Circola con insistenza la convinzione che anche per il primo semestre del prossimo anno accademico le Università italiane proseguiranno l’insegnamento a distanza, per evitare che il ritorno degli studenti nelle università incrementi la diffusione del contagio.
Se questa convinzione si traducesse in disposizione, emanata a livello centrale o locale, sarebbe un segnale davvero pessimo. Perché dimostrerebbe da una parte che non abbiamo ben chiaro quale sia lo scopo dell’educazione intellettuale superiore; e dall’altra che l’amministrazione pubblica che dispone delle più ampie, profonde e diversificate competenze scientifiche e professionali non si considera in grado di elaborare un piano di rientro sicuro ed efficiente.
Privare gli studenti della loro vita universitaria per un altro semestre sarebbe come arrendersi senza combattere: cosa che si fa perché l’obiettivo da raggiungere non vale lo sforzo, oppure perché si pensa di non aver le forze per raggiungerlo. Invece, se ci pensiamo, l’obiettivo merita il più grande degli sforzi, e l’università italiana avrebbe tutti i requisiti per vincere la battaglia.
L’idea che la presenza fisica degli studenti nelle Università sia tranquillamente sostituibile con i corsi telematici è sbagliata. Perché – paradossalmente – è un’idea molto arretrata. Riflette una visione della didattica universitaria tipica della seconda metà del secolo scorso, quando il modello di apprendimento si è trasformato in un «trasferimento di conoscenze», che avveniva per mezzo di lezioni cattedratiche, senza dialogo (per questo definite burocraticamente «frontali») e soprattutto con lo studio solitario del manuale, unica fonte di tutto il sapere di ciascuna materia. Per molti anni i corsi sono stati sostituiti dagli esami e la verifica delle conoscenze ha rimpiazzato la stimolazione delle intelligenze. Il sistema si adattava a una popolazione studentesca che viveva soprattutto in famiglia: trasferirsi a vivere insieme ad altri studenti vicino all’Università era troppo costoso, e anche non molto utile, visto che alla fine quel che contava era superare gli esami, avendo imparato il contenuto di uno o più grossi libri. La didattica telematica non è che una modernizzazione di questo modello vecchio.
E invece l’Università, dalle origini medievali alle reinterpretazioni più diverse del mondo occidentale, non può essere altro che un luogo fisico organizzato per offrire agli studenti una esperienza intellettuale fortemente formativa. Questo è, se possibile, ancora più evidente oggi, quando la rivoluzione dei processi di comunicazione determinata da Internet ha reso inconsistente la funzione di «trasferimento di conoscenze» evocata dal modello novecentesco. Le nozioni sono ormai reperibili in pochi secondi in qualsiasi luogo e in qualsiasi momento: quello che conta è saper porsi le domande giuste e organizzare adeguatamente le risposte, e per questo è necessario educare al senso critico e a selezionare le informazioni necessarie per risolvere i problemi. E queste sono abilità che si ottengono con l’esperienza della vita universitaria: si possono insegnare e apprendere, ma non trasferire.
Ecco perché possiamo accettare la didattica on line per un breve periodo di emergenza, ma dobbiamo restare consapevoli che l’insegnamento è un’altra cosa, e soprattutto che una vera esperienza educativa non può fare a meno di una dimensione di vita comunitaria non riducibile a incontri virtuali.
Perciò l’entusiasmo di tanti rettori per il successo della didattica on line appare del tutto fuori luogo. La rete offre una quantità di opportunità, che vanno tutte sfruttate, ma non ci consente affatto di imparare stando a casa. Anzi, impone più vita universitaria comune, perché richiede una educazione che favorisca più senso critico e più creatività. Nell’era di internet le Università dovrebbero costruire più residenze per studenti, favorire le coabitazioni e aprire anche la sera e durante le vacanze, perché la critica e il confronto sono tanto più necessari in quanto siamo inondati di informazioni incontrollate.
Dunque: ripiegare sulla didattica a distanza per altri sei mesi è una sconfitta che implica la rinuncia all’elemento centrale dell’educazione superiore. Questo deve essere chiaro: non stiamo parlando di un dettaglio secondario. Quando si dice che «conviene» proseguire l’insegnamento telematico fino a gennaio 2021, si dice che l’educazione superiore italiana conta meno delle vacanze in spiaggia, dell’aperitivo al bar, del giro al centro commerciale.
