione-terziaria-tecnico-professionale-e-il-%C2%ABnuovo-apprendistato-universitario%C2%BB-de-%E2%80%9Clavoce-info%E2%80%9D/
Cavoli, adesso finalmente capisco perché l’Irlanda ha un’economia così florida!
Caro Rubele,
ormai siamo amici intimi e lei si merita che io esprima in modo più chiaro la mia tesi, basta battutine scherzose. Non prima di averle fatta notare che la “caciara partigiana” è stata iniziata nei primi due commenti.
Premesso che parlo da (ex)elettore di sinistra ho una certa impressione, anzi due.
Prima impressione: nella seconda repubblica non ha governato solo Berlusconi (e Tremonti). Scommettiamo che se andiamo a vedere la durata dei vari governi post-92 il Partito Democratico (o i suoi predecessori) ha governato direttamente (o tramite i governi tecnici e/o di larghe intese) tanto quanto Berlusconi?
Seconda impressione: se prendiamo qualche indicatore numerico che riguarda lo stato sociale (che so, i finanziamenti all’università o alla scuola) non credo che Berlusconi e i suoi governi abbiano fatto peggio del centrosinistra. Scommettiamo?
Posso avere torto, non sarà difficile dimostrarmelo con i dati e con le tabelle, come usa qui su Roars.
Spero proprio di avere torto. Perché nel caso contrario sarà chiaro che le forze politiche di sinistra (incluso il simpatico club degli amici di Archinà) hanno tradito i loro elettori.
La “Grande Questione”, dal mio modestissimo punto di vista, è tutta qui. Forse non è una questione del tutto irrilevante per i lettori di Roars.
In realtà, posto che storicamente è un dato di fatto che la Distruzione dell’Università Pubblica sia avvenuta nel biennio 2008-2010, ad opera dei Ministri Tremonti e Gelmini, e con la decisiva connivenza – non dimentichiamolo mai – del mondo accademico, trovo che i successivi Ministri Profumo, Carrozza e (per quanto visto sinora) Giannini abbiano operato secondo una linea tutt’altro che coerente per quanto riguarda le politiche universitarie; a maggior riprova di quel che forse Gibilisco voleva (anche) dire, ossia l’assenza di un disegno coerente su Istruzione, Università e Ricerca all’interno del maggior partito italiano (ma lo si sapeva, purtroppo), con il conseguente prevalere della “tribù” che in uno specifico momento riusciva a mettere le mani sul MIUR. Ora che le tribù, a quanto pare, hanno trovato un Capo, vedremo che disegno emergerà. Se emergerà.
L’articolo è interessante e i commenti pure. Ma mi permetterei di auspicare, in futuro, che si evitasse di usare la parola “laureati” come se rappresentasse un tutto omogeneo. Esistono lauree che preparano all’esercizio di una professione, che nessuno mette in dubbio (che ne so: tradurre dal cinese?) ed esistono lauree che – parimenti dignitose e magari parimenti difficili – servono solo a chi le fa (che ne so? filosofia, lettere antiche?) ma che non hanno nessuno sbocco realistico sul mercato del lavoro. Allora quando si fanno questi paragoni, a me piacerebbe leggere paragoni che tengano conto anche della utilità di codeste lauree: scopriremo prima o poi che nelle nazioni con meno problemi economici, ci sono tanti traduttori dal cinese e pochi ciceronisti?
Io, personalmente, col latino in parte ci campo (basta leggere il nickname) ma non pretendo mica che lo insegnino nelle pubbliche scuole.
Il Latino si insegna nelle Grammar School Inglesi: non dovremmo insegnarlo nei Licei Italiani?
Ma cosa dici? Nelle Grammar School è una materia marginale per soli fanatici, in Italia è la chiave di volta di ogni bocciatura e di ogni abbandono (controlla, controlla pure: chiedi a 100 ragazzi che hanno abbandonato e guarda che coincidenza, mancava latino a 100 su 100). In Italia è ancora una materia percepita come importante e pesante. A parte che in statistica non vale fare cherry picking (e semmai quanto latino fanno nelle economie che contano, i BRICS?). Latino, lo sanno tutti, è una maniera di discriminare per censo e per nascita: se in famiglia hai un medico e un’avvocatessa, o ti aiutano o ti pagano le ripetizioni (e se lo so!), se invece sei figlio di… controlla, controlla, guarda che scoprirari delle cose forti (e ben note in letteratura). Greco è ancora peggio.
