A circa 15 anni dall’avvio del movimento dell’accesso aperto i risultati non sono quelli sperati. Per quanto riguarda il modello gold open access (paga chi pubblica perché tutti possano leggere), in questo momento i costi risultano difficilmente sostenibili se si affiancano a quelli per gli abbonamenti. E’ possibile allora pensare a una transizione dell’intero sistema delle pubblicazioni scientifiche dal modello degli abbonamenti al modello open access senza ulteriori costi, trasformando quanto ora si paga per leggere (costo degli abbonamenti) in pagamento delle Article processing charges (APC) per pubblicare ad accesso aperto? Gli estensori del White Paper della Max Planck Gesellschaft Disrupting the subscription journals’ business model for the necessary large-scale transformation to open access pensano di sì a patto che questa transizione avvenga in maniera collaborativa e a livello globale. La proposta senza dubbio rivoluzionaria pone però una serie di interrogativi con cui è importante che le comunità scientifiche si confrontino.

Riassumiamo qui i punti significativi del documento rimandando al testo per una lettura approfondita:

  • Gli articoli ad accesso aperto rappresentano circa il 13% del totale degli articoli pubblicati annualmente, e questa parte di finanziamento per le pubblicazioni scientifiche si somma agli incassi degli editori senza che vi sia alcun riequilibrio nei prezzi degli abbonamenti, vale a dire che a parità di costi sostenuti, gli editori incassano di più. Si tratta di quello che viene chiamato open access ibrido: articoli open access vengono pubblicati in riviste in cui gli altri articoli sono accessibili tramite abbonamento costringendo le istituzioni a mantenere gli abbonamenti e avendo come effetto un ulteriore incremento delle entrate degli editori
  • Alcuni paesi europei (UK, NL, AT) si sono dati l’obiettivo di pubblicare ad accesso aperto nei prossimi 5-10 anni fra il 50% e l’80% delle ricerche svolte da atenei e centri di ricerca nazionali
  • E’ evidente che una transizione all’accesso aperto come già in atto in paesi quali la Gran Bretagna, l’Olanda e l’Austria può aver luogo solo attraverso una trasformazione delle riviste in abbonamento in riviste ad accesso aperto, convertendo i fondi destinati agli abbonamenti in Article Processing Charges (APC).
  • Proposta pionieristica verso questo tipo di modello di business è il progetto Gold for Gold di RCS, ma si tratta solo di una piccolissima quantità di pubblicazioni rispetto alla produzione globale. E’ necessario che l’intero sistema degli abbonamenti alle riviste scientifiche si trasformi in un sistema in cui si paga per pubblicare (una volta che i lavori sono stati accettati) invece che per leggere, e questo cambio deve avvenire in maniera cooperativa e globale.
  • Per dimostrare la fattibilità della loro proposta gli estensori del documento calcolano a grandi linee la spesa per l’acquisto di abbonamenti a periodici e il numero degli articoli pubblicati ogni anno (calcolo fatto su report BNP Paribas e su dati WOS per il 2013)
  • Da questo calcolo, molto approssimativo, emerge che dividendo la spesa totale stimata per gli abbonamenti per il numero totale stimato degli articoli di un anno, il costo medio di ogni articolo risulta essere fra i 3800 e i 5000 euro. Questa cifra viene confrontata con i costi reali sostenuti da istituzioni come la Max Planck Gesellschaft per il pagamento degli articoli open access, con quelli del consorzio Scoap 3 e con quelli che risultano a RCUK dopo i primi 16 mesi di implementazione della politica open access del governo britannico, ottenendo come risultato un costo di circa 2000 Euro ad articolo. [Questo è anche l’importo massimo per articolo previsto dalla EC per il progetto pilota post grant FP7)
  • Gli estensori deducono quindi che nel sistema sono già presenti i fondi necessari per un cambio di modello e che ciò può avvenire senza ulteriori spese.
  • Quale deve essere il contributo di ciascuna nazione o di ciascuna istituzione? Gli autori partono dal presupposto che mentre dal punto di vista scientifico una pubblicazione viene attribuita a tutti gli autori (alle loro istituzioni e alle loro nazioni), solo uno degli autori paga, in particolare il corresponding author.
  • L’analisi fatta sui dati di una serie di nazioni porta al risultato che circa il 75% di tutti gli articoli attribuiti ad una nazione ha il corresponding author di quella nazione.
  • Lo stesso ragionamento si applica a livello di istituzione. Secondo quanto riportato dagli autori del White Paper ogni istituzione ha un proprio corresponding in circa il 40%-60% di tutti gli articoli che le sono attribuiti
  • Pare dunque arrivato il momento di un cambio radicale nel pagamento delle pubblicazioni scientifiche. I fondi ci sono, le istituzioni li hanno già a bilancio. Ora deve essere trasformata la modalità con cui tali fondi arrivano agli editori
  • Il sistema di pubblicazione e disseminazione resta invece inalterato, e come dicono gli autori: “Lo scopo è preservare l’attuale livello dei servizi offerti dagli editori che sono ancora richiesti dai ricercatori.”
  • il documento della Max Planck Gesellschaft Digital Library è stato oggetto di discussione nel recente congresso Berlin 12 tenutosi a Berlino a porte chiuse e in presenza di 90 delegati delle diverse nazioni europee l’8-9 dicembre 2015.