Si dice anche un’altra cosa molto grave: che le Università non sono in grado di elaborare strategie per consentire una vera esperienza educativa, contenendo i rischi di contagio: o almeno che sono meno capaci di farlo rispetto ai ristoratori o ai gestori turistici. Cosa molto paradossale, considerato che tutti gli esperti di cui la politica e l’informazione si sono fidate in questi mesi sono docenti universitari. Una Università, ciascuna Università italiana, dispone di biologi e medici specializzati in virologia, di epidemiologi e di igienisti che conoscono meglio di chiunque altro i comportamenti dei virus e degli infettati, e le metodologie per minimizzare i contagi. Ha anche matematici, statistici e ingegneri che studiano le teorie delle code, le distribuzioni delle presenze umane nei luoghi, e anche progettano strumenti informatici per evitare assembramenti. Non le mancano architetti in grado di progettare spazi idonei a minimizzare i rischi dei contatti, pedagogisti e psicologi che lavorano sulle motivazioni all’apprendimento. I giuristi possono poi studiare le procedure che salvaguardino dal rischio di azioni di risarcimento chi si assume la responsabilità di autorizzare le attività, avendo attivato tutti le precauzioni possibili.
Se proprio le Università dichiarano che lasciare gli studenti a casa è più sicuro, allora vuol dire che tutti gli altri settori, che non dispongono nemmeno lontanamente delle competenze delle università, non dovrebbero affatto riaprire.
Evidentemente, il problema è che non si parla abbastanza né del valore essenziale della vita universitaria, né delle straordinarie potenzialità di competenza di cui dispongono le Università. Perché? Beh, un’ipotesi ce l’avrei. Sarà perché, nonostante tutti i gli organi collegiali, in realtà chi decide nelle Università non ascolta né i professori né gli studenti?
Il solo fatto che l’ipotesi che qui viene analizzata e giustamente rifiutata -chiudere le Università sino al gennaio 2021- sia invece ritenuta plausibile da alcuni Rettori, fa dell’epidemia Covid19 una sorta di cuore di tenebra intorno al quale vanno cristallizzandosi le spinte più irrazionali della società italiana e dei suoi ceti dirigenti.
Ritengo che ogni richiamo al valore imprescindibile del rapporto diretto tra professori e studenti, realizzabile solo con la didattica in presenza, sia il benvenuto in una fase in cui sembra chiaro che il vero obiettivo politico sia la realizzazione dell’università (e della scuola) digitale in tempi molto più rapidi del previsto grazie alla pandemia, secondo il noto schema della “shock economy”. Per le università, vale quello che è emerso per gli ospedali: la pandemia ha evidenziato le carenze strutturali del sistema universitario e i limiti di una gestione manageriale (ispirata al new public management e affini) delle università che ora si vorrebbe addirittura potenziare con la digitalizzazione. L’articolo denuncia il paradosso creato dal dissesto del sistema universitario: si alla movida, no alla didattica in presenza! Per chi persegue da anni il progetto di digitalizzazione dell’università, con la discreta benedizione delle multinazionali del settore che ora siamo tutti costretti a riverire, non si tratta di una contraddizione contingente ma del nuovo ordine.
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In questo periodo resto basito dalla assenza di consquenzialità logica nei discorsi che si fanno sull’argomento.
Concordo su tutte le argomentazioni circa l’importanza dal punto di vista formativo dell’esperienza in presenza. Ma non capisco cosa c’entri con il problema della sicurezza. Non è che il solo fatto che sia sicuramente è un bene fare una passeggiata significa che la si deve fare comunque e in qualsiasi circostanza, anche a costo di attraversare un’ autostrada all’ ora di punta. Esattamente come non si può barattare lavoro e salute, non si può barattare salute e formazione superiore.
Il generico confronto con altri settori non tiene conto di alcune specificità della maggior parte degli atenei italiani: muovono molte più persone di quanto possano muover tutti i locali pubblici della stessa città, e con maggior concentrazione nel tempo e nello spazio. Mai frquantato un mezzo pubblico che porta allunivrsità alle 8.30 la mattina? E poi, mentre un ristorante può facilmente ridurre tavoli e distanziare i clienti, non c’è altrettanta flessibilità nella maggior parte delle aule universitarie.
Quindi mi piacerebbe che tutti quelli che invocano la “normalizzazione” nell’università , invece di parlare dei motivi per cui la presenza è fondamentale (ci credo anch’io, ma non è questo il problema), spiegassero quali sarebbero le strategie che consentirebbero il ritormo alla formazione in presenza in modo sicuro, pur restando in presenza del corona virus. Siamo noi che dobbiamo dirlo. E se non abbiamo la soluzione di questo problema, sarbbe meglio lasciar stare i discorsi generici, condivisibili in astratto ma scorrelati con la situazione sanitaria attuale.
