L’annuncio di uno sciopero dei professori universitari programmato il prossimo settembre sta producendo molte e diverse reazioni, e una notevole eco sui media. Forse perché nessuno ricorda uno sciopero proclamato in Italia direttamente dai professori. Questo sciopero segnala che le coscienze intorpidite dei docenti si stanno svegliando? Potrà rappresentare un primo passo per rimettere in discussione le politiche della ricerca e della università di questi ultimi decenni? Sapranno i professori universitari dialogare con studenti, dottorandi, precari, personale tecnico amministrativo ed accettare in prospettiva un allargamento della protesta?

Lo sciopero è stato indetto dal Movimento per la dignità della docenza universitaria, coordinato dal prof. Carlo Ferraro del Politecnico di Torino, con un documento firmato da circa 5.500 docenti. Le ragioni dello sciopero sono molto specifiche. I professori non chiedono aumenti di stipendio, come pure si è letto su qualche quotidiano; chiedono che l’orologio della loro anzianità lavorativa ricominci a scorrere come per tutti gli altri lavoratori in regime di diritto pubblico non contrattualizzati. Mentre per questi ultimi l’orologio è ripartito il 1° gennaio 2015, assieme al recupero di tutta l’anzianità congelata, per i professori lo sblocco è avvenuto un anno più tardi, ma senza alcun recupero dell’anzianità.

E’ opportuno anche ricordare che tutto questo avviene dopo il cambiamento radicale delle retribuzioni di tutti i professori previsto dalla legge Gelmini nel 2010. Prima della Gelmini i professori si vedevano riconoscere scatti di anzianità al compimento di ogni biennio. Adesso, gli scatti non solo sono diventati triennali, ma non sono più automatici: lo scatto è concesso solo a coloro che ricevono una valutazione positiva del lavoro svolto, secondo regole stabilite da ciascuno ateneo.

Lo sciopero dei professori prevede che quanti aderiranno non tengano solo il primo appello della sessione di esami del mese di settembre. Certo, ci saranno disagi per gli studenti, ma è del tutto ragionevole pensare che saranno ridotti: nelle sedi in cui nel mese di settembre sono previsti due appelli, il secondo si terrà comunque; dove è previsto un solo appello di esame, c’è l’impegno a garantire comunque un appello straordinario a 15 giorni di distanza da quello che è saltato.

Questa curiosa forma di protesta arriva a circa un anno e mezzo di distanza da un’altra protesta, forse anche più strana, che prese il nome di #stopvqr. Nei primi mesi del #2016 gli aderenti allo #stopvqr si rifiutarono di partecipare alle procedure di valutazione della qualità della ricerca (VQR) realizzate dall’agenzia governativa per la valutazione ANVUR. Gli aderenti a #stopvqr si rifiutarono di inviare all’agenzia i due libri/articoli che l’agenzia avrebbe poi valutato. I rettori e moltissimi professori si indignarono per quella protesta perché ritenevano che avrebbe danneggiato le istituzioni, senza costare niente a chi la attuava. Così molti rettori si sostituirono ai protestatari nella scelta e nell’invio all’ANVUR dei libri/articoli per la valutazione.

La fine della storia è istruttiva: ANVUR rilasciò un comunicato stampa in cui sosteneva che la protesta era fallita e che la valutazione procedeva tranquillamente. In realtà la protesta inserì molti granelli di sabbia negli ingranaggi della valutazione, tanto che il MIUR, per distribuire i finanziamenti agli atenei, ha dovuto ricorrere ad un complesso algoritmo per sterilizzarne gli effetti. Nel frattempo, gli atenei hanno cominciato a scrivere le regole per gli scatti stipendiali dei professori. E in molti atenei i regolamenti prevedono che lo scatto stipendiale sia concesso solo se il professore ha partecipato alla VQR. Di fatto questi regolamenti hanno bloccato una forma di protesta pensata proprio per non danneggiare gli studenti, e che aveva ricevuto l’appoggio di alcune delle loro organizzazioni.

