Non ci convince quanto scrive Chiara Saraceno («I test Invalsi per una scuola più giusta»). «Pericoli» – lievemente accennati da Saraceno – come il teaching to test (insegnare a .. rispondere bene ai test), o l’impiego dei loro risultati nelle certificazioni individuali degli studenti nel mercato del lavoro o nelle Università – non sono occasionali né accidentali. Ammesso che i test diano informazioni valide su alcune abilità scolastiche, si tratta di «aspetti dell’apprendimento meno interessanti e meno significativi» spiega Benedetto Vertecchi, ex-presidente Invalsi. Sono circa 10 anni che l’Invalsi restituisce la fotografia di un paese disuguale. Non ci risulta, tuttavia, che l’informazione si sia mai tradotta in concrete politiche scolastiche perequative. Pensando al caso del Mezzogiorno, questo avrebbe significato più attenzione, più insegnanti, più risorse al Sud! Molti insegnanti nel Mezzogiorno operano in contesti in cui la scuola può essere più formativa della famiglia di provenienza, in cui rafforzare la fiducia degli studenti nelle istituzioni o contrastare l’abbandono sono il primo, vitale compito educativo. Questo lo misurano i test Invalsi? Pensare -come scrive Saraceno- che rifiutare i test standardizzati significhi nascondersi dietro il “velo dell’ignoranza” somiglia a un velo di ipocrisia, che strangola la scuola nelle morse di un fallimento di cui è ritenuta unica responsabile. Non è migliorando uno strumento di misura che si modifica il fenomeno che si vuole misurare.
Non ci convince quanto scrive Chiara Saraceno («I test Invalsi per una scuola più giusta») sulla possibile revisione/fusione degli enti preposti alla valutazione del sistema di Istruzione pubblico. «Pericoli» – lievemente accennati da Saraceno – come il teaching to test (insegnare a .. rispondere bene ai test), o l’impiego dei loro risultati nelle certificazioni individuali degli studenti nel mercato del lavoro o nelle Università – non sono occasionali né accidentali. Il problema non è l’uso distorto del test da parte delle scuole. Come sottolinea la vasta letteratura scientifica critica sui fondamenti epistemologici, le metodologie impiegate e l’affidabilità dei risultati, i test standardizzati censuari (ossia rivolti alla totalità degli studenti, come quelli Invalsi) non sono neutri strumenti di indagine, da impiegare a fini di miglioramento, come recita la retorica ministeriale. Essi svolgono perfettamente il proprio lavoro: quello di regolare e controllare l’attività educativa trasformando l’esito delle prove in una misura dell’apprendimento degli studenti correlata alla qualità delle scuole. Valutare, afferma Benedetto Vertecchi, ex-presidente Invalsi, « serve se aiuta a capire qualcosa di più: le potenzialità di un ragazzo, come è cambiato per effetto della scuola e dei rapporti sociali; bisogna conoscere l’evoluzione del profilo culturale dell’allievo». Ammesso che i test diano informazioni valide su alcune abilità scolastiche, si tratta, in ogni caso, di capacità isolate, di fatti e funzioni specifiche: «aspetti dell’apprendimento meno interessanti e meno significativi». Quanto agli esiti e alla loro distribuzione sul territorio nazionale, sono circa 10 anni che l’Invalsi restituisce la fotografia di un paese disuguale tra Nord e Sud, centri e periferie, licei e professionali, autoctoni e immigrati. Interesse dello Stato – e dunque generale – dovrebbe essere quello di garantire la presenza di scuole di buonissima «qualità» su tutto il territorio nazionale. Non ci risulta, tuttavia, che l’informazione del (presunto?) differenziale negativo negli apprendimenti si sia mai tradotta in concrete politiche scolastiche perequative. Pensando al caso del Mezzogiorno, questo avrebbe significato più attenzione, più insegnanti, più risorse al Sud! Al contrario, la direzione intrapresa sembra essere quella opposta. Con l’autonomia differenziata che il Veneto intende portare avanti, chiedendo in maniera «eversiva» che il gettito fiscale locale rimanga nelle disponibilità della Regione, chi più ha, avrà ancora di più, a svantaggio della perequazione nazionale prevista dalla Costituzione. Molti insegnanti nel Mezzogiorno operano in contesti in cui la scuola può essere più formativa della famiglia di provenienza, in cui rafforzare la fiducia degli studenti nelle istituzioni o contrastare l’abbandono sono il primo, vitale compito educativo. La scuola resta un baluardo di democrazia e di legalità, oltre che di conoscenza. Questo lo misurano i test Invalsi? In definitiva, pensare -come scrive Saraceno- che rifiutare i test standardizzati significhi nascondersi dietro il “velo dell’ignoranza” somiglia a un velo di ipocrisia, che strangola la scuola nelle morse di un fallimento di cui è ritenuta unica responsabile. Non è migliorando uno strumento di misura che si modifica il fenomeno che si vuole misurare.