Credere che la presenza fisica sia il cuore dell’università non è un dogma inopinabile per tutti, ed è bene che chiunque ne sia convinto, per esperienza o per principio, lo porti a testimonianza. Perché alla lunga, chi usa l’emergenza per diffondere una strategia, sacrosanta ai tempi del “meglio questo che niente” ma deleteria nella normalità, non abbia la tentazione di vendere modelli digitalizzati dell’insegnamento spacciandoli per il meglio. Quindi, ben vengano soluzioni che agevolino la frequentazione fisica dei luoghi dell’insegnamento. Si tratta di finanziare la cultura e non solo quella dell’emergenza. Piccoli gruppi assegnati a tutor capaci che non riusciamo a valorizzare. Turnazioni con attività intensive. Io ho proposto di dimezzare il numero di esercitazione e raddoppiare i turni nei laboratori. Pur di non rinunciare a vedere la meraviglia negli occhi di chi sta imparando l’inatteso. Ho sentito ad Alma Orienta un candidato studente che sperava che i corsi del prossimo A.A. si tenessero online, perché sarebbe stato più conveniente seguire da casa. E non è un preoccupazione legata al contagio. Un po’ mi ha preoccupato.
Caro Giorgio Pastore,
l’università in quanto comunità non può prescindere dall’incontro/confronto continuo in presenza. Anche in presenza di un rischio sanitario controllabile si deve riuscire a garantire la vita quotidiana degli atenei.
Come fare? Presto detto: un enorme investimento di risorse nelle università. Ad esempio riportare l’FFO almeno ai livello pre tagli dell’austerity al fine di:
1-incrementare la docenza almeno a livello pre 2008, per avere un decente rapporto docente/discente: questo consentirebbe di migliorare la didattica e di diminuire il numero di studenti/aula, aumentando la sicurezza;
2-investire sull’edilizia universitaria, realizzando il necessario salto di qualità in termini sicurezza delle strutture (aule, laboratori, spazi comuni etc.) ad esempio (non esaustivo) per dare agli studenti costruzioni diverse da quelle stile casa dello studente dell’Aquila (in termini assoluti e percentuali penso che abbia fatto più vittime tra i giovani universitari il terremoto che il Covid-19);
3-investire in sicurezza, non per dare una mascherina AL GIORNO per individuo negli atenei, spesso del tutto inutile, ma per realizzare ambienti adatti dal punto di vista della sicurezza e del benessere di chi vive i laboratori, le aule ed i centri comuni. Non imporre soltanto la regola di stare 1 ogni 10m^2 il che implica praticamente la morte della ricerca;
4- investire nel trasporto pubblico dedicato agli universitari, magari con accordi territoriali con le aziende di trasporto, per aumentarne i volumi di esercizio dedicati;
5-utilizzare in modo complementare alla didattica in presenza gli strumenti digitali; magari non come ora fanno alcuni docenti che sembrano tanti bimbominkia con il nuovo videogame in mano, che chattano su MTeams alle 23:45 del sabato pretendendo anche la risposta, o caricano presentazioni zeppe di animazioni per essere più accattivanti (i ragazzi secondo me li giudicano solo tardoni), mandando in freeze la connessione a causa del flusso video che neanche PornHub. Ci tengo a precisare che SOLO alcuni fanno così (per fortuna).
L’elenco è sicuramente migliorabile e numerose nuove voci possono essere aggiunte (per esempio ho tralasciato colpevolmente il diritto allo studio), ma come è evidente nessuna voce può prescindere dalla condizione basilare: smetterla di considerare l’università come un costo da tagliare e farla diventare davvero una risorsa per il paese sulla quale investire. Per questo ci vogliono soldi, money, sghei.
Pare che il ministro elargirà un miliardo e passa all’università, in conseguenza di questa crisi sanitaria; ben vengano, se utilizzati per investimenti su persone (docenti e discenti) e strutture.
Ma dobbiamo aspettare una crisi sanitaria per vedere muovere un passo consistente in tal senso?
Cordialmente
@Salvatore Valiante: concordo completamente. L’elenco di motivi per investire e su che cosa è convincente. Molto più convincente dei soli richiami ideali alla storia dell’ Università o alle competenze astrattamente disponibili.
Dovesse esservi ancora il pericolo forte si potrà fare lezione in presenza con pochi studenti in aule ampie.
Bisognerà trovare il mondo almeno di potere incontrare dottorandi, tesisti, partecipanti a seminari. Forse i gruppi meno numerosi potranno fare lezione ancora.
L’incertezza è ciò che nuoce. Pensare due ipotesi con soluzioni che permettano anche la costruzione viva del sapere nello scambio
.
