Il discorso sul Sud e sulla qualità della sua scuola – espressione di un pensiero diffuso, di un “veleno che non ha mai smesso di scorrere” e che attraversa le viscere del paese – sembra aver superato oggi gli argini di quelle sedi mediatiche le cui espressioni orgogliosamente razziste hanno alimentato il lessico e la cultura protoleghista degli anni 90. Oggi il racconto dei terroni somari ma promossi si nutre di due elementi che lo rafforzano e lo alimentano: l’impiego dei dati INVALSI, ormai a pieno regime, come giustificazione “scientifica” delle differenze e l’evoluzione del quadro politico-sociale, stretto nella morsa della crisi e delle rivendicazioni autonomistiche delle regioni più ricche. Le recenti dichiarazioni di Tito Boeri, ex presidente dell’INPS, rappresentano un significativo esempio di “discorso sul Sud” dai toni garbati e a tratti paternalistici, rivestito dalla patina del politically correct istituzionale, ma caratterizzato da una candida piattezza interpretativa. Perchè la scuola al Sud arranca e il gap rispetto al Nord aumenta anzichè diminuire, come testimoniano i dati dei test nazionali e internazionali? Boeri propone una risposta: colpa delle famiglie meridionali. Non contano i divari economici, le condizioni professionali degli insegnanti; il problema è che le famiglie hanno “scarsa attenzione per quello che i figli imparano al di là del titolo di studio”. I genitori di Caserta, Messina, Bari e Potenza, insomma, pensano solo al “pezzo di carta”, dice Boeri, e gli insegnanti non riescono a incidere per modificare questo stato di cose.
Il discorso sul Sud e sulla qualità della sua scuola – espressione di un pensiero diffuso, di un “veleno che non ha mai smesso di scorrere”[1] e che attraversa le viscere del paese – sembra aver superato oggi gli argini di quelle sedi mediatiche le cui espressioni orgogliosamente razziste hanno alimentato il lessico e la cultura protoleghista degli anni 90, fino quella più recente .
Oggi il racconto dei terroni somari ma promossi si nutre di un elemento che, se non del tutto nuovo, lo rafforza e lo alimenta: l’impiego dei dati INVALSI, ormai a pieno regime come giustificazione “scientifica” delle differenze.
L’uso probante dei dati INVALSI non è certo un fatto recente. La stigmatizzazione dell’istruzione meridionale è un evento periodico, la cui cadenza tipicamente coincide con la presentazione dei rapporti e dei risultati, che avviene con sempre maggiori sforzi di comunicazione ed eco mediatici. Ciò che si è evoluto, è il quadro politico-sociale in cui il tema del divario nord-sud si inserisce; un quadro soffocato dalla morsa della crisi e dalle rivendicazioni di autonomia differenziata avanzate dalle regioni più ricche del paese.
Un esempio particolarmente chiaro di discorso sul Sud, che parte dalla scuola per poi condurre a conclusioni di tipo più generale, antropologico e sociologico, è stato scritto di recente sul Sussidiario.it, che-per inciso- rappresenta lo strumento di informazione della Fondazione per la Sussidiarietà fondata dall’economista Giorgio Vittadini, nome noto nel mondo dell’istruzione, nonché membro dell’Intergruppo per la Sussidiarietà, che gioca un ruolo di indirizzo nelle politiche dell’istruzione di non poco conto.
L’autrice, Tiziana Pedrizzi, tra le altre cose “preside in istituti tecnici di Milano”, ci parla dell’Italia dei voti scolastici “a testa in giù”, in cui finalmente i test INVALSI arrivati alla maturità permetteranno di ristabilire l’ordine negato.
Negato da chi? Dal Sud Italia e dai suoi soliti espedienti, oggi finalmente costretto a gettare la maschera e svelare la sua piccineria grazie al Crisma della valutazione INVALSI.
Il “miracolo delle scuole del Sud”, in cui i voti degli insegnanti non collimano con quelli dei test è frutto di due possibili motivazioni.