A seguito di questo convegno si è avviata in ambito internazionale una accesa discussione sia sui blog (qui ad esempio) che nelle liste di discussione (ad esempio qui).

Spunti per una discussione

La proposta della Max Planck Gesellschaft dà una bella scossa ad un sistema consolidato ormai da anni, ma si tratta davvero di una disruption o invece si cambia tutto per non cambiare niente?

E’ possibile stabilire un prezzo di mercato prima ancora che il mercato esista?

Attualmente il mercato delle pubblicazioni scientifiche è saldamente in mano a pochi editori internazionali, come si potrebbe configurare il mercato (anelastico) delle pubblicazioni scientifiche con questo cambio di modello?

Ha senso ai giorni nostri, all’epoca dell’open science, dei portali della ricerca, degli overlay journals, parlare ancora di riviste così come vengono confezionate e fornite dagli editori o forse la vera disruption deve avvenire nella modalità in cui si produce, si valida, si comunica e soprattutto si valuta la ricerca scientifica?

E lasciando invece le cose come stanno, con alcuni paesi che stanno convertendo il sistema delle pubblicazioni nazionali in un sistema Open Access, quanto è reale il rischio che il divario già esistente con paesi che non hanno ancora abbracciato questa politica (ad esempio l’Italia) diventi ancora più grande?

Ci auguriamo che anche l’Italia possa partecipare in maniera attiva alla discussione in atto a livello europeo.

Print Friendly, PDF & Email

22 Commenti

  1. Traduco il significato di questi bei propositi sul sistema italiano in cui anche mantenere un abbonamento a riviste di prima classe e’ un’ impresa: chi gia’ ha accesso a fondi continuera’ a pubblicare. Gli altri non potranno permetterselo se non pagando di tasca propria, pescando sui ricchissimi stipendi italiani. Ma capisco che per estensori di un documento targato Max Planck i problemi economici sono su altra scala. Forse pero’ anche i paesi del Sud del mondo avrebbero da dire qualcosa in merito.

    Piu’ positivamente, mi piacerebbe che un decimo del tempo che va dietro il delineare nuovi meccanismi nel mercato delle pubblicazioni, fossero dedicati a interrogarsi sugli attuali modelli di produzione scientifica e sua valutazione, in particolare a come diminuire la pressione sulla quantita’. Occorrerebbe ricordare che una delle regole del mercato nello stabilire i prezzi/costi sta proprio nel confronto tra domanda e offerta.

    • Credo che sia importante partecipare alla discussione che si è avviata con il Berlin 12. Senza dubbio i vari paesi hanno esigenze diverse ed esiste, anche per quanto riguarda il finanziamento delle pubblicazioni, una Europa del nord e una del sud.
      Non è detto che le riviste resteranno sempre come sono e non è detto che ci saranno ancora riviste di prima classe. L’infrastruttura delineata da Brembs qui http://bjoern.brembs.net/2015/04/what-should-a-modern-scientific-infrastructure-look-like/ ha un aspetto abbastanza diverso da quello attuale.
      Quello che è certo è che un mercato in cui si paga per leggere e anche per pubblicare è divenuto insostenibile (oltre che assurdo), anche per i paesi dell’Europa del nord.
      Il tema della pressione esercitata dai sistemi di valutazione in particolare da quelli basati sulla performance (publish or perish) credo che meriti una riflessione approfondita.