Fare lezione con pochi studenti in aule ampie è privilegio di chi ha un corso con qualche decina di studenti. E quelli con centinaia? E se mancano aule magne a sufficienza? La costruzione viva del sapere non è in discussione. Ma, per favore, poniamoci anche il problema di qualche migliaio di studenti che salgono praticamente alla stessa ora su treni e autobus, fanno file già in condizioni “normali” per un pasto in mensa e occupano a centinaia la volta aule insufficienti. Se non vedevamo prima tutto questo, non è più giustificato continuare ad ignorarlo adesso. D’accordo sul pensare soluzioni. Allora parliamone, ma in concreto. Certamente nelle università ci sono architetti in grado di progettare spazi, biologi e medici specializzati in virologia etc. etc. Ma questo non ci pone più vicino alla soluzione se non si dice come e dove si recuperano risorse. E su che tempi possiamo attenderci una soluzione. Ecco, se si parla anche di questo, va bene il richiamo alla “Universitas studiorum”. Se si glissa sulle questioni pratiche si rasenta l’irresponsabilità.
Premetto che anche io considero la didattica a distanza una sciagura e che l’università è costitutivamente rapporto diretto in presenza che andrà recuperato quanto prima. Ciò detto mi sembra che l’articolo abbia una posizione “bella e impossibile”, per citare una nota canzone. Voglio dire che certamente esisteono le risorse intellettuali per affrontare i problemi sopra esposti, non so se ci saranno le risorse finanziarie (a essere sincero ne dubito assai), ma certamente non ci sono i tempi per realizzare nuove aule, attrezzature e protocolli entro settembre. Una stima (ottimistica) infatti dovrebbe prevedere di triplicare gli spazi attualmente disponibili per la didattica nell’arco dei pochi mesi estivi. Inoltre il problema degli spostamenti nei mezzi pubblici – già insufficienti in fase pre-covid 19 – sembra sfuggire. Stiamo parlando di decine di migliaria di persone ogni giorni in movimento per gli atenei medio-grandi, con un fortissimo impatto sulla vita cittadina ed anzi esteso anche su un raggio più ampio della singola città.
DAD (Didattica A Distanza) vs. DIP (Didattica in Presenza). Guelfi e Ghibellini, A.D. 2020. E invece il punto sollevato dall’articolo è semplice. Si deve scegliere solo l’opzione DAD, con prolungato lock-down delle nostre sedi fino a gennaio 2021, e più non dimandare? O è possibile pensare di far convivere la DAD (riservata ai corsi con caratteristiche di numerosità tali da non ammettere alternative), con soluzioni studiate e sorvegliate di DIP per i corsi fino a una certa soglia di numerosità (che ogni ateneo potrebbe fissare in base alle strutture a propria disposizione)? Costa troppo? Non abbiamo risorse? Non mi risulta che nessuno si sia stracciato le vesti per chiederle nelle sedi governative, né dai vertici del sistema mi sembra che ci si sia posti il problema. Evidentemente, eccellenza non fa rima con emergenza, quando si tratta di investire risorse per venire incontro alla possibilità di far sopravvivere la “vita universitaria come educazione intellettuale” dei nostri studenti.
Esattamente ciò che volevo dire. Ogni università scelga.
Non demonizzare, ma vedere opportunità e difetti.
Il contributo di Emanuele Conte afferma. in maniera impeccabile, che la c.d. didattica a distanza è un surrogato molto lontano congiunto – neanche parente – della relazione didattica tipica di università che possano definirsi tali. Sono parole sante!
La soluzione secondo la quale “Ogni università faccia come le pare” è certamente di buon senso, ma è anche e soprattutto nella legge, e non riguarda soltanto questo punto.
Purtroppo da marzo, sulla base delle condizioni di emergenza, sono state dettate disposizioni alle università con atti amministrativi (DPCM), in violazione della legge 168/1989 che, al comma 2 dell’art. 6, recita: «Nel rispetto dei principi di autonomia stabiliti dall’articolo 33 della Costituzione e specificati dalla legge, le università sono disciplinate, oltre che dai rispettivi statuti e regolamenti, esclusivamente da norme legislative che vi operino espresso riferimento». Molti rettori hanno adottato provvedimenti e atti di indirizzo sulla situazione emergenziale ritenendo di essere stati autorizzati o obbligati a farlo dai vari DPCM, non rendendosi conto di avere in tal modo derogato alle proprie prerogative: i rettori, infatti, sono legittimati a valutare le condizioni di esercizio delle attività nei rispettivi atenei – entro gli organi di governo o da soli in caso di urgenza – senza che alcuno, all’esterno e con atti amministrativi, dica loro cosa fare. Se qualcuno ritiene di dovere ordinare – perché di questo finora si è trattato – qualcosa alle università (come la sospensione della frequenza delle attività didattiche in presenza), lo dica per favore con provvedimenti legislativi, anche d’urgenza; non amministrativi. Ed eviti, se possibile, di mettere insieme università, scuole, corsi professionali e persino “università per anziani” (con tutto il rispetto). La Costituzione qualche differenza ancora la fa.