Uno:
“Dispercezione. [..] la scuola al Sud sembra orientarsi verso percezioni della realtà delle competenze reali degli allievi utilizzando una scala tarata su valori più bassi di quelli in uso nei paesi “avanzati” cui viene sulla carta omologata. Colpa del contesto socio-culturale, prima ancora che economico? Colpa della autoindulgenza della scuola stessa che si adagia sul contesto? Forse pesa anche il maggiore ottimismo circa se stessi e la realtà circostante che sembra aleggiare là dove il sole picchia più forte: si è mai sentito esaltare Venezia o Firenze, per non parlare di Torino, nella pubblicità e nelle trasmissioni televisive, come ad esempio avviene per Napoli e la Sicilia?”
Due:
“La seconda ipotesi parla invece di taroccamento volontario…”
Quello che Isaia Sales definisce “razzismo territoriale”[2] gronda in abbondanza dal linguaggio e dalle argomentazioni prodotte: un generico sud “ladro di voti” e indulgente, forse per via del “sole che picchia più forte” che arraffa disperatamente “pezzi di carta” – i diplomi dei suoi figli – per accaparrarsi posti pubblici e “campare” sulle spalle dei ligi contribuenti settentrionali.
Si tratta di un immaginario ricorrente e diffuso, puntellato dall’ideologia della valutazione ormai matura (B. Vidaillet, 2018) e alimentato dal disagio crescente della crisi economico-sociale.
Ciò che in genere emerge in queste analisi, oltre alla tracotanza, è l’assenza di problematizzazione, l’apparente irrilevanza del provare a porsi una semplice domanda: PERCHE’?
Perché i meridionali sarebbero inclini al “taroccamento”? Perché i meridionali trasferiti al Nord acquisirebbero senso civico? Perché oltre 150 anni di storia unitaria e politica non hanno sanato la frattura originaria, anzi, ne hanno acuito la divergenza?
Ma se l’insana e problematica convinzione che grazie a un test sia possibile identificare e certificare i buoni a nulla, coltivata da qualche preside milanese, appare di residuale importanza, più significativo sembra quel “discorso sul Sud” dai toni diversi, a tratti paternalistici ma sempre garbati; un discorso pronunciato da esponenti del ceto economico-politico che conta e che pur rivestito dalla patina del politically correct istituzionale, ad una analisi più profonda rivela analogo retroterra e analoga piattezza interpretativa.
Le recenti posizioni espresse da Tito Boeri, ex presidente dell’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale (INPS) prima su La Repubblica (11/12/2019) e poi in un’intervista televisiva (Piazzapulita 12/12/2019) ne rappresentano un significativo esempio.
Nell’editoriale intitolato “Un’altra scuola per il sud”
l’economista Boeri parte dalle “evidenze” dei recenti dati OCSE-PISA sui test di matematica, scienze e comprensione della lettura, che raccontano una scuola meridionale che “è come se durasse un anno meno che altrove”, il cui gap rispetto a quella del Nord si sarebbe “addirittura ampliato nel periodo più recente”.
Quali sono secondo Boeri le motivazioni? L’ex presidente INPS procede per esclusione.
Non è un problema di stipendi degli insegnanti perché al sud i docenti “vengono retribuiti meglio che nel resto del paese” visto che, a parità di stipendio ma con un costo della vita più basso, dispongono di maggior potere d’acquisto.
Quest’argomento non è nuovo per Boeri, che qualche tempo fa sosteneva, insieme agli economisti Ichino e Moretti, che diminuire i salari al Sud, smantellando la contrattazione nazionale e lasciando al libero gioco della negoziazione aziendale e territoriale la determinazione dei salari nominali, sarebbe stata una scelta efficiente ed equa per il paese.
Né più né meno che le posizioni dei noti Giavazzi e Alesina periodicamente ospitate sulle colonne del Corriere della Sera: meno produttivo sei, più è giusto che guadagni meno. Il meridionale, improduttivo, può scegliere il suo destino: o emigra al nord, o resta a godere del poco che ha a casa sua.
Nemmeno i divari socioeconomici di partenza sono responsabili delle differenze, secondo Boeri.
Paragonando “performance di studenti con genitori aventi lo stesso titolo di studio e livello di reddito”, cosa possibile grazie alle statistiche INVALSI, si nota infatti che queste sono molto simili al Nord come al Sud. Dunque “la scuola del Sud può fare molto meglio anche senza aspettare la convergenza economica”.