    • >>>…interrogarsi sugli attuali modelli di produzione scientifica e sua valutazione, in particolare a come diminuire la pressione sulla quantita’….<<<<

      La VQR non va forse in questa direzione?

    • No, la VQR non va in questa direzione perche’, non dimentichiamolo, come dichiarato dall’ anvur, non e’ una valutazione del singolo (e non e’ organizzata in tal modo), ma delle strutture (salvo usi impropri richiesti dalla stessa anvur).

      Inoltre la pressione al “publish or perish” non e’ solo italiana (come invece quell’ obbrobrio che e’ la VQR).

  2. Bei tempi quando nell’Università si lavorava fatturando il lavoro e reperendo risorse per le ricerche e per il Dipartimento (ed anche per misere tasche del professore!). Vedo che la questione si è spostata su quanto si può spendere per pubblicare. Segno dei tempi. Stupisce la mancanza totale di attitudine al ‘PROBLEM SOLVING’ dei nostri ricercatori, in quanto la soluzione al problema è banale:per non spendere niente basta non pubblicare, per guadagnare basta lavorare!

  3. Grazie Paola Galimberti dell’aggiornamento, che mette in evidenza un primo punto, del resto prevedibile e previsto: la lentezza e la difficoltà con cui l’OA sta affermandosi in un sistema dominato da reti di grandi interessi, molto rapidmaente e proficuamente adattatisi a certi cambiamenti in atto. Gli spunti di discussione sono molti. Mi permetto di aggiungerne uno. Il modo di affrontare il problema presentato dallo White Paper si limita a considerare la letteratura scientifica sotto forma di articoli su rivista. E articoli su riviste di scienze sperimentali. Però, quali particolarità la questione presenta se guardiamo all’altra metà del mondo, le discipline socio-umanistiche ? E se guardiamo al particolare ambiente dell’editoria italiana, che continua ad avere – necessariamente, aggiungerei – un grande peso nella distribuzione delle pubblicazioni socio-umanistiche ? E se pensiamo a quale importanza per queste ultime hanno – continuano ad avere: e anche qui aggiungerei “necessariamente” – tipologie di pubblicazioni come le monografie, le edizioni critiche, i volumi collettanei ? Caratteri delle discipline, tipologie di pubblicazione, natura del mercato editoriale nazionale (ma anche internazionale): queste variabili dovrebbero aiutare a costruire uno scenario di OA assai diverso. Nell’immaginare quale questo possa essere bisognerebbe forse prendere le mosse dall’esigenza di evitare alcuni paradossi, per esempio che si cominci a pagare per pubblicare articoli di rivista e che si raddoppino, a carico degli autori, i costi di pubblicazione delle monografie.

  4. … ma non sarebbe più semplice diminuire il costo di abbonamento e il costo dell’OA e lasciare tutto come è ora? Se le riviste devono vivere solo su OA si aumenteranno i costi e pubblicheranno solo i ricchi …

  5. Si, sarebbe più semplice: lo è in effetti stato fino alla metà del secolo scorso quando la pubblicazione si usava per comunicare e non per valutare la ricerca. Ma quando si è reso necessario per la carriera pubblicare su “certe” riviste, è anche diventato, per le biblioteche, indispensabile acquistarle. Ciò ha eliminato buona parte dei margini di trattativa e ha permesso agli editori di alzare i prezzi quasi a piacimento. Ci sono molti studi su questo tema: segnalo, per la sua brevità, questa conferenza del 2011 tenuta da Lessig al Cern: http://btfp.sp.unipi.it/?p=77

    Perché siamo finiti in questa situazione? Perché gli autori scientifici, di solito, non si curano dei prezzi degli abbonamenti e non gli interessa affatto che i loro testi siano resi artificialmente costosi ed esclusivi.

    L’idea della MPG si basa sulla convinzione che è vano tentare di responsabilizzare gli autori e che è preferibile, per rendere gli articoli scientifici più accessibili, pagare gli editori per scrivere anziché per leggere.

    Il mio motivo principale di perplessità, in merito a questa scorciatoia, è proprio che il progetto non tocca la centrale di irresponsabilità costituita da autori e valutatori scientifici – e quindi non elimina la possibilità che gli editori impongano prezzi molto alti per pubblicare su “certe” riviste, nella beata indifferenza degli autori – producendo una sfera pubblica scientifica in cui i “poveri” possono leggere ma non possono scrivere. E lasciando lettura e scrittura disgiunte come nelle barzellette sui carabinieri.