Io rimango stupito dal fatto che ci sia questa contrapposizione netta tra didattica a distanza e in presenza e non si cerchi di capire che possono tranquillamente coesistere. Ci sono persone che addirittura dichiarano la didattica a distanza una sciagura. A parte che come appartenenti ad una comunità scientifica ci dovrebbe essere almeno la curiosità di capire se e come queste due modalità potrebbero coesistere. Si parla tanto di importanza dello scambio tra docente e studente. Avete mai frequentato un corso di matematica generale (primo anno) presso una facoltà di economia di una grande università Romana? Ci sono a lezione circa 300 studenti in un’aula ad anfiteatro che cercano disperatamente di seguire la lezione scritta su una lavagna di ardesia lunga 5 metri e vecchia di almeno 50 anni, sbiadita e spesso male utilizzata dal docente che è visibile fino alla quinta fila ed oltre si può solo immaginare la lezione. Studenti che entrano ed escono dall’aula perché non riescono a capire l’argomento di cui si sta trattando. Oltre a fare studi accurati sulla qualità dell’audio di una lezione registrata, basterebbe in questi casi acquistare una lavagna Lim e condividere lo schermo della lavagna con quello di PC degli studenti seduti nelle retrovie dell’aula per migliorare la qualità della lezione. Questa lezione si potrebbe anche registrare e mettere a disposizione degli studenti che per qualche motivo non hanno potuto seguire la lezione o hanno avuto difficoltà a farlo. Si potrebbe anche erogare la lezione in streaming per raggiungere studenti fuorisede che non possono permettersi l’affitto di un posto letto a 500 euro al mese a Roma (Definizione di posto letto: Un letto singolo, comodino e qualche scaffale in un armadio condiviso con altri studenti fuorisede, ossia nemmeno una stanza privata!). Sempre come esempio la lezione di matematica generale, di solito l’unico scambio che si ha è il seguente: il professore si gira per chiedere se i presenti hanno capito l’argomento, segue silenzio imbarazzato e si continua la lezione accompagnata da un brusio di sottofondo. Fate questa prova: ripetete la lezione in streaming rifate la domanda, vedrete che col filtro del PC qualche studente lo trova il coraggio di fare domande anche molto puntuali e curiose. Le università telematiche da anni erogano didattica blended o mista perché è vero che è importante lo scambio con lo studente ma è altrettanto vero che molti studenti non possono permettersi di spostarsi da una parte all’altra del paese.
Per concludere, io mi riferisco solo ed unicamente all’Università che separerei dalla scuola, in particolare, su questo argomento. Ho una figlia di 6 anni che sta frequentando la prima elementare e sono convinto che nulla possa sostituire la classe in presenza nonostante l’eroismo delle insegnanti di mia figlia nel portare avanti le lezioni. Ma quello che ho visto in questi mesi (nella scuola e nelle università) non è didattica a distanza, bensì mettere una pezza ad un anno scolastico sciagurato.
Sì, vero, d’accordo sull’uso di entrambe le modalità.Diciamo anche che non si capisce perché tanti studenti che hanno l’università vicino vadano a Roma. In altre università piccole o medie sarebbero più seguiti.
Messo in questi termini il discorso è in effetti più che sensato. Io credo però che presupponga che tutti gli studenti abbiano una connessione più che salda, un buon laptop o pc personale (non in condivisione con genitori / fratelli ecc.) e una camera dove puoi startene da solo e concentrarti. Questo è il mondo che vediamo noi dalla nostra bolla, ma non è sempre così, temo. Se sei in tinello con gentori che litigano, fratello che deve seguire le lezioni a scuola, e hai a disposizione solo uno smartphone magari non nuovissimo e col vetro venato, forse è meglio la quindicesima fila in aula 1, almeno magari fai nuove amicizie e ti fidanzi.