Ed eccoci allora allo sciopero di settembre. Sciopero corporativo, dicono alcuni; e v’è chi ha affermato che, in un momento così difficile per l’università, non è il caso di fare una rivendicazione come lo sciopero degli esami; insomma, ci sarebbe “BEN ALTRO” per cui protestare nell’università. In effetti c’è MOLTO ALTRO per cui la comunità universitaria nel suo complesso – docenti, personale tecnico amministrativo, studenti e loro famiglie – dovrebbe protestare.

Come abbiamo innumerevoli volte documentato sulle pagine di ROARS, nonostante la retorica sulla società della conoscenza e gli impegni in merito sottoscritti dall’Italia in sede europea, dal 2009 ad oggi l’università e la ricerca sono il comparto della pubblica amministrazione che ha subito la più drastica cura dimagrante. La spesa per l’università rispetto al PIL è la più bassa dei paesi OCSE (solo il Lussemburgo fa peggio di noi). Durante gli anni della crisi, mentre tutti gli altri paesi europei hanno aumentato la spesa per istruzione e ricerca, noi l’abbiamo ridotta, restando ben al di sotto del 3% di spesa in R&D assegnata dalla strategia di Lisbona ai paesi dell’UE. Il personale docente dell’università si è ridotto del 20%, passando dai circa 63mila docenti nel 2008 ai circa 50mila del 2015. Nel frattempo si è creato un piccolo esercito di personale non strutturato precario che svolge compiti di didattica e di ricerca, spesso in forma gratuita, e che non vede alcuna possibilità di un lavoro stabile. C’è la valanga crescente di adempimenti burocratici che distoglie la comunità universitaria dai compiti che le sarebbero propri. C’è una pervasiva invadenza delle pratiche di valutazione della ricerca e della didattica che stanno restringendo gli spazi di libertà garantiti dalla costituzione. C’è il problema del diritto allo studio, con il fenomeno tutto italiano degli studenti che hanno diritto ad una borsa di studio, ma che non la ricevono per mancanza di risorse. C’è infine, ma l’elenco è solo parziale, la questione meridionale dell’università, con il vertiginoso aumento  del divario tra Centro-Nord e Sud/Isole del Paese.

Sono quindi molti i problemi per cui c’è spazio e materia di protesta. Ma forse vale la pena osservare che anche la questione degli blocco differenziale degli scatti ha una sua valenza più generale. Per capirlo ci si può porre la seguente domanda: come mai i docenti universitari sono stati discriminati rispetto agli altri lavoratori del pubblico impiego non contrattualizzati?

La risposta a questa domanda è il frutto di decenni di narrativa nazionale sull’università e della scarsa considerazione che i “policy makers” (ah, l’inglese!) hanno dell’università, della ricerca e in particolare di coloro che dovrebbero portarla avanti, cioè i docenti universitari. A costoro, appartenenti a istituzioni secolari che hanno mantenuto e sempre mantengono (nonostante tutto) una certa autonomia rispetto al potere politico, vengono preferiti altri enti di ricerca, creati ad hoc con personale scelto al di fuori delle normali procedure concorsuali e docile al munifico erogatore di tale beneficio. I professori universitari – una volta corteggiati per essere fiore all’occhiello nelle liste elettorali – sono stati oggetto di una metodica opera di screditamento, basata sull’idea di una scienza nazionale in declino e di una università nella sostanza inutile. Non più ritenuti un “asset” (di nuovo!) su cui investire, i professori e le loro università vengono sottoposti a pervasive procedure di controllo centralizzato, attuate spesso attraverso una burocratizzazione crescente del lavoro di didattica e ricerca. Controllo e burocratizzazione da cui sono generosamente esentate, in tutto o in parte, le istituzioni create dal potere politico e le università private e telematiche.

Tutto ciò i docenti universitari – categoria tra le meno sindacalizzate e con minore coscienza di ceto – lo hanno sinora hanno subito in rassegnato silenzio, esprimendosi con i mugugni e le lamentele davanti alla macchina del caffè o nei corridoi; oppure sviluppando, quando possibile, un senso opportunistico di adattamento, tentando cioè di ricavare per sé/il proprio gruppo/dipartimento/ateneo qualche briciola in più di una torta sempre più piccola, magari sottraendola a un “rivale” operante nella stessa istituzione. D’altro canto i rettori in questi anni hanno di fatto assecondato qualsiasi politica governativa, purché questa fosse accompagnata da qualche briciola in più di finanziamento, o assai spesso dalla semplice promessa di briciole future. Per questo hanno dovuto tenere sotto controllo quelli che la legge Gelmini ha trasformato in loro sottoposti, rintuzzandone i pochi segnali di riottosità, come avvenuto nel caso della protesta #stopvqr.