  6. Quindi ho capito bene che chi come me non ha una lira di fondi di ricerca non potra’ piu’ pubblicare sulle riviste ? Sara’ l’ultimo colpo dato alla liberta’ di ricerca. Speriamo che almeno gli archivi elettronici postino ancora i preprint……

    • No, il progetto prevede di dirottare agli editori, in cambio dell’accesso aperto, non i tuoi (eventuali) fondi di ricerca, bensì i fondi che la biblioteca della tua università attualmente dedica agli abbonamenti.

      La differenza fra “ricchi” e “poveri” si avvertirebbe non per i singoli ricercatori, bensì per le istituzioni. Il progetto è esplicitamente pensato perché gli autori non si accorgano di nulla, almeno se hanno la fortuna di appartenere a università “ricche”.

    • E quindi se il mio ateneo non ha un abbonamento ad una rivista su cui ho interesse a pubblicare non pubblico se non ho soldi.
      .
      Capisco la questione vista dal punto di vista dei budget delle istituzioni. Ma onestamente questo tipo di soluzione, dal punto di vista del singolo ricercatore, mi sembra comporti un rischio di un salto indietro non da poco, di cui si tende ad ignorare gli effetti collaterali. Il piu’ importante di tutti e’ la potenziale (ma non improbabile) limitazione della liberta’ di ricerca: se la pubblicazione costa, occorrera’ tornare al “placet” del direttore di Dipartimento. E tutto senza metter mano in modo credibile al vero motore dello strapotere delle case editrici: la pressione a pubblicare comunque e dovunque.
      .
      Anche se si volessero ignorare queste problematiche, resta non dimostrato che il passaggio dal “pay for reading” al “pay for publishing” sia possibile senza costi addizionali. Non mi sembra credibile, e non trovo dimostrazioni convincenti, che non vada ad incidere in modo pesante sul tipo di ricerca italiana (ottima produzione, anche dal punto di vista quantitativo, ma scarsità di fondi per accedere agli abbonamenti).

    • Giorgio Pastore,
      completando il tuo ragionamento questa dell’open access pagato dagli autori potrebbe essere l’arma finale per realizzare il “sogno” del sistema a due livelli: le Università definanziate non potrebbero più di fatto pubblicare ricerca e diventerebbero “teaching” come desiderato.
      Dopo la catastrofe, i cosiddetti riformatori ci direbbero che è colpa nostra, che in futuro solo con ulteriori tagli meritocratici le cose potrebbero andar meglio e che comunque avevamo vissuto al di sopra dei nostri mezzi.
      Ordoliberisti al lavoro?

    • Non sono un complottista e non credo che al Max Planck possano ragionare in questo modo.
      Tuttavia, nel riportare queste discussioni in Italia, penso sia doveroso interrogarsi criticamente su quali sarebbero gli effetti di questi approcci alle nostre latitudini. Io non posso non trovarli devastanti, a meno di non ripensarne molto meglio l’ implementazione. Come vedo ancora piu’ devastanti gli effetti sulla scienza dei paesi in via di sviluppo.
      .
      Giusto l’ altro giorno avevo dato un’ occhiata alle tariffe di una rivista “full open access”. Aveva prezzi diversificati su 4 fasce collegate ai livelli del PIL. Il problema e’ che se un articolo che per un italiano, un tedesco o uno statunitense sarebbe costato poco meno di 400$, ad un etiope sarebbe costato “solo” 70$. Ma occorre tener presente che il rapporto tra PIL italiano e etiope e’ circa 20, non 5.7! E il rapporto tra PIL non riflette necessariamente il rapporto tra spese in istruzione universitaria e ricerca…
      .
      Percio’, pur capendo le ragioni dell’ open access, e simpatizzando in astratto, suggerirei a chi se ne sta occupando attivamente qui da noi, di dedicare un po’ di tempo anche ad approfondire l’ impatto di certe “buone idee” sul sud del mondo, in cui includo, sia pure in posizione particolare, anche l’ Italia.

    • Parlavo proprio dell’Italia, dove peraltro certe cose sono state dette esplicitamente: altro che complottismo.