Temo che la fine della didattica in presenza sia stata avviata dal DM 509 del 1999, che, nell’articolo 12, comma e, recita che il regolamento didattico di un corso di studio determina ” le disposizioni sugli eventuali obblighi di frequenza”, stabilendo così implicitamente che l’obbligo di frequenza è una mera eventualità. I non frequentanti erano sempre esistiti, ma questo decreto ha trasformato una realtà di fatto in una di diritto, e anzi nella regola. Non sono esperta di sistemi universitari e mi chiedo in quanti altri Paesi al mondo sia affermato un simile principio. Sarebbe anche interessante sapere quanti corsi di laurea nelle università italiane dispongono l’obbligo di frequenza, e per che cosa. Ad esempio, a Padova, dove insegno, non è prevista alcuna attività didattica obbligatoria nei regolamenti della lauree sia triennali sia magistrali in Psicologia, sebbene gli psicologi siano stati inclusi nelle professioni sanitarie. Anche a Medicina la frequenza ai corsi non è obbligatoria, ma solo quella alle “attività”, alcune delle quali consistono in tirocini, e le altre non sono specificate, e comunque coprono complessivamente una piccola parte dei crediti complessivi.
Anche se mi è capitato in ricevere in questo semestre di didattica a distanza qualche richiesta di precisazione su programmi e modalità di esame per “non frequentanti”, con la didattica a distanza non c’è alcuna giustificazione per esonerare parte degli studenti dalle attività previste. Io non sono favorevole alla didattica a distanza, ma penso che quella in presenza, come prevista attualmente, non sia difendibile se non proponendone revisioni profonde, riguardanti sia la distribuzione delle ore dei crediti nell attività in presenza e in quelle di studio individuale, sia le numerosità massime di studenti per singolo insegnamento. E’ chiaro che se un insegnamento è rivolto a 300 studenti, o la maggior parte di essi non frequenta, o la lezione non può che essere frontale.
Osservazioni giustissime. La non frequenza è stata istituzionalizzata. Alcuni hanno pochi studenti e la frequenza decresce ulteriormente in prossimità di appelli. I tirocini più vari sono più importanti. Poiché bisogna assicurare la presenza gli studenti non possono frequentare…
Certo, non dimentichiamo che l’università non è più luogo di scambio, o non per tutti.
Metterei nel conto anche la competizione fra docenti per ‘rubarsi’ studenti, che vede spesso l’uso di tattiche niente affatto belle.
Con la diffusione di patologie trasmissibili, occorre avere il coraggio di cambiare il modello dell’Università, in primis per il bene dello studente. Corsi in presenza (con pochi studenti in ampi spazi) possono convivere con corsi a distanza. Rete di Università per dare la possibilità di frequentare corsi laboratoriali in presenza vicino al proprio domicilio, con esami riconosciuti dalle altre. Più docenti nei laboratori e meno dietro le scrivanie, basta mandare i propri PhD a fare lezione. On-line questo rimane agli atti. E’ questo che spaventa la baronia accademica?
Ahia. Ecco l’ennesimo tentativo di dire basta alle “baronie”, la famosa panacea ai mali del mondo, insieme a tagliare lo stipendio dei parlamentari. Scommettiamo che, come anvur, bibliometria ecc., la didattica a distanza istituzionalizzata rafforzerà invece furbi e furbastri (che sono i veri baroni italiani –e non solo– in ogni categoria)?
Buongiorno. Dispiace vedere la discussione portata su questo livello. Ovviamente il “bene dello studente” e’ la parola magica per far passare qualsiasi cosa. Allora, scendendo sul livello della “baronia accademica”, facciamo che invece qualcuno potrebbe sostenere che certe “baronie accademiche”, specialmente in ambiti lavorativi dove lavori complementari sono la principale fonte di guadagno, sono particolarmente interessate ad una didattica online dove si registra una serie di lezioni una-tantum, e poi si mandano in streaming (bel guadagno di tempo!). E magari gli esami online li preparano proprio i suddetti PhD students.
Ok, se “bene dello studente” non si può usare, allora diciamo la salute dello studente e del Docente. Come garantirla in presenza di malattie altamente trasmissibili favorite da spazi chiusi (le aule…facciamo lezione all’aperto?), affollati (ok, mettiamoci 30 studenti in aula da 100…però per gli altri 70? Ripetiamo 3 volte la lezione (scusate, ma poi sono valutato sulla produttività scientifica…e allora dove trovo il tempo di far tutto?), potenzialmente insalubri (cosa facciamo, una disinfezione dell’aula dopo ogni ora di lezione? O solo della cattedra, tenendo gli studenti nello stesso banco? però hanno piani di studi diversi…), con servizi igenici normalmente sottodimensionati (ci mettiamo un addetto delle pulizie a sanificare ad ogni ingresso? come gestiamo le code che si formeranno?), con accessi che spesso non prevedono un ingresso e una uscita per aula (il distanziamento come lo rispettiamo nella movimentazione tra ore?)