Scartati i due indiziati più ricorrenti, la tesi di Boeri è di straordinario candore: il problema al Sud sono le famiglie.
Le famiglie meridionali non danno abbastanza valore all’istruzione.
Quella che all’apparenza potrebbe sembrare l’edizione aggiornata in senso pedagogico del “familismo amorale” anni 50 (E.C. Bansfield, 1958) acquisirebbe oggi carattere “fattuale”, relativamente all’istruzione.
Dai dati INVALSI, l’inferenza dell’economista Boeri suggerirebbe che al crescere degli anni di scolarità, il divaricarsi del gap nord-sud sarebbe frutto dell’incapacità delle famiglie meridionali di “verificare l’impegno profuso dai figli negli studi”.
I genitori di Caserta, Bari, Reggio Calabria e Messina insomma, sarebbero “meno propensi a prendere l’iniziativa di andare a parlare con gli insegnanti” e avrebbero “scarsa attenzione per quello che i figli imparano al di là del titolo di studio”.
Questa affermazione dal sapore impressionistico (tipo: mio cugino mi ha detto che a Napoli gli studenti mangiano la pizza a ricreazione, il che spiega il maggior tasso di obesità infantile …) per l’Autore pare addirittura suffragata dal confronto, sempre basato su dati INVALSI, tra risultati scolastici ai test dei “migliori licei del sud” e migliori licei del Nord”. In questo caso, scrive Boeri, i divari si annullerebbero. Cioè a dire: se sei tra i “migliori”, essendo figlio di famiglie “migliori”, i tuoi genitori ti seguiranno di più e daranno più valore allo studio. Dunque, “i migliori” – sia al Nord che al Sud – raggiungono risultati analoghi. Ma chi sarebbero questi “migliori”? Boeri non dà alcuna risposta.
Forse perché consapevole della mancanza di coerenza di un ragionamento che, partendo dal presupposto che le condizioni socio-economiche non contino, finisce col chiamare in causa proprio il capitale culturale e sociale delle famiglie (solo i migliori riescono a colmare il divario), Boeri rincara la dose nell’intervista rilasciata un giorno dopo la firma dell’editoriale:
“Il mezzogiorno non potrà mi tornare a crescere fin quando sfornerà diplomati che non sanno fare di conto, non sanno leggere e interpretare un testo, non hanno rudimenti scientifici al pari dei diplomati che escono dalle scuole del Nord. [..]
Tutti i test INVALSI e PISA, che sono dati obiettivi, continuano a confermarci questo. E’ quasi come se al Sud la scuola durasse un anno in meno.
Credo che ci siano tante spiegazioni, però quella che mi convince di più è che le famiglie non pongono una pressione sufficiente sulla scuola; non hanno capito il grande valore dell’istruzione, pensano che valga il diploma in quanto tale e non i contenuti formativi; gli insegnanti a quel punto, anche quando animati dalle migliori intenzioni hanno un po’ questa difficoltà nel rapportarsi agli studenti, perché non hanno dalla loro il peso dei genitori.
La cosa fondamentale che andrebbe fatta per la nostra scuola sarebbe di procedere ad un reclutamento molto più attento dei nostri insegnanti [..]”
Il pensiero economico prevalente, a cui i media offrono sempre più spazio e diffusione, tralascia clamorosamente la correlazione robusta e scientificamente documentata tra disuguaglianza di risorse e disuguaglianza di opportunità, dimentica la relazione crescente tra disuguaglianze economiche e segmentazione territoriale, e vuole darci a intendere che per un’azione di contrasto al divario scolastico interno del paese possa bastare un attento reclutamento degli insegnanti e un affinamento delle loro tecniche didattiche. Servirebbero maggiori capacità relazionali, ci dicono. Proprio in quei contesti come quelli meridionali, caratterizzati da condizioni di inferiorità materiale, culturale e anche morale. Ma il bello è che non sarebbero nemmeno necessari incrementi di risorse. L’ “industria” della valutazione standardizzata e la cultura della competizione fornirebbero soluzioni pronte per l’uso.