@Rubele nelle scuole inglesi il latino non è materia obbligatoria nemmeno nelle scuole più selettive. Nei primo biennio delle superiori (GCSEs) circa l’1-2% sceglie il latino, quota che scende ulteriormente nel secondo biennio con gli A-levels o l’IB. In Italia, invece, circa il 40% degli studenti studia il latino per 5 anni, e una quota consistente (circa l’8%) studia il greco.
Il latinista che affossa il latino (N.B. “pubblico”) dimostra quanto il modello corruttivo della neouniversità e della neocultura sia entrato profondamente in chi dovrebbe essere presidio di civiltà e trasmissione del sapere.
Ragazzi, siamo nel terzo millennio, non è possibile difendere il latino come se fosse la chiave di volta del “presidio di civiltà” e della “trasmissione del sapere”. Qui è da quasi cento anni che si susseguono ministri che hanno studiato latino, e il risultato è che Pompei cade a pezzi (destra o sinistra fa uguale) e che comunque tutto ciò che non è “classico” (cioè greco/romano) non conta nulla – vedi le polemiche con Salvatore Settis – Difendere l’egemonia del latino è un’operazione che risale nientemeno che a Croce e Gentile, come fate ad affrontare i problemi della globalizzazione di oggi con paradigmi strategici che risalgono alla fase più “tarda” (e tardona) dell’imperialismo? Guardate che non c’è nessuna Quarta Sponda da colonizzare e nessuna Adua da vendicare, e se fosse vero che “il latino apre le menti”, in Italia saremmo apertissimi e i parlamentari più degli altri (e, invece…)
Avete visto “Smetto quando voglio?” Ci sono anche (attenzione: spoiler) due latinisti che litigano tra loro parlando velocissimo IN LATINO; e non solo fa ridere, ma è anche VERO. Poi però i due medesimo parlano in SANSCRITO con il gestore di un rifornimento di benzina, che è indiano. Questo non fa ridere e non è vero. Se quei latinisti sapessero parlare una lingua viva dell’Asia (giapponese, cinese, malese, turco, quello che vuoi) non avrebbero problemi a trovare lavoro, famiglia, soddisfazioni, e a dare un contributo alla storia dell’umanità come Marco Polo. Invece da liceali sono stati rovinati dai professori del liceo classico, poi all’università hanno sprecato il loro tempo studiando lingue per le quali semmai c’è esubero anzichè richiesta sul mercato del lavoro (lì si che ci vorrebbe il numero chiuso, per evitare di illudere tanti delusi) tanto nei musei e nei parchi archeologici assumono solo raccomandati o laureati in legge/economia. Facciamo così: tu mi dedichi la stessa attenzione alle lingue vive (che NON sono più solo inglese-francese-tedesco-spagnolo: quella è una visione eurocentrica che risale a Croce e Gentile) in termini di ore, peso, curricula, e in cambio lasciamo che si occupino delle lingue classiche esattamente quelli che potranno lavorarci (cioè, al massimo, poche centinaia in tutta Italia). altro che disoccupazione intellettuale: iniziate a studiare il cinese anzichè il greco e poi vediamo quanti disoccupati restano.
“lasciamo che si occupino delle lingue classiche esattamente quelli che potranno lavorarci”
Caro Erasmo (ma cambi nick almeno, lasci riposare in pace i morti), non si preoccupi: di questo passo, arriveremo presto alla situazione in cui “qualcuno” (MIUR? ANVUR?) stabilirà “chi può studiare cosa”. E c’è da scommettere che quel “cosa” non sarà il latino.
@Erasmo da Rotterdam (a quanto pare non è vero che habent sua fata nomina, o perlomeno “nicknomina”). Non capisco questo astio contro l’insegnamento delle lingue antiche, che, come sanno tutti quelli che le hanno studiate e capite, non è mai fine a sé stesso ma è sempre in funzione di una comprensione del mondo di ieri e di oggi; per altro non si studiano mai solo le lingue (che pure dicono tanto su una cultura) ma anche le letterature. Non voglio dire che si interpreta correttamente il mondo solo se si studiano le lingue e letterature antiche, ma certo studiarle, e capirle, non guasta. Il che non è per niente in conflitto con l’esigenza di studiare il cinese (lingua peraltro non banale, mi dice chi ha tentato di studiarla: chissa quante ripetizioni di cinese sarebbero necessarie per lo studente medio). Io faccio l’economista: non mi sono mai pentito di aver studiato il greco antico. Trovo che mi abbia aiutato: che l’immaginazione e il rigore intellettuale che ci vogliono (entrambi) per tradurre Tucidide siano gli stessi che ci vogliono per pensare un buon modello economico. Avrei potuto esercitare le stesse facoltà in altro modo? Sicuro. Ma, con un po’ di apertura mentale, penso che possano coesistere modi diversi per raggiungere un obiettivo. E, sì, resto convinto che il latino apra le menti, purché ovviamente le menti vogliano farsi aprire.