Si attendono risposte a queste pratiche domande per capire SE e COME si può tornare in aula. Poi possiamo parlare dei massimi sistemi…
Su questo siamo perfettamente d’accordo, credo, tutti. Finché non c’è un vaccino meno ci si riunisce meglio è e la didattica a distanza è l’unica possibile soluzione. Il problema è che il famoso decisore politico non ci prenda gusto e imponga queste cose anche a emergenza finita, dando il colpo di grazia all’istruzione in Italia: lei si farebbe operare da un chirurgo toracico che ha studiato e fatto pratica sui filmatini?
A mio papere il dibattito “didattica a distanza contro didattica in presenza” è fuori fuoco. Quello che ci dovremmo domandare è: come si possono sfruttare le nuove tecnologie per migliorare la didattica e le relazioni con gli studenti (a prescindere dal Covid-19)? E’ di pochi giorni fa la notizia che Cambridge erogherà nel prossimo anno accademico solo corsi online. Secondo me (a pensar male) il loro problema non è il Covid-19 ma la Brexit che farà diminuire drasticamente il numero di studenti che potranno trasferirsi nel Regno Unito per seguire i corsi universitari. Se l’esperimento avrà successo tra due anni erogheranno corsi sia in streaming/online che in presenza. E molte altre Università seguiranno il suo esempio. Così, noi rischiamo di ammodernare la nostra infrastruttura internet col 5G spendendo miliardi di euro per eliminare il drammatico divario digitale emerso in questi mesi tra nord e sud e magari ci saranno studenti che poi si iscriveranno a Cambridge. L’Università, per tornare ad essere l’istituzione guida di un paese, deve tornare ad essere un luogo di frontiera capace di anticipare i cambiamenti sociali e non di subirli.
@eriberto: Se ci sono persone che hanno pochi mezzi, le Università dovrebbero mettere a disposizione PC ad uso gratuito per seguire le lezioni. Presso l’Università di Siviglia, realtà che conosco piuttosto bene, la giunta regionale ha stretto accordi con le compagnie telefoniche per distribuire a richiesta cellulari dotati di schede con giga illimitati utilizzabili per seguire le lezioni. Se uno ci riflette le soluzioni si trovano (che è quello che dovrebbe fare uno studioso).
@AnnaEmiliaBerti: Quando uno studente avrà la possibilità di seguire il corso in presenza, in videoconferenza e corso pre-registrato e scaricabile, non esisteranno più programma normale e programma non frequentante, ma esisterà IL programma.
Le università non hanno gli occhi per piangere, e comunque il tablet con i giga risolverebbe solo in minima parte la situazione che ho descritto. Il “se” con cui inizia la sua risposta (“*se* ci sono persone che hanno pochi mezzi”) è una fotografia meravigliosa della bolla nella quale molti di noi vivono (lo studioso deve, certo, cercare soluzioni, ma individuare prima i problemi aiuta).
Mi scusi, ma non capisco cosa sia il “programma non frequentante”. Un insegnamento => un esame => un voto, per tutti gli studenti. Cosa vuol dire che ci sono due programmi per lo stesso insegnamento? Figli e figliastri? Ho capito male? Grazie per il chiarimento.
No. Però fare di un filo d’erba tutto un fascio non è atteggiamento costruttivo. È il modello di Università come commodity che è sbagliato. O meglio, è meglio che niente. È come decidere di dare da mangiare farina di insetti a tutti perché un prosciutto stagionato non se lo possono permettere tutti. Invece mi impegnerei a rendere i prodotti migliori più sostenibili. Io sono per l’autonomia dell’università. Ogni corso avrà il suo punto di forza. Io amo stare con gli studenti in laboratorio, anche ora che sono uno di quelli che tu dipingi come un appartenente alla baronia accademica. E mi faccio accompagnare dai miei studenti di PhD perché anche loro possano godere di questo privilegio.
@sorrenti: Non so neanche io cosa sia il programma per non frequentanti. Se si legge bene, cercavo di rispondere al commento di AnnaEmiliaBerti che sollevava la questione della frequenza. Chieda a Lei. Quello che mi dispiacerebbe è se questa discussione dovesse scadere nei luoghi comuni delle baronie e furbetti, mentre, almeno nelle mie intenzioni, lo scopo era quello di cercare un confronto tra posizioni diverse.