Repubblica – Napoli, 28.12.2018
Giuliano Laccetti è ordinario all’Università di Napoli Federico II
Rossella Latempa è insegnante di Matematica e Fisica a Verona.
Sono assolutamente d’accordo. Aggiungo che insegnerà a passare i test, gli esami, è diventato più importante dell’apprendimento in sé stesso e, ai nostri livelli, anche della ricerca. Ciò alla lunga avrà risultati negativi per tutto il nostro sistema.
Ritengo che Sud ed isole possono salvarsi da soli, trovando vie applicabili alle loro realtà e alla loro cultura, senza tentare di adeguarsi ad uno schema: non esiste un solo sapere, una sola via al sapere, un solo metodo valutativo.
Non esiste alcuna ‘cultura’ meridionale a tal punto diversa da quella settentrionale da rendere le due parti d’Italia non governabili sotto una stessa legge.
La differenza deriva esclusivamente dalle diverse condizioni economiche di base (condizioni essenzialmente geografiche) che in una economia basata solo sulle leggi di mercato necessariamente concentra il capitale nel nord-Italia. E’ così sin dal 1860, anno dell’unificazione. Per capitale, si intende anche quello umano: infatti i meridionali emigrano al Nord per lavorare, e le imprese sono collocate al nord perchè più vicine ai mercati di sbocco (centro-nord europa). Il problema del ‘divario Nond-Sud’ di fatto non esiste, intendo non esiste come problema che qualcuno che abbia mai avuto il potere in Italia si sia mai posto (con qualche eccezione nel dopoguerra, quando si cercò di spostare un pà di industria al Sud). Attualmente siamo tornati alla solita politica italiana (di prima della guerra) in cui, non è che il sud è ‘abbandonato’ (come si dice retoricamente) ma semplicemente nessuno si pone il problema di fare intervenire lo Stato per distribuire il capitale su tutto il territorio nazionale (cosa che non ha alcun interesse dal punto di vista dei ‘mercati’ internazionali).
Mi dispiace che Chiara Saraceno dica questo, perché la stimo. Le si può chiedere un commento?
Tali test INVALSI prendono in considerazione abilità che teoricamente ci potrebbero pure stare come italiano, matematica ed inglese, ma così come sono messe non vi è alcuna certezza che chi le insegni sia così abile da “splittarle” in precisi collocamenti che ad esempio non mettano abilità matematiche in qualche materia che non si chiama “matematica” in uno specifico istituto scolastico (creando così dati fuorvianti).
Francamente sono i tagli all’istruzione che hanno creato la polarizzazione sud vs nord Italia, anche se a dirla tutta mi sconforta la bassezza culturale persino dei licei e medie che dovrebbero essere sopra la media nazionale INVALSI. Anche se a dir la verità, vi sono eccezioni del sud che fanno invidia al nord (ad esempio in Basilicata alcuni licei classici fanno analisi matematica meglio di tanti licei scientifici in Veneto). Ma a parte queste eccezioni, la realtà mediana è avvilente, ma risolvibile a condizione che il sud faccia alcuni sacrifici di “insegnare ottimamente oltre il necessario” quasi come atto di carità culturale (anche collettiva, coinvolgendo la comunità), per rovesciare o almeno livellare la situazione…
Secondo la mia esperienza più della metà dei licei italiani stanno sotto la mediana.
“Poiché il governo non ha supportato le scuole con risultati meno positivi alle prove Invalsi, questo dimostra che le prove Invalsi non servono”. Siamo sicuri?
