Lo stato di crisi estrema dell’Università italiana di inizi 2016 probabilmente dipende dall’estrema difficoltà tecnica e politica di realizzare un disegno ancora occulto nel 2009, del tutto palese oggi: differenziare le sedi in research e teaching. Questo modello può realizzarsi solo facendo uscire l’Università “dal perimetro della pubblica amministrazione”.  Percorso politicamente difficile. Meglio portare a lenta agonia le sedi che si intende chiudere – e che verranno chiuse con la nobile motivazione che la VQR ha stabilito che sono poco produttive. Ma se un numero crescente di docenti si rifiuta di partecipare alla VQR anche questa via diventerà difficile da percorrere.

Nel 2009, il Ministro Tremonti aveva cominciato a raccontarci che l’Università italiana era popolata da professori baroni, nullafacenti e nepotisti e che “con la cultura non si mangia”. In nome dell’ obiettivo di tenere i conti pubblici in ordine, procedette coerentemente a un taglio del fondo di finanziamento ordinario alle Università statali che dai 702 milioni di euro nel 2010 raggiunse nel 2011 gli 835 milioni, in netta controtendenza con quanto si faceva in altri Paesi europei (Germania, in primo luogo). In fondo, si disse, più o meno esplicitamente, i trasferimenti di risorse pubbliche agli Atenei sono uno spreco. Con i loro più o meno puntuali resoconti sui concorsi truccati, giornalisti ed economisti di area “riformista” avevano fornito le “basi teoriche” della “riforma”, che verrà poi ricordata con il nome di Maria Stella Gelmini. Se anche l’obiettivo da perseguire era quello, non era chiaro perché il settore maggiormente colpito dai tagli dovesse essere quello della formazione: in fondo, si è sempre ritenuto (e si ritiene in altri Paesi) che il sottofinanziamento della ricerca è la strada più efficace per prolungare e intensificare la recessione. E’ difficile negare, infatti, che il finanziamento pubblico della ricerca scientifica sia strategico per l’attuazione di flussi di innovazioni nel settore privato e dunque per generare crescita economica[1].

Come è noto, negli anni successivi non vi è stata alcuna inversione di tendenza. Tutt’altro: il sottofinanziamento delle Università ha raggiunto livelli tali da far prefigurare a SVIMEZ la chiusura totale delle sedi meridionali (non di singoli corsi di studio) nei prossimi venti anni e un drastico ridimensionamento dell’intero sistema universitario pubblico nazionale[2]. Uno scenario simile è contemplato nel rapporto della Fondazione RES 2015[3]. L’imposizione di limiti alle assunzioni, combinato con l’abolizione del ruolo del ricercatore a tempo indeterminato e la sua sostituzione con il ruolo di ricercatore a tempo determinato, comporta un consistente aumento dell’età media del corpo docente e picchi di pensionamento.

Le proteste di quegli anni, lette a posteriori, non colsero la reale motivazione di queste scelte. Si disse che la controriforma dell’Università era voluta per dar spazio al privato; cosa solo parzialmente verificatasi. La motivazione era da ricercarsi altrove. Partendo dal dato per il quale le politiche formative in Italia sono da anni nelle mani di Confindustria. E le nostre imprese non hanno bisogno, salvo le dovute eccezioni, di lavoro altamente qualificato (http://www.economiaepolitica.it/lavoro-e-diritti/diritti/universita-e-ricerca/luniversita-che-piace-a-confindustria/#sthash.8NMUMaM7.dpuf). Avevamo effettivamente troppi laureati, non già nel confronto internazionale (ne avevamo e ne abbiamo notevolmente meno), ma troppi rispetto alle esigenze di un tessuto produttivo che, anche per la caduta della domanda interna conseguente allo scoppio della crisi e dell’avvio delle politiche di austerità, accentuava le sue criticità: piccole dimensioni aziendali e scarsa propensione all’innovazione.

Lo stato di crisi estrema dell’Università italiana di inizi 2016 probabilmente dipende dall’estrema difficoltà tecnica e politica di realizzare un disegno ancora occulto nel 2009, del tutto palese oggi: differenziare le sedi in research e teaching. Nelle prime si fa ricerca, nelle seconde solo didattica, un po’ più dei Licei.

 

Le difficoltà tecniche riguardano essenzialmente il fatto che questo modello può realizzarsi solo facendo uscire l’Università dal “dal perimetro della pubblica amministrazione”, per usare un’efficace espressione del Presidente del Consiglio. Il che comporta almeno due passaggi.

1) Consentire la piena mobilità dei docenti fra Atenei, dando agli Atenei stessi la facoltà di reclutare senza concorso. Diversamente, poiché – come è stato fatto notare – l’attuale configurazione del sistema universitario nazionale è un modello a “eccellenze diffuse”, non si capirebbe in che modo gli Atenei “eccellenti” possano essere tali (ovvero, mantenere la propria condizione di “eccellenza” e accrescere la loro produttività) senza poter occupare i migliori docenti italiani ed esteri. Ma, a normativa vigente, i trasferimenti di sede sono di fatto bloccati, dal momento che l’avanzamento di carriera di un docente esterno costa notevolmente più dell’avanzamento di carriera di un docente interno.

2) Permettere la differenziazione del trattamento retributivo fra sedi universitarie diverse. In assenza di questo dispositivo, non si capirebbe per quale ragione un docente possa mai accettare di trasferirsi, assumendo peraltro un carico di lavoro che dovrebbe risultare più gravoso rispetto alla sede di provenienza. Se, infatti, la sede di provenienza è esclusivamente teaching, nella sede di arrivo ci si trova a erogare didattica non solo nelle lauree triennali, ma anche nelle lauree magistrali e nei Dottorati, con in più l’impegno della ricerca (https://www.roars.it/il-pericoloso-percorso-a-ostacoli-che-porta-alle-universita-di-eccellenza/).

La realizzazione di questi passaggi richiede modifiche normative radicali, di difficile praticabilità, e anche difficilmente spendibili politicamente e per fini elettorali (occorrerebbe provvedere alla chiusura ope legis di sedi universitarie). Queste difficoltà creano una condizione per la quale, data la normativa vigente, ciò che può essere fatto è solo portare a lenta agonia le sedi che si intende chiudere – e che verranno chiuse con la nobile motivazione che sono poco produttive.

BenedettoRepubblica

Nel frattempo, si introducono “granelli di sabbia” nel sistema con interventi normativi apparentemente di poca rilevanza, ma che ben delineano il percorso. Fra i tanti, la possibilità data alle commissioni di concorso di valutare i candidati sulla base del “prestigio” della sede nella quale si sono laureati (si osservi, incidentalmente, che l’Università pubblica italiana non è strutturata in sedi più o meno prestigiose).

Si tratta inoltre di modifiche che sono ostacolate spesso dai sindacati e dalla Magistratura[4]. Sporadicamente anche da qualche docente. Più recentemente da un numero crescente di docenti, quelli che non parteciperanno all’esercizio di Valutazione della qualità della ricerca (VQR), legittimamente insoddisfatti di avere lo stipendio bloccato da cinque anni, non avere fondi per la ricerca, impiegare gran parte del loro tempo per far fronte a oneri burocratici la cui ratio sfugge ai più e che dovrebbero essere gestiti da un personale amministrativo anch’esso quantitativamente ridotto a meno dell’essenziale. E’ un’insoddisfazione pienamente comprensibile, soprattutto se si considera che un ricercatore universitario guadagna circa 2000 euro netti al mese, un professore associato circa 2500 e un professore ordinario poco più di 3000 (con anzianità di servizio di dieci anni).

Stop_VQR_now

E’ importante chiarire che, quantomeno nelle scienze umane e sociali (ma non solo), la valutazione della ricerca non è affatto neutra. Sul piano tecnico, essa viene realizzata attraverso l’uso di indicatori che segnalano il grado di diffusione di riviste scientifiche sulle quali hanno pubblicato i singoli docenti valutati. E’ del tutto evidente che, poiché le riviste più lette sono quelle che fanno riferimento al pensiero dominante, vengono premiati i ricercatori che si conformano a questo, ovvero che svolgono attività di ricerca lungo le linee di ricerca che prevalgono[5]. L’incentivazione del conformismo è il più efficace dispositivo di annientamento della creatività individuale e, dunque, della possibilità di generare innovazioni radicali nella conoscenza scientifica: non innovazioni ‘incrementali’ rispetto al paradigma dominante. Con una metafora. sarebbe come se una ragazza con i capelli biondi si sottoponesse a un concorso di bellezza nel quale si è già deciso che possono vincere solo ragazze con i capelli neri.

 

[1] Sul tema si rinvia a Mazzucato, M. (2014). Lo stato innovatore. Laterza: Roma.

[2] Per una sintesi, si veda: http://www.universita.it/universita-sud-rischiano-sparire/

[3] Viesti, G. a cura di (2015). Nuovi scenari. Una indagine sulle Università del Nord e del Sud. Fondazione RES.

[4] Si può considerare, a riguardo, un recente contenzioso in materia di valutazione della ricerca: https://www.roars.it/prosegue-il-contenzioso-sulla-collocazione-in-fascia-a-delle-riviste/. Altri ricorsi, anche su altri aspetti, sono riportati su www.roars.it.

[5] V. Forges Davanzati, G. (2015). Di cosa si occupano gli economisti, Micromega on-line, dicembre.

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29