La didattica a distanza puo’ trasmettere nozioni e poco piu’. La didattica in presenza, i tirocini, i seminari, gli scambi di opinioni nei corridoi, la frequentazione dei laboratori sono indispensabili per la trasmissione e condivizione della cultura e della educazione universitaria. La presenza e’ necessaria alla comunicazione e senza comunicazione non vi puo’ essere trasmissione e condivisione. Non si puo’ di colpo cancellare secoli di evoluzione dell’educazione, della condivisione fisica degli spazi tra meastro e discepoli per condividere e trasmettere la conoscenza. La trasmissione della conoscenza non puo’ avvenire solo con lezioni frontali, spesso il piu’ lo si apprende attraverso la comunicazione non frontale. D’altro canto, non credo sia ipotizzabile la realizzazione di grandi stravolgimenti logistici nelle strutture fisiche delle nostre universita’ da qui a settembre. E’ mia opinione di docente universitario che le lezioni in presenza possano essere riattivate da settembre con due accorgimenti: misurazione della temperatura corporea all’ingresso dei campus universitari ed uso della mascherina nelle aule. Infine, le Universita’ non devono rispondere penalmente di eventuali denunce di contagi ipoteticamente contratti all’interno del campus e delle strutture universitarie. Non dimentichiamo, da ultimo, il bassimo tasso di morbilita’ e di casi gravi indotti da Covid-19 nei soggetti con meno di 30 anni. Semmai chi rischia di piu’ sono i docenti, non certo gli strudenti. Mi chiedo come si sia potuto accettare lo svolgimento dei tirocini a Medicina, con laurea abilitante, in via telematica. Chi tanto sostiene che la la didattica a distanza e’ sufficiente, si farebbe curare da un neomedico che non ha mai messo le mani sulla pancia di un paziente e non ha mai auscultato un torace, e che pure e’ stato abilitato all’esercizio della professione medica con i tirocini a distanza?
Sono d’accordo. Soprattutto se esiste l’autonomia universitaria e se, sottolineo se, ognuna avrà la responsabilità delle scelte. Se attivare decine o centinaia di corsi, di qualunque tipo, con frequenza o senza, a numero programmato o aperto a migliaia di studenti per far cassa, investire in edilizia o personale, pensare di puntare al poco ma buono oppure dare un po’ di tutto a tutti. In funzione di queste scelte si potrà valutare se affidare tutto alla didattica a distanza (che può essere adatta agli allevamenti intensivi di studenti – provocazione!!) oppure se puntare a una differenziazione degli atenei, ognuno con una peculiare forma di insegnamento e pratica. Per quanto riguarda la responsabilità penale del contagio scaricata sulle università: siete mai stati in giro in queste sere tra le strade di Bologna? Altro che comportamento responsabile. What did you expect? Movida a tutta “rambas” senza mascherine o distanza fisica. Almeno se frequentano saranno costretti a usare qualche precauzione.
sottoscrivo
Nessuno ha mai messo in discussione l’importanza dello scambio in presenza. La questione è se i nuovi strumenti informatici posso essere di aiuto nella didattica. Comunque, abbiamo appreso che per riprendere a settembre bastano le mascherine e misurare la febbre all’entrata. Quindi il distanziamento, la sanificazione dei locali era tutto uno scherzo…
Rispondo a Sorrenti. Sono molto felice di scoprire che il “programma per non frequentati” è ignoto a diversi colleghi, e non è dunque diffuso come davo per scontato. Premetto che io ho insegnato per anni a Psicologia e adesso presso la Scuola di Scienze Umane. In altre aree disciplinari immagino che le cose vadano in modo molto diverso. Da sempre sono al corrente che dei colleghi propongono programmi differenziati per frequentanti e non. Io non l’ho mai fatto, e sono molto seccata quando ricevo messaggi di studenti che si dichiarano “non frequentanti” e mi chiedono di indicargli programma e modalità d’esame riservati a questa categoria. Nel mio intervento volevo solo affermare che la didattica in presenza è stata dichiarata un optional nel DM 509 del 1999, e che essa ha senso ed è migliore di quella a distanza quando il rapporto numerico consente discussioni e scambi e attività laboratoriali, e queste sono obbligatorie. I corsi di laurea in Psicologia (almeno a Padova) non prevedono obbilgatorimente nulla di questo. Sarebbe interessante esaminare quanti a quali Corsi di Studio in Italia prevedono obblighi di frequenza, e per quali insegnamenti e attività.
@annaemiliaberti Mi unisco a quanto detto dalla collega. Chi lavora all’università sa che la non frequenza è stata istituzionalizzata con ricadute pesanti sulla formazione degli studenti. I programmi per non frequentanti esistono, forse perché hanno introdotto i crediti e per riequilibrare un po’ il peso.
Io li introduco solo quando so che senza le lezioni avranno bisogno di testi guida.