Io si, sono sicura. Il perché l’ ho scritto qui: https://ilmanifesto.it/test-invalsi-lillusione-morale-di-una-giustizia-che-non-ce/
Qualcuno potrebbe riprodurre l’intero articolo di Saraceno? Grazie.
eccolo: http://www.assind.vi.it/rassegna/20181215/ECO6996.pdf
Ogni tanto comprare un giornale, mai eh?
Ammesso di averlo comprato, era ormai finito nel riciclo della carta, visto che l’articolo risale a metà dicembre. Anche a causa della pausa natalizia, i nostri lettori leggono la lettera di Laccetti e Latempa (che era apparsa su Repubblica Napoli il 28.12.2018) quasi un mese dopo l’articolo originale della Saraceno. L’interesse per il tema non era però venuto meno.
Grazie a Giuseppe De Nicolao per il testo dell’articolo.
Sinceramente, percepisco nel commento sopra riportato una contrapposizione mal congegnata all’intero articolo di Saraceno. La sociologia sottolinea, argomentando, che le “preoccupazioni per i rischi di trasformazione della scuola in un ‘testificio’ non vanno sottovalutate” e nemmeno “la sfiducia circa l’uso di questi test”. Certo, non usa formulazioni dure. Inoltre, Invalsi non è stato all’altezza del compito, e il suo scioglimento dal e il suo riassorbimento nel Miur peggiorerà la situazione perché il Miur farà lo gnorri rispetto al problema delle disuguaglianze per non far di conseguenza nulla. E ci credo. E’ vero che Saraceno non chiede l’abolizione, non di Invalsi, ma del testaggio in sé, nemmeno come procedura ricognitiva. Ma i sociologi amano i surveys che implicano grandi numeri, da svolgere su campioni o su popolazioni complete. A cosa servano, è un altro discorso. Politico, come politica è una certa impostazione che si può dare ai sondaggi, i quali possono essere pilotati. Quanto all’istruzione pubblica, la concessione alle scuole della cosiddetta autonomia diventata caos, la trasformazione del preside in manager, l’abolizione dei libri di testo (sui quali, in verità, molti ci lucravano), l’introduzione di una digitalizzazione-informatizzazione mal gestita da semi-ignoranti culturali (tecnici privi delle cosiddette ‘basi’), selvaggia ma arrogante nella sua presunta insuperabilità modernistica (come si vede nell’intera amministrazione, pubblica e non: aiuto, arriva la fattura elettronica!), la scomparsa del cartaceo a tutti i livelli che paradossalmente aumenta invece un cartaceo senza valore nella forma e nella sostanza, la ‘somministrazione’ anziché insegnamento, interrogazione, valutazione analitica, ha disgregato il funzionamento dei processi educativi, pedagogici, e di insegnamento-apprendimento. Senza offrire sostitutivi o rimedi validi.Questo è presente anche nell’università, pari pari.
In effetti una risposta più puntuale e meno centrata sulla questione Nord-Sud è questa: https://ilmanifesto.it/test-invalsi-lillusione-morale-di-una-giustizia-che-non-ce/
Oggi The Guardian ci racconta che in Inghilterra si cambia sostenendo la qualità dell’insegnamento e non l’abilità di risposta; chissà se l’INVALSI se ne accorge: https://www.theguardian.com/education/2019/jan/16/ofsted-to-reform-school-inspections-in-bid-to-tackle-off-rolling
@ pmorpurgo. No. Invalsi non se ne accorge. Invalsi non esiste nemmeno. Invalsi è un nome di copertura per una cosiddetta intelligenza artificiale, segreta e nascosta in un rifugio antiatomico, che di intelligenza ha giusto quello che gli hanno programmato nel cosiddetto cervello, artificiale (un groviglio di cavi, chips (di patate), microprocessori et Co.) , per cui riesce a tirar fuori al massimo formule, al pari dell’Anvur, che servono a ottenere dai valutandi risposte standardizzate, alle quali i valutandi sono allenati per anni . Si va di standardizzazione in standardizzazione, di male in peggio. Perché tutto deve essere standardizzato, eccetto facebook, dove si esercita la ultimate (non sia mai che non si usi almeno un anglismo) cretinità, pardon, creatività.
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