Ed ora questo sciopero sta finalmente suscitando attenzione, conquistando per la prima volta le prime pagine dei quotidiani nazionali.

Le questioni in gioco a nostro parere sono: questo sciopero segnala che le coscienze intorpidite dei docenti si stanno svegliando? Potrà rappresentare un primo passo per rimettere in discussione le politiche della ricerca e della università di questi ultimi decenni? Sapranno i professori universitari dialogare con studenti, dottorandi, precari, personale tecnico amministrativo ed accettare in prospettiva un allargamento della protesta? Se dovesse concludersi solo con una rivendicazione salariale e di carriera, e con la creazione di tensioni interne al mondo universitario, allora sarà stato inutile, perché altri danni e funeste previsioni si profilano sull’orizzonte dell’università e della ricerca.

 

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65 Commenti

  1. @Lapo
    E, infatti, la priorità è l’autoreferenzialità:
    “Movimento per la dignità della docenza universitaria”, sicuramente legittima, ma valida finché esistono i docenti di oggi.
    Sarebbe stato più utile il
    “Movimento per la dignità del RECLUTAMENTO universitario”: per costruire una casa si parte dalle fondamenta, cioè dai problemi del reclutamento, ma questi non interessano a chi è stato già reclutato e ciò non rende, a mio parere la protesta “nobile”, anche se a Voi sembra tale.
    Consiglio di aggiungere un pizzico di lungimiranza e un pizzico di sensibilità (non pietismo né disprezzo, ma sensibilità) e consapevolezza dell’impossibilità di ingresso nel mondo accademico di oggi luglio 2017 (dato che non si assume più).

  2. @Cesare Papazzoni:
    il mio guadagno attuale è pari a euro ZERO.
    Secondo Lei, un ipotetico stipendio di un attuale associato o ordinario rappresenterebbe per me quello che Lei definisce “pugno di mosche”?
    E poi io sono disoccupato, da cosa mi dovrei astenere per fare sciopero? Quale sarebbe la mia colpa?
    Consiglierei uno sforzo di immedesimazione, ma forse non interessa, tanto quando uno è strutturato……..

    • Caro anto,
      dimentichi una cosa fondamentale: essere “strutturati” non è un diritto.
      Fattelo dire da un professore universitario frustrato come me: io volevo fare l’astronauta, ma alla NASA non c’è stato verso di farmi assumere. Allora ho ripiegato sull’università.

    • @anto
      Esistono diversi tipi di lavoro che comportano una retribuzione, talvolta anche maggiore (non è molto difficile) di quella di un docente universitario. Io le consiglierei di cercarsene uno.
      Il mio stipendio è da ricercatore a TI, se era preoccupato che fosse troppo alto, le darà conforto saperlo.
      Mi pare che nessuno le abbia chiesto di fare sciopero, né le è stata attribuita alcuna colpa, certamente non da me. Al contrario, non le riesce proprio di immedesimarsi nel fatto che ci sia qualcuno che non accetta che gli siano sottratti arbitrariamente alcuni anni di lavoro svolto. E non le riesce di accettare che esistano altri problemi, oltre ai suoi; questo per me è corporativismo all’ennesima potenza.

    • MAFFETC@
      Io invece volevo fare il politico, o il primario ospedaliero o il figlio di un grosso imprenditore contesti dove il merito non si sa nemmeno dove stia di casa… Ma facendomi il sedere, dopo la laurea e dopo 10 anni di pane e cipolla (figlio di madre vedova), viaggi all’estero Università di prestigio, a mie spese, e dopo più di 450 pubblicazioni sono diventato ordinario a 55 anni. Non ho zii parenti politici e conoscenti…ma ovviamente il mio posto non me lo merito…

  3. MAFFoodandbeverage:
    ora non è neppure un’aspettativa (reclutamento finito, rubinetto chiuso), almeno ai tempi tuoi una speranza c’era.
    Ora non c’è neppure la speranza di poter sperare di poter far valere un interesse legittimo nell’ambito del reclutamento.
    Chi è dentro è dentro, chi è fuori è fuori.
    Ingresso sbarrato anche per Albert Einstein se fosse vissuto adesso e avesse voluto essere reclutato.
    Anzi forse per Albert Einstein ci sarebbe stata una possibilità con le cattedre Natta…………..