Pompei non cade a pezzi perché i ministri hanno studiato latino, la casualità di questa co-occorrenza non è causalità.
Concordo quindi con quanto detto da Balestrino, semmai ci sarebbe da discutere del punirne tanti con lo studio del latino, a fronte dell’illuminarne solo pochi con le sfumature e possibilità del greco… :-)
Caro Proietti,
non se la prenda ma lei esemplifica esattamente un atteggiamento che non posso fare mio. La cito:
“… storicamente è un dato di fatto che la Distruzione dell’Università Pubblica sia avvenuta nel biennio 2008-2010, ad opera dei Ministri Tremonti e Gelmini …”
Dove sono i dati? A quali statistiche fa riferimento? Si figuri se posso apprezzare le politiche di Tremonti e della Gelmini ma … in termini economici chi ha fatto i tagli più grossi alla spesa sociale e, nella fattispecie, all’università? Andiamo a vedere cosa è successo nella seconda repubblica? Sicuri che Ciampi, come premier, ha fatto meno danni di Berlusconi?
I colleghi di Roars hanno fatto tanto per riportare il dibattito sull’università sui binari di una discussione razionale. Sarebbe bene che anche sulla presunta differenza tra sinistra e destra (rispetto ai finanziamenti all’università) fosse puntato il faro delle statistiche.
O e tabù?
P.S. IMHO il disegno coerente nel PD si vede benissimo sia per quanto riguarda l’università sia per quanto riguarda, ad esempio, la legislazione sul lavoro: cancellare decenni di conquiste e riportare lo stato sociale a dimensioni irrilevanti.
Caro Gibilisco, a portare statistiche e tabelle penserà qualcun altro, non io. A me pare si possa argomentare che il blocco ormai sine die di turnover e aumenti stipendiali, da un lato, precarizzazione della funzione docente (messa a esaurimento del ruolo dei RTI e creazione degli RTD) e aziendalizzazione delle Università (centralità di CdA formati secondo regole non democratiche) siano provvedimenti chiaramente ascrivibili, rispettivamente, a Tremonti e Gelmini, e rispetto ai quali fino a prova contraria il PD di allora (ante Renzi) votò contro. Se poi a lei sembra che non vi siano significative differenze tra il modo in cui si sono mossi da ministri Profumo, Carrozza e Giannini allora non la seguo, evidentemente lei ha una visione più ampia e le paiono semplici sfumature concetti che a me sembrano centrali, quali ad esempio valore legale del titolo di studio, concorsi pubblici sì o no, ruolo e limiti dell’ANVUR, finanziamento pubblico degli atenei e delle scuole private – tutte cose rispetto alle quali i tre summenzionati non mi pare abbiano espresso opinioni e comportamenti assimilabili.
Cari Gibilisco e Proietti,
non so se questa sia la sede per dibattere della posizione della ex-sinistra ovvero del PD riguardo l’Università pubblica.
Farei però osservare a Proietti che dissentire a parole, per poi perseguire fedelmente una prassi politica ripugnante non costituisce gran titolo di merito. Ci si può ripetere il mantra tremontigelmini fino allo sfinimento, resta il fatto che i successivi ministri in governi “desinistra”, largheintese, tecnici ecc. non hanno mutato di una virgola la politica di marca tremontigelmini.
Caro StefanoL, un’ultima considerazione dopodiché la chiudo lì – non è che il tema mi appassioni più di tanto. Non sono d’accordo sul fatto che col ministro Carrozza non fosse mutata una virgola. Prendiamo i dottorati: l’ex ministro aveva dato lo stop al progetto anvuriano sull’accreditamento, e guarda caso appena è cambiata la guardia è stato pubblicato il testo ANVUR “definitivo” e demenziale sui parametri di valutazione dei collegi di dottorato. Piccolezze? Forse, ma non per chi nell’Università ci lavora.
Propongo il seguente quiz: mettere i nomi dei ministro in corrispodenza del finanziamento PRIN

Sulla interessante ipotesi sul “tradimento della Sinistra” segnalo due fonti che, in modi diversi, toccano l’argomento:
.
un articolo di Guido Ortona [1], professore di politica economica, Univ. Piemonte Orientale;
.
un intervento di Luciano Barra Caracciolo [2], presidente di sezione del consiglio di stato (e autore del libro “Euro e (o?) democrazia costituzionale. La convivenza impossibile tra costituzione e trattati europei”)
.
[1] http://goofynomics.blogspot.it/2014/01/il-mistero-della-sinistra-scomparsa.html
.
[2] http://www.youtube.com/watch?v=R7Yt40xQ1d8
La qualità del dibattito in corso mi spinge a suggerire ai redattori di ROARS una nuova iniziativa: attivare periodicamente competizioni online di glass-climbing, con le seguenti modalità:
1) De Nicolao pubblica una tabella di dati incontrovertibili (PS: grazie!)
2) I concorrenti cercano di dimostrare il contrario di ciò che mostrano i dati
3) Vince la tesi più evidentemente controfattuale
4) il premio e’ una gita al MIUR per complimentarsi personalmente con il Ministro/a in carica
Confesso di avere una (perversa) passione per gli arrampicatori di specchi insaponati. Ne ammiro le gesta, il coraggio, lo sprezzo del ridicolo. Mi sembra uno sport estremo che, a differenza di altri, non ti mette a rischio di finire spiaccicato ma solo di ridurre in polpette la tua credibilità. L’idea del premio mi vede favorevole e mi autocandido a far parte della giuria.
1) Nessuno ha contestato i dati dI De Nicolao (a cui sono molto grato per l’incredibile lavoro svolto). E’ in atto la distruzione sistematica dell’università italiana (e non solo di quella). Punto.
2) Ho osservato che attribuire la presente situazione esclusivamente alle politiche del duo Tremonti-Gelmini (quanto di più lontano da me dal punto di vista politico e culturale) mi sembra riduttivo ed errato.
3) Per Proietti la questione non è molto interessante, dopo tutto. Ottimo. A me invece la distribuzione dei punti organico messa su dal ministro Carrozza sembra da ricordare, dato che anche io lavoro all’università.
4) Last but not least: non vedo risposte al quiz di Sylos-Labini. Grafico piuttosto interessante, sembra che i crolli del finanziamento PRIN avvengano con maggioranze di governo dove c’è quel partito … Come si chiama?
La distribuzione dei punti organico predisposta dal ministro Carrozza è una cosa così scandalosa che avrebbe dovuto far sparire persino il ricordo del tunnel dei neutrini.
Mi spiace sinceramente per lei, del fatto che non sia riuscita a resistere alla tentazione e/o alle pressioni; si vive una volta sola e per me lei si è sporcata in modo indelebile, con quella scelta.
[…] Italia ultima in Europa. Obiettivo 2020: aggravare il distacco di Giuseppe De Nicolao Roars.it, 14 aprile 2014 […]
Non ho mai conosciuto persone rovinate dalle lingue classiche. Ho conosciuto molte persone che provenivano da famiglie non abbienti (me compresa) riscattarsi socialmente e culturalmente perché avevano frequentato il liceo classico, scelta della quale non sarò mai contenta abbastanza. Chi vuole studiare due lingue vive può fare il linguistico o qualche liceo sperimentale che le offre. Perché presunti classismi devono tradursi nell’abolizione di due materie scolastiche? E giova davvero avere grandi masse di persone la cui cultura di base è interamente appiattita sul presente? Queste parole di Erasmo mi ricordano una scena di Schindler’s List in cui al professore ebreo di Lettere e Storia l’ufficiale nazista dice di salire sul vagone perché insegna materie inutili.
@indrani. Concordo: la mia esperienza personale, fra l’altro, è stata simile. E questa smania di far imparare “quello che serve” è anche spesso miope perché in un mondo in cui le competenze richieste dal mercato cambiano velocemente, l’aver imparato una “cosa che serve” può perdere di valore in pochi anni. Un sapere flessibile è ovviamente molto più spendibile, in realtà. E poi non è mica detto che tutti i laureati in filosofia, ad esempio, facciano i filosofi. Ho letto qualche tempo fa di un mio concittadino laureato in filosofia che dirigeva con successo l’ufficio “risorse umane” (brutto nome, ma si fa per capirsi) di una grande catena di hotel. Certo, se uno si laurea in “qualcosa che serve” poi deve fare quella cosa e basta (sperando che continui a servire a lungo, se no dovrà esser buttato via in nome del progresso). Ma, per fortuna, non tutte le lauree vanno in questa direzione.
La riformulo per maggiore chiarezza: nelle statistiche, segnalerei al bravissimo DeNicolao, sarebbe opportuno (se è possibile) portare l’analisi a un livello leggermente più raffinato, anziché parlare genericamente di “laureati” come se fossero tutti uguali: per capirci, per non falsare il risultato finale bisogna evitare di paragonare una tonnellata di zafferano (che si acquista al prezzo più caro del mondo al kg) con una tonnellate di patate, giungendo infine alla conclusione che il secondo raccolto vale tanto quanto il primo. Altrimenti ci balocchiamo con numeri che non tengono conto della effettiva reale e concreta differenza tra una laurea e l’altra. Poi si può anche decidere il contrario (ma sarebbe peccato mortale) se vogliamo ancora far credere alle matricole che le lauree son tutte uguali.
“La riformulo per maggiore chiarezza: nelle statistiche, segnalerei al bravissimo DeNicolao, sarebbe opportuno (se è possibile) portare l’analisi a un livello leggermente più raffinato, anziché parlare genericamente di “laureati” come se fossero tutti uguali”

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Lusingato dal “bravissimo DeNicolao”, non posso esimermi dal fornire qualche dato in più estratto da OCSE Education at a Glance 2013. Si tratta della distribuzione dei nuovi iscritti tra i diversi “fields of education”. Ci sono delle oscillazioni tra le diverse nazioni, ma niente di così clamoroso da modificare l’interpretazione del dato Eurostat che ci vede ultimi.
Comunque, da ingegnere qual sono, anch’io penso che le lauree *non* siano tutte uguali. I colleghi umanisti della redazione di Roars non lo sanno, ma il mio sogno segreto è ridurre drasticamente la percentuale di laureati umanisti, un costo sociale di cui in tempi difficili non possiamo più farci carico. Ai giovani possiamo impedire di mettersi su una cattiva strada. Il problema sono quelli già laureati. Si potrebbe ricorrere a campi di rieducazione in cui vengano insegnati lavori manuali (troppo tardi per sperare che imparino qualcosa di utile come il cinese o un’altra lingua viva, meglio puntare su lavori di fatica, possibilmente umili). Ci saranno perquisizioni all’ingresso per evitare che portino con sé testi filosofici, qualche classico latino o, peggio ancora, testi di letteratura greca antica. Sia per l’età che per il vizio di leggere, è probabile che molti di loro portino gli occhiali. Strapparglieli di dosso gettarli a terra e calpestarli fino a ridurre in briciole le lenti sarà un buon modo per aiutarli ad assumere la giusta attitudine nei confronti del processo di rieducazione. Pregusto già il rumore del vetro sotto i tacchi.
Il post di Roars è stato citato dal Mattino:

http://rassegna.unipv.it/bancadati/20140415/SIC2068.pdf
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… ed anche dal Sole 24 Ore:

http://rassegna.unipv.it/bancadati/20140416/SIB3060.pdf
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Ottime citazioni!
Adesso aspettiamo che l’encomiabile lavoro di Roars venga citato anche dal simpatico house organ del PD (la spiritosa fanzine dove Zunino e Valentini “informano” sull’università).
Forse non lo fanno perché corrotti da Tremonti e dalla Gelmini!
Un candidato all’Ign-ASN ci ha citato (un tentativo di influenzare la giuria?). Vuoi vedere che prima o poi ci cita anche Repubblica? (che pure è candidata all’Ign-ASN https://www.roars.it/le-fanta-abilitazioni-pulp-di-repubblica/) Ma noi rimarremo imparziali.
Circa un mese fa il giornale online LeggiOggi mi pubblicava un articolo sulle ideologie che poneva come architrave portante del discorso la cultura. allego il link http://www.leggioggi.it/2014/03/28/l-ideologia-ovvero-per-andare-dove-dobbiamo-andare-per-dove-dobbiamo-andare/
In molti paesi il sistema scolastico/universitario è diverso dal nostro. Non dico più agevole ma diverso. Non sono un umanista ma un umile cultore della matematica, credo, però, che lo studio del latino e della filosofia siano propedeutici anche all’analisi matematica. Perché finito il liceo o gli istituti tecnici, molti allievi si indirizzano verso materie umanistiche, disdegnando le scienze matematiche? La didattica teorica ha affrontato anche l’approccio all’insegnamento delle materie scientifiche ma l’applicazione pratica di questi studi è la vera chimera del sistema scolastico. Il baronaggio vige ancora sovrano. Che fare? Forse urge una rivoluzione culturale, non di stampo cinese ovviamente.
Tanto per ripetere polemiche già viste in versioni precedenti di questo articolo, perché non si sfiora il problema della domanda e dell’offerta: chi vuole laureati? per fare che? a chi serve un ceto intellettuale? chi lo paga? E non intendo un altro articolo su quanto sia importante il libero pensiero da Platone in poi, ma qualcosa che parli concretamente del ruolo che deve avere l’università all’interno della società e dello stato contemporanei. Si paragonano poi pere e mele, o zafferano e patate, come fatto notare da altri.
E più in generale, hanno davvero senso questi discorsi senza affrontare con chiarezza le questioni economiche che non possono non influenzarle pesantemente? E come nota a lato: forse il PD non ha abbassato il PRIN più di altri, ma cos’ha fatto di diverso dagli altri, con le sue politiche economiche, per evitare che l’università morisse?
Sono in ferie e ho tempo da perdere, quindi voglio circostanziare un po’ di più quello che dico. Quello che mi sembra manchi profondamente in questi articoli, e più in generale su roars, è una visione storica realistica. Da vero ignorante della materia, voglio tracciare a grandi linee ciò che mi pare manchi. Dichiaro la mia ignoranza: baso la mia opinione sui resti di storia del liceo e da letture sparse, e sono quindi ben felice di venire corretto, possibilmente da qualcuno che sappia di cosa sta parlando più di me, cioè quasi chiunque.
Innanzitutto, perché nessuno parla davvero del perché le politiche contro l’università hanno successo? Perché nessuno vi si oppone con forza fuori dall’università? Non sarà che in realtà rispondono a delle trasformazioni reali della struttura economica italiana? (sia ben chiaro, non dico che siano le risposte giuste)
Credo che l’università italiana moderna nasca in larga misura sull’esempio francese. In Francia, l’università (o meglio, le Grandes Ecoles che NON è tutta l’università) è la scuola dell’elite statale e militare, e più di recente di quella finanziaria. In Italia l’università è stata la scuola dell’apparato statale, che nel passato incluse anche la grande industria statale (in cui possiamo tranquillamente includere FIAT e co.). La fine della grande industria pubblica ha segnato la fine di uno degli sbocchi lavorativi naturali dei laureati. L’apparato statale vero e proprio, nel frattempo, non pare particolarmente interessato all’istruzione superiore. La classe politica non dà molto peso all’istruzione tra i suoi membri, e la carenza di fondi impedisce allo stato di fare uso delle qualifiche che l’università potrebbe dare. Chi resta? Che vi piaccia o no, l’elemento dinamico dell’economia italiana negli ultimi 20-30 anni è stata la piccola e media impresa. Spesso si dice che la piccola e media impresa non investe in ricerca. Non conosco nessuno studio che dimostri davvero questa cosa, ma certo è che una parte (vocale) della piccola e media industria non reputa importante la ricerca, quantomeno di base, e di conseguenza non è interessata alla spesa pubblica in suo favore. Questo certamente è dovuto anche a tutta una serie di elementi culturali e storici che non sono in grado di individuare, ma credo personalmente sia una situazione temporanea, sostanzialmente legata alla fase di “sviluppo selvaggio” iniziale degli anni ’90 (penso al triveneto), sostanzialmente troncata dall’arrivo dell’euro (già sento le schiere di piddini, ma tanto ormai solo gli struzzi fingono di non vedere…). Sono certo che col passare del tempo la piccola industria si sarebbe interessata, o si interesserà, alla ricerca, per puro interesse personale. Tanto quanto lo stato e la grande industria avevano fatto prima. In questo quadro manca uno stato forte impegnato nella tutela dei suoi cittadini? Sicuramente.
Alla fine, allora, chi paga per l’università? Mi pare che le politiche sull’università degli ultimi trent’anni si inseriscano in questo quadro risponendo a delle chiare richieste di una larga parte del mondo produttivo che non vuole più pagare per un’università nata in funzione di un sistema economico differente. Con buona pace delle anime belle, non mi convincerete mai che la ricerca pura è stata il motore della crescita economica e non vice versa, non nell’Italia del secondo dopoguerra. Guardando alla storia, i fiori dell’intelletto nascono dalle briciole del commercio, purtroppo o per fortuna non lo so. Io sono il primo a dire che le attuali politiche sull’università sono sbagliate. Ma fin tanto che quello che si riesce a contrapporre sono solo le classifiche di quanti laureati ci son in Turchia, vi assicuro che non faremo molti progressi.
E con questo post anche la “visione storica realistica” che manca su roars e’ stata finalmente messa sulla retta via. Grazie.
La dichiarazione d’ignoranza non è retorica, e sono ben felice di sentire dove sta lo sbaglio. Non ho pretese di onniscienza. Credo sia più importante parlare di questo che di numero di laureati, e per questo cerco anche di provocare (oltre perché, chiaramente, mi diverte).
Non so se il tentativo di analisi socio-storico-economica di Cimatoribus sia più o meno aderente alla realtà (non è il mio mestiere). Il numero di laureati mi sembra un dato e nemmeno tanto scontato in un’Italia dove si parla di tutto – e soprattutto di istruzione – senza conoscere le statistiche (quando va bene) oppure falsificandole o inventandole. Poi, come tutti i dati, va interpretato. Qualcuno dirà che per l’Italia staccarsi da tutte le altre 28 nazioni dell’UE sia un’evoluzione naturale perché, unici tra tutti, abbiamo una struttura di impresa che non sa che farsene della laurea. Se non altro avrà interpretato un dato reale. Oramai ci siamo abituati all’interpretazione di dati immaginari. Mi sembra più onesto andare in malora senza nascondercelo che andarci infarciti di frottole.
Ci sono articoli dove si parla di laureati, altri dove si discute di ricerca altri ancora dove si discute di innovazione e del rapporto col sistema produttivo. Sono vari e diversi apsetti dello stesso problema (confrontarsi con i paesi a noi simili e vicini aiuta a non perdersi dentro un bicchier d’acqua). Suggerisco la lettura di questi articoli per capire le connessioni tra la ricerca e il sistema produttivo italiano https://www.roars.it/perche-lo-spread-si-cura-con-ricerca-e-innovazione/ , https://www.roars.it/ricerca-e-innovazione-per-un-nuovo-modello-di-sviluppo-del-paese/ , https://www.roars.it/il-sostegno-agli-investimenti-in-una-economia-tecnologicamente-in-ritardo/
Intanto, a quanto pare il Ministro ha cose più importanti da fare che occuparsi di istruzione e università. O forse le sembra che vada tutto a gonfie vele.
http://tv.ilfattoquotidiano.it/2014/04/17/ue-giannini-scelta-europea-dimettermi-da-ministro-al-momento-opportuno-vedremo/275162/
Interessanti gli articoli di Palma, li avevo letti e li condivido fino ad un certo punto (parlar di politica industriale senza parlar davvero di moneta unica?). Continuo a non vedere il forte collegamento con il numero di laureati, o un vero quadro generale (chi mette i soldi per la politica industriale? la bce?), ma probabilmente cerco nel posto sbagliato. Ciao.
Vi lancio un quesito (autentico, non provocatorio):
come aumentare il numero dei laureati senza abbassarne la qualità?
Mi spiego:
– 3+2: i voti dei primi tre anni non fanno media con quelli degli ultimi due.
– svariati corsi di laurea premiano con punti-bonus quelli che si laureano in fretta.
Risultati: studenti con basi fragili (media del venti alla triennale) e tesi ridicole. Non vi sembrano, questi, dei sistemi per seminare il declino nei decenni futuri? Non vi sembra il modo di annullare il valore legale del titolo di studio?
[…] anche qui in Italia – in uno stato che, dal punto di vista della politica della ricerca, è indirizzato con decisione verso il Sud del mondo. Rispetto al Nord c’è solo una differenza: in un […]