Sono passati quasi cinque anni dal 2010, quando, in un clima arroventato, fu approvata l’ultima riforma dell’Università, profondamente segnata dal clima culturale e dai pregiudizi entro cui era maturata. Una riforma accolta con rassegnata apatia dalla maggior parte dei docenti e addirittura incoraggiata dai vertici accademici, CRUI in testa, il cui Presidente Enrico Decleva dichiarava «Mi auguro che la riforma Gelmini arrivi presto in porto». Tra coloro che non se lo auguravano, c’erano invece i ricercatori della Rete 29 Aprile, che dapprima si resero indisponibili a svolgere i compiti didattici che prestavano a titolo puramente volontario ed infine salirono sui tetti per rendere visibile la loro difesa dell’università come bene pubblico e risorsa per il paese. Il comunicato seguente, apparso sul sito della Rete 29 Aprile, celebra un “compleanno” per nulla spensierato, perché “il tempo passa, i problemi restano”. E, nonostante gli effetti della riforma e dei tagli siano sotto gli occhi di tutti, le nuvole che incombono e il clima che si respira assomigliano a quelli di cinque anni fa.
dal sito di Rete 29 Aprile: La Rete 29 Aprile ha cinque anni. Il tempo passa, i problemi restano
Il 29 aprile 2010 circa 300 ricercatori universitari di ruolo si incontrarono a Milano per concordare una possibile linea di azione comune contro i progetti di trasformazione dell’università messa in campo, sin da due anni prima, dal duetto Gelmini-Tremonti: riduzione costante e progressiva del finanziamento pubblico, forme di privatizzazione e di svincolamento dell’università dal quadro pubblico, revisione dello stato giuridico dei docenti.
I ricercatori autoconvocati rappresentavano colleghi di 35 atenei italiani e stavano mettendo in campo una forma di protesta inedita e particolarmente efficace: poiché la normativa non li obbligava a svolgere didattica principale ma esclusivamente fare ricerca e fare didattica integrativa dei corsi dei professori, i ricercatori decisero in quella sede di astenersi da ogni incarico – spesso non retribuito – per smuovere l’attenzione dell’opinione pubblica sui progetti governativi e ostacolarne l’adozione.
La protesta ottenne l’effetto voluto. Anche se solo una parte – cospicua, circa 5000 ricercatori – aderì all’iniziativa di lotta, la protesta portò immediatamente alla ribalta il progetto di depotenziamento e impoverimento dell’università pubblica promosso dal governo Berlusconi, favorendo approfondimenti e discussioni che hanno animato per mesi la scena politica italiana, abituata a parlare di università solo per luoghi comuni.
Al culmine della protesta, negli ultimi mesi del 2010, i ricercatori della Rete – che nel frattempo avevano aumentato contatti e collaborazioni con la galassia dei movimenti studenteschi – adottarono la protesta più clamorosa che accompagnò tutto il dibattito parlamentare sulla legge 240, la cosiddetta “legge Gelmini”: visto che consideravano l’università una istituzione fondamentale, al di sopra di molte chiacchiere e beghe politiche, decisero di difendere l’università pubblica, libera e aperta salendo sui tetti, occupando i tetti e le terrazze di molti atenei italiani. Uno dei tetti occupati, quello di un dipartimento della Sapienza a Roma, divenne meta di visite e confronti con numerosi esponenti politici: da Bersani a Vendola, da Bonelli (l’esponente dei Verdi viene ancora ricordato con piacere perché fu l’unico dei visitatori a portare un vassoio di paste ai ricercatori infreddoliti…) a Della Vedova, da Ferrero a Di Pietro.
Nel frattempo altri ricercatori della Rete partecipavano a audizioni delle Commissioni cultura di Camera e Senato e portavano avanti le istanze della Rete sui punti più controversi della riforma, come la scomparsa delle facoltà, la riduzione delle retribuzioni dei docenti e dei ricercatori e del personale tecnico amministrativo, le modifiche della governance degli atenei in direzione decisionista ed elitaria senza alcuno spazio al confronto interno agli atenei sulle decisioni fondamentali.
La Rete contribuì preparare numerosi emendamenti, si fece voce attiva per tutti i colleghi che di solito venivano rappresentati in parlamento solo da paludati ordinari, deputati e senatori, che avevano in mente, nella maggioranza dei casi, solo gli interessi del loro gruppo disciplinare o, peggio, della loro bottega; si contrappose alla Crui e si affiancò ad altri organi di rappresentanza cercando di essere la voce dal basso della componente più giovane della docenza, spesso anche quella più bistrattata, cercando di rappresentare inoltre le istanze dei precari, molto più ricattabili e quindi meno facilmente mobilitabili.
La legge Gelmini, oggi criticata da più parti, soprattutto da chi allora se ne stette in colpevole silenzio, ha rappresentato un netto peggioramento della situazione dell’università, ma la sua linea ispiratrice ha trovato altri paladini e rappresentanti. Le recenti proposte sul distacco dell’università dal settore pubblico, i progetti di diminuzione dei numero delle università pubbliche sul territorio nazionale (attualmente 66, per un paese di 58 milioni di abitanti; la Gran Bretagna ne ha 95, la Francia 83, la Germania 122…); la malcelata tendenza, anche da parte dell’attuale di governo, di scegliersi sempre interlocutori comodi, come la conferenza dei rettori, e di fare finta di ascoltare gli altri, sono la conferma che un’università pubblica, libera e aperta dà noia a molti, e l’opposizione alla democrazia interna, a un sistema di finanziamento che garantisca efficienza nell’attività di ricerca e ricchezza dell’offerta formativa, attraversa sia il centrodestra sia il centrosinistra, realizzando l’unica, reale saldatura tra conservatori di ogni colore.
L’Italia è il paese dell’Ocse con minore numero di laureati in rapporto alla popolazione, eppure i suoi ricercatori sono estremamente competitivi sul piano internazionale; l’Italia è fanalino di cosa in Europa per finanziamento dell’Istruzione e della ricerca, eppure con fatica scuola e università continuano a fare il loro dovere, sebbene ostacolate da governi di ogni colore. L’Italia è anche il Paese, forse unico nel mondo occidentale, ad avere sei milioni di analfabeti e quattordici milioni di persone con la sola licenza elementare (dati del censimento 2001): eppure parlare di educazione degli adulti e di emergenza formativa è vietato…
Le cose non cambiano, quindi; le proteste logorano chi le fa ma rappresentano anche il fallimento di diversi progetti di governo accomunati da un’unica intenzione: mantenere il pubblico a livelli di ignoranza compatibili con il controllo a colpi di slogan o di tweet.
Siamo nati contro questa impostazione e questa politica, continueremo a esistere per sostenere un’università pubblica, libera e aperta.
In un triste compleanno
La Gelmini è lì a far danno
Sopra i reduci Gelmini
Ora incombe la Giannini
Se il ricercator protesta
Sono pronte a far la festa
Senza affanno e senza duolo
Lor lo sbatton fuori ruolo
Ci rimettono i precari
A noi tutti molto cari
Che saranno sistemati
Ormai solo da associati