  7. Cari colleghi,
    permettetemi di esprimere alcune perplessità sul sacro mantra dell’Open Access.
    1) A parità di Editore (nel senso Publisher) e analogia di scopo di due riviste, per Impact Factor equivalente, il tasso di rigetto sembrerebbe più basso in quello quella Open Access.
    2) A parità di Editore, vedendoci rigettato un articolo su rivista con sottoscrizione, non pochi sono inclini a sottomettere a pagamento sulla rivista Open Access, che, in virtù del punto 1, passa più facilmente, con gran piacere dell’Editore per il doppio guadagno, da sottoscrizione fissa per la prima rivista e da incasso per Open Access per l’articolo sulla seconda.
    3) A parità di qualità del lavoro, è ragionevole ritenere che un articolo pubblicato su una rivista Open Access riceva più citazioni che se lo stesso articolo fosse pubblicato su rivista a sottoscrizione, anche a parità di qualità della rivista o a parità di rivista (accesso ibrido)
    4) I fattori 1-4 falsano artificiosamente la bibliometria, a vantaggio di chi può spendere diverse migliaia di euro dei propri fondi per pubblicare Open Access (potenzialmente decine di migliaia di euro all’anno per gruppo), a vantaggio di chi fa scelte finalizzate alle proprie legittime ambizioni di carriera (massimizzare IF e citazioni) invece che a scegliere di dare contratti più dignitosi ai postdoc i su fondi esterni (nel caso italiano, leggasi pagare ricercatori TD invece che assegnisti), nonché di chi appartiene ad istituzioni che finanziano con fondi propri le pubblicazioni Open Access. Il tutto a svantaggio di chi invece, con i fondi della ricerca è costretto non solo a pagare i costi della ricerca (compreso l’Open Access), ma soprattutto i costi a uomo fermo dell’Istituzione.

    A chi giova l’Open Access?
    Comporta miglioramento o peggioramento della qualità della ricerca pubblicata?
    Consente una sua più puntale identificazione o massimizza l’entropia?
    Fornisce un ritorno al Sistema Paese che l’ha finanziata o ai sistemi Paesi che meglio sanno elevare il livello tecnologica, attingendo alla ricerca di base altrui?
    Giova ai poveri del terzo mondo?
    Giova a promuovere il merito fa ricerca, a parità di risultati, o promuove il merito di chi, a parità di risultati fa scelte Open Access perché se lo può permettere?
    Perché la Commissione Europea, e da recente il MIUR, ci chiedono l’Open Access?
    Ci sono lobbisti che fanno pressione per l’Open Access per ottenere significativo ritorno, in termini di carriera o di compenso per l’azione di lobby?

    Temo che il sacro mantra dell’Open Access nel complesso:

    1) comporti un verosimile peggioramento della qualità media dei lavori pubblicati; ogni giono riceviamo inviti a sottomettere articoli o fare i guest editor di riviste Open Access che non leggeremmo mai, e qualcuno cede alle sirene di Ulisse…
    1) faciliti la diffusione verso chi la ricerca non l’ha pagata (un “favore al re di Prussia”), sia esso ricco o povero; ma verosimilmente solo i paesi ricchi riusciranno a far evolvere una ricerca di curiosità (a basso TRL) verso un prodotto (alto TRL) e posti di lavoro in produzione, che a loro volta producano tasse per finanziare ulteriori ricerche a basso TRL;
    3) faciliti una adulterazione della bibliometria, che in se non può essere un mantra, ma che qualche indicazione comunque la fornisce, se si confrontano cose omogenee, tipo un articolo Open Access ed a sottoscrizione o pagato per essere letto;
    4) comporti un significativo arricchimento degli editori e dei Sistemi Paese ove essi sono fiscalmente residenti (non si mettono in coda per venire in Italia). A titolo di esempio, Optics Express pubblicato (come l’analogo Optics Letters) da Optical Society of America ha pubblicato nel 2013 3288 articoli (fonte JCR), che al prezzo più probabile (7-15 pagine) di € 1757 (US$ 1,904), comporta un fatturato di quasi €6 milioni. Parimenti, quasi €6 milioni fattura Nature Communications per i 1591 articoli del 2013, al costo di € 3700 cadauno.

    Quanti di questi danari sono usciti dal nostro Sistema Paese (confesso, sono colpevole anch’io), senza alcun reale miglioramento delle condizioni sociali ed economiche del Paese, né un flusso in verso opposto?