Scrive Daniele Checchi sulla rivista lavoce.info, che annovera proprio Boeri tra i fondatori:
“Perché non (..) offrire la possibilità a gruppi di insegnanti (..) di candidarsi a proporre pratiche didattiche che siano efficaci nell’accrescere le competenze degli studenti e di procedere poi con sistemi rigorosi a accertarne l’efficacia? Si potrebbero individuare così docenti di comprovata efficacia ai quali andrebbe riconosciuto formalmente un ruolo di preminenza (eventualmente associato a un bonus retributivo più adeguato della attuale “valorizzazione del merito”), coinvolgendoli anche nella formazione dei propri colleghi e aprendo per loro una corsia preferenziale per la posizione dirigenziale nelle scuole.”
La ricetta dell’economia dell’educazione è sempre la stessa: mettere i lavoratori in competizione, incitarli a “fare meglio” con quello che si ha. Puntare sui migliori: quei docenti “di comprovata efficacia” che, oltre a ricevere bonus retributivi e occupare “posizioni di preminenza”(??), potrebbero diffondere le loro buone pratiche.
Ma chi giudicherebbe i docenti migliori? La risposta è lampante. Sono migliori quei docenti i cui studenti ottengono risultati migliori ai test INVALSI, che definiscono lo standard di qualità ormai (ideologicamente) riconosciuto.
L’idea che il giudizio ancorato all’esperienza e alla conoscenza profonda dei contesti, a saperi e a pratiche spesso implicite e informali vada sostituito con i giudizi basati su dati standardizzati è figlia delle teorie di management e dell’idea dominante di una politica dell’istruzione basata sull’evidenza.
Oggi la necessità di sostituire l’esito dei test al giudizio professionale è diventato uno schema culturale. I voti “umani” sono da screditare perché “taroccati”, perché auto-interessati. Si è smesso di ragionare in termini di riferimenti e di circostanze locali, di interpretare le cose in rapporto a una complessità, alle storie di ognuno, di guardarle nella loro intrinseca provvisorietà. Si esige dal sistema di valutazione una gigantesca e definitiva distribuzione del giusto valore e giusto merito di ciascuno.
Il Sud finalmente pagherà i suoi debiti, perché è finita la pacchia. Senza alcuna profondità storica, lo sguardo asettico e disumanizzato dell’economia arriva ad immaginare spostamenti di “insegnanti di comprovata efficacia” da un punto all’altro del paese: figure spettrali, metafisiche, senza radici e senza desideri se non quello di ricevere incentivi, che potrebbero disseminare di buone pratiche le zone svantaggiate, coagulando l’efficienza laddove la povertà, l’arretratezza delle famiglie e dei luoghi, il malaffare, il degrado e il deserto culturale non consentono buone performance. Il tempo delle vacche grasse è finito. Come pure il tempo delle tutele collettive.
“Tutto questo è impossibile da realizzare con l’attuale legislazione sul pubblico impiego e nel contesto delle relazioni sindacali di oggi. Ma l’emergenza evidenziata dai dati sugli esiti scolastici richiede l’adozione di strumenti emergenziali di contrasto, che facciano leva su risorse esistenti, rigorosamente selezionate.”,
ci ricorda Daniele Checchi.
La logica del fare di più con meno, che ciclicamente ritorna sotto varie forme (scaldarsi con la legna che si ha), significa dare di più a pochi, sulla base di standard stabiliti arbitrariamente, per via tecnica. I premi e le punizioni già ampiamente diffusi nei sistemi anglosassoni e finora in Italia lasciati solo ad iniziative autonome delle scuole più rampanti, in cui i presidi assegnano il bonus al merito in funzione degli esiti ai test INVALSI (vedi immagine in basso), già si vedono all’orizzonte.
Quando gli economisti smetteranno di occuparsi di scuola, forse riusciremo a non pensare più all’istruzione come ad un qualsiasi processo di interazione fisica, come la risposta ad un farmaco di cui studiare efficacia e diffusione. Torneremo a pensare all’istruzione come ad un’interazione complessa, situata, simbolica e mediata[3]. A domandarci non più solo cosa funziona o cosa non funziona, ma soprattutto chi decide, in nome di che cosa debba funzionare, e perché.