  4. Oddio, Einstein è stato chiaramente contro i regimi…non venne in Italia per il congresso Volta per protesta contro Mussolini e poi emigrò in America essendo ebreo. Diciamo troppo diretto per poter essere buono da chiamata…anche se già a 26 anni aveva scritto le teorie per le quali vinse il Nobel circa vent’anni dopo…Nobel che non gli avrebbe risparmiato la camera a gas se non fosse fuggito…è sempre bene avere un po ‘ di memoria storica.

  5. @Cesare Papazzoni:
    nel mondo REALE di oggi lavori sicuri e remunerativi non esistono più.
    Io sono contento che Lei non abbia di questi problemi.
    In bocca al lupo e sinceri auguri di una carriera brillante (sicura lo è già, non deve temere nulla).

    • @anto
      Mel mondo reale ho fatto 9 anni di supplenze a scuola, ho vinto un concorso per entrare in ruolo nell’insegnamento e dopo quasi 4 anni, a 40 anni suonati, un altro concorso per entrare all’Università come RTI. Ma non ho mai pensato, nei circa 12 anni passati dopo la fine del mio dottorato, di avere un DIRITTO ad avere un posto all’Università. Con questo vorrei dire che la mia preoccupazione per i precari (e quindi anche per lei) non è mai finita. Ciò non toglie che io ci tenga a non vedere calpestati i miei diritti, e che vedere un precario che si presta a questo gioco al massacro mi intristisce.
      Sul fatto che la mia carriera sia sicura io qualche dubbio ce l’ho, visti i tempi che stiamo attraversando.
      Ricambio gli auguri a lei per un lavoro dignitoso, qualunque esso sia.

    • @cesare papazzoni appunto secondo il vecchio metodo è riuscito a ottenere un RTI. Magari non ha avuto bisogno di protettori e se la è giocata solo con il curriculum. Oggi chi è fuori è fuori e li dico da chi da dentro vede come funzionano le cose. O si ha un protettore o non si va avanti, manco con un curriculum eccelso. Nella prima fase dei rtda+rtdb tenured si è visto come conti fortemente il localusmo e vengono premiati quelli con atteggiamento sa portaborse. Ora trovi anche associati quarantenni che sono stati sostanzialmente sul carro del vincitore è no, non è stato per merito. È tutto sbagliato.

    • @orwell
      Da dentro vede le cose talmente bene da evitare di esporsi con il suo nome e cognome. Piuttosto comodo discettare di metodo e dire che è tutto sbagliato senza far sapere chi si è. Tra le caratteristiche desiderabili, all’atteggiamento da portaborse aggiungerei anche una certa dose di pavidità, che non fa mai male.

  6. De Nicolao@ che delusione.
    ho letto il comunicato stampa, ci risiamo tutti contrattualizzati, tutti sotto la stessa bandiera, la CGIL. Sarò disponibile quando contrattualizzeranno anche i magistrati, . Il populismo sindacalPDino è sempre il medesimo..Non serviva leggere. Mi ricordo i tempi dell’operatore unico in psichiatria… ma per questo sindacato il tempo torna indietro o meglio non è mai trascorso. Mi sarei aspettato un appello di solidarietà ai docenti..che squallore

  7. Se penso a Anto e ai giovani disoccupati di questo paese mi viene una tristezza indescrivibile.
    Bisogna reagire!!!
    Se penso che ci sono portaborse e barbieri che guadagnano il triplo di un professore universitario mi viene una rabbia indescrivibile!!!
    Bisogna reagire!!!
    Ma come?
    Come I capponi di Renzo o come le galline della casa degli spiriti?

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