    Come se ne esce?
    È difficile aspettarsi che l’Editore, un soggetto commerciale (anche quando è una Society, non preondiamoci in giro), cessi di voler massimizzare il proprio profitto. E lo fa meglio con un sistema a due riviste (una a sottoscrizione, cui nessuno rinuncerebbe, ed una Open Access) o con una rivista ibrida, con buona pace di chi, in buona fede propugna un mondo tutto Open Access.
    In passato l’Editore, al fine di vedersi comprata la sola rivista con sottoscrizione, era costretto a garantire la qualità, altrimenti pochi avrebbero avuto interesse a spendere per leggere articoli mediocri. Nelle versioni cartacee, aumentare il numero degli articoli pubblicati, portava ad un aumento dei costi, non necessariamente ad un aumento delle sottoscrizioni e del fatturato. Era un meccanismo di feedback negativo, che consentiva di limitare il numero di riviste e di articoli mediocri.
    Con l’Open Access, il fatturato è proporzionale al prodotto costo*numeri articoli (ignorando differenze per lunghezza e paese).
    Con accesso ibrido, il fatturato è la somma dei due.
    Tombola!

    Permettetemi una provocazione.
    Il pubblicista che invia una su un quotidiano o periodico, riceve un compenso (anche se a volte modesto) per pubblicare l’informazione contenuta nell’articolo, perché l’editore incassa dalla vendita del quotidiano o periodico. Quanto migliore è la qualità del suo lavoro (o del suo prestigio), più si aspetta come compenso.
    Noi (o meglio la nostra istituzione) non solo non riceviamo alcun compenso, ma dovremmo pagare per fornire ai terzi un’informazione che è costata soldi alle nostre istituzioni (e al Sistema Paese o Sistema Europa) e lavoro a noi.

    Chi lavora nella redazione di quotidiano o periodico, ad esempio un redattore o un correttore di bozze, riceve un compenso per il lavoro di supervisione o correzione degli articoli.
    Noi facciamo le revisioni gratuitamente, e dobbiamo farlo anche in fetta perché nelle riviste Open Access di grido, si richiede ai revisori di fornire la revisione in una-due settimane al massimo. Ricordo che anni or sono i revisori venivano ricompensati con sconti per i libri, o off-prints gratuito.
    Il revisore e l’Istituzione di apparenza ricevevano una compensazione, seppure modesta.
    Oggi non vedo nessuna compensazione per il lavoro gratuito fatto (o “sottratto” da altri doveri verso l’Istituzione).

    La provocazione è quindi:
    1) che gli Editori paghino gli autori, o a forfeit (garantendo quindi meglio la qualità del pubblicato), o per lettura (certificando quindi l’impatto del lavoro pubblicato)
    2) che gli Editori paghino i revisori, sia che si tratti di rivista a sottoscrizione (un forfeit, o in funzione delle citazioni del lavoro referto) che Open Access (es. il 10-20% del costo dell’articolo).

    Saluti
    RB
    PS: so benissimo che nessuno di noi si asterrà dal mandare Open Access, né dal referare gratuitamente. Siamo nella giostra come i topolini, e balleremo tutti. E gli azionisti ed amministratori degli editori congoleranno su una spiaggia tropicale leggendo il proprio estratto conto

  8. L’Open Access porta ad una profezia che si autoavvera: se si capita in un’istituzione povera (magari per fine contratti o perché qualche VIP se n’è andato), non si potrà pubblicare e quindi non si potranno trovare finanziamenti e quindi non se ne esce, né individualmente, né come istituzione. Gli eccellenti saranno sempre più eccellenti e vinceranno tutti il malloppo. Non mi meraviglia che sia una proposta MPG.

    Meglio sarebbe pubblicare su un sito web aperto e avere una discussione aperta coi colleghi. Magari al doppio cieco. Eliminando gli abbonamenti ci sarebbero fondi per mantenerlo, ognuno come filiale nazionale.

  9. Suggerisco di leggere la (breve) relazione dell’ARL a proposito della conferenza berlinese che ha discusso il progetto MPG, perché riporta molte delle perplessità che sono state espresse qui sopra:

    http://www.arl.org/storage/documents/publications/2015.12.18-Berlin12Report.pdf

    Condivido anch’io alcune di queste perplessità. Credo, però, che occorra fare un paio di rilievi:

    1. l’intento della proposta, come si legge nel primo punto a pagina 2, non è ridurre *tutta* la pubblicazione ad accesso aperto sotto il modello “[wealthy?] institutions pay”, ma trasferire sotto quel modello *solo* l’attuale pubblicazione ad accesso chiuso;

    2. la proposta, che aggira gli autori, ha il sapore di una mossa della disperazione: se autori e valutatori rendono oligopolistici i prezzi degli abbonamenti perché vogliono pubblicazioni in “certe” riviste, perché non provare ad accordarsi con gli editori per aprire l’accesso senza che gli autori se ne accorgano?

    Aggirare un problema, naturalmente, non significa risolverlo: come dicevo sopra, come essere sicuri che gli editori, in luogo di chiederci tanti soldi per leggere, non ce li chiederanno per scrivere – se scrivere un “certe” riviste rimane decisivo per la carriera?

    Ma perché la MPG è arrivata al punto di convincersi che autori e valutatori non si possano persuadere, ma si debbano aggirare?

    Dovrebbe essere scontato che una scienza la cui discussione, in lettura o in scrittura, non è accessibile a tutti quelli che potrebbero contribuirvi, non merita il suo nome. Quando vedo la pubblicità “Vuoi dimagrire? Chiedimi come”, per convincermi che il metodo che mi viene offerto in vendita non è scientifico non ho bisogno di apprendere, a pagamento, questo “come”: mi basta sapere che rifiuta di esporsi alla pubblica falsificazione.

    Non sto parlando degli studiosi giovani e precari – anche se “A pledge to be open” (http://btfp.sp.unipi.it/?p=5515) è stato scritto da una ricercatrice giovanissima come Erin McKiernan. Ma, per chi è già accademicamente inamovibile, sarebbe davvero così catastroficamente difficile cominciare a osservare questo giuramento di Erin McKiernan e quindi contribuire a indebolire gli oligopoli editoriali?

    Gli editori hanno bisogno degli accademici molto più di quanto gli accademici hanno bisogno degli editori. Non lo dico io: lo scriveva l’Economist nel 2012 (http://www.economist.com/node/21545974), parlando dello sciopero di Tim Gowers contro Elsevier. Tim Gowers, oggi, lo sta dimostrando con il suo overlay journal – gratuito per tutti – di cui si parla nell’articolo qui sopra.

    È infatti praticabile e praticato – con la cooperazione degli autori – un accesso aperto *in lettura e in scrittura*. Si obietterà che esperienze di questo genere sono destinate a rimanere artigianali: ma perché mai la pubblicazione scientifica deve essere per forza industriale e commerciale, quando per molti secoli non lo è stata?

    “Nel 1906, il grande matematico Henri Poincaré scrisse una memoria, “Sur la dynamique de l’électron”, che può ben essere considerato come uno degli articoli scientifici più importanti del secolo scorso. Fu pubblicato sui “Rendiconti del Circolo Matematico di Palermo”, una rivista siciliana di secondo ordine che divenne prestigiosa in quanto la cura con cui veniva prodotta dal suo curatore, Giovanni Battista Guccia, le attirò le simpatie di illustri matematici, che pubblicarono su di essa articoli di grande valore come quello di Poincaré. All’epoca non esisteva alcun “impact factor” e, di certo, quello di un articolo pubblicato su quella rivista sarebbe stato nullo rispetto a quello conseguito pubblicando lo stesso articolo su un grande rivista affermata come i “Mathematische Annalen”. Un “valutatore” contemporaneo avrebbe dovuto attribuire un valore modesto all’articolo di Poincaré e ciò, è quasi superfluo dirlo, sarebbe stata una decisione assolutamente idiota. In definitiva, l’impact factor è nient’altro che l’espressione pomposa del principio del più assoluto conformismo: se qualcosa piace alla maggioranza, allora vuol dire che è buona.”

    Non l’ho scritto io: l’ha scritto Giorgio Israel, che, da vivo, ha frequentato anche queste pagine.

    Per chi ha avuto la pazienza di leggermi fin qui: mi sembra doveroso riconoscere, per quanto il suo progetto contenga molti motivi di perplessità, che la MPG sta cercando di intervenire perché studiosi consapevoli come Timothy Gowers ed Erin McKiernan – studiosi che non credono che le rivoluzioni si facciano da sé – sono casi eccezionali e per questo anche eroici. Si sarebbe avvertito il bisogno di un disegno surrogato se i Gowers e le McKiernan fossero o la norma o, almeno, una rilevante minoranza?

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.