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[1] M. Villone “Italia divisa e diseguale”, pag. 8, Editoriale Scientifica, 2019, scaricabile gratuitamente qui: https://www.editorialescientifica.com/shop/e-book/italia,-divisa-e-diseguale-detail.html
[2] I. Sales, “Nel mezzogiorno scocca l’ora della post-Nazione”, LIMES 8/2019 pagg. 199-205.
[3] G. Biesta, Why “what works” won’t work: Evidence-based practice and the democratic deficit in educational research Educational Theory 57 (1):1-22 (2007)
Saggio davvero bellissimo e di una chiarezza tale da poter essere compreso, forse, persino da quegli economisti richiamati nel testo. Chiunque voglia fare il Ministro della scuola in Italia dovrebbe partire da qui.
Boeri chi? Quali competenze sulla scuola ha l’ex presidente dell’ INPS per parlare delle cause di alcunché nella scuola? Perché non rilascia dichiarazioni anche sulle squadre di calcio?
Non diamogli suggerimenti, per carità! :-)
ottimo commento, quasi interlinea con lo “stupidario” di un Boeri et similia (che fa consenso). Forse, anche tutti i professori-corsini &C che si dedicano al dileggio di chi cerca di fare muro al diffondersi delle stupidaggini pericolose da Rossella commentate, dovrebbero provare a ricominciare a studiare. Magari l’economia politica. Forse riuscirebbero ad affacciarsi all’apertura delle caverna di ombre dalla quale pontificano.
Spero si possa tornare a considerare il valore formativo della persona nell’istruzione di qualsiasi grado. Se facessimo una manifestazione silenziosa presso il MIUR per chiedere questo? Il rispetto di una funzione formativa non mercanteggiabile
Ottimo articolo. Sta riapparendo in Italia un razzismo strisciante e forse neppure completamente consapevole che ritrova vecchi stereotipi antimeridionalisti. E’ paradossale che questo avvenga nel periodo storico in cui la Lega Nord, il partito antimeridionalista per eccellenza vorrebbe trasformarsi in Lega nazionale. Accresce il paradosso la constatazione che tutti gli studi classici e moderni sulla questione meridionale, svolti da studiosi attenti e seri vengono dimenticati e rimpiazzati con interpretazioni casarecce di dati di incerta affidabilità come il test invalsi.
Da uno che si è laureato in economia (mica fisica o medicina) alla bocconi (mica alla Sapienza) fuoricorso (manco in corso) a 25 anni (quando durava 4 anni e ci si laureava a 22-23 al massimo) e si è dottorato a New York in 7(!) anni (quando ci sono altri che appena laureati entrano e al massimo ci mettono 5 anni, senza addentrarmi nella differenza fra un PhD all’americana ed un dottorato italiano), non mi aspetterei altro che quello che ha detto.
Fatti suoi. Se è contento di pensarlo, si ricordi almeno di guardare con più rispetto chi si alza la mattina per lavorare e contribuisce a sostentarci col suo quotidiano lavoro.
Suppongo che, geograficamente, io possa considerarmi nel Sud. Dico così, perché, le realtà sono variegate, qui ‘giù’ come al Nord. Per esperienza posso dire, però, che un degrado dell’istruzione e dei livelli è globale: un anno fa sentii un’intervista di un professore americano, che ripeteva le stesse identiche osservazione dei nostri professori, ormai anche dei docenti universitari. Il provincialismo italiano è imbarazzante e, soprattutto, permette che non si identifichi il problema correttamente e le eventuali soluzioni. Per esperienza so che in certe aree del cosiddetto Sud vi era sino a qualche decennio fa una tale cultura del lavoro, anche intellettuale, che gli studenti, anche di classi disagiate, raggiungevano risultati brillanti, perché avevano rispetto per ciò che facevano, chi insegnava, amore e dedizione per lo studio. La mia esperienza mi fa ritenere che l’impatto con la globalizzazione ha spazzato via i valori propri di quelle comunità, sostituendovi quelli che per i padri erano disvalori. I nostri giovani, in molti, ma assolutamente non tutti i casi, sono confusi.
Purtroppo, non viene data voce a chi pensa diversamente e questo lascia i ragazzi senza guida: al Sud come al Centro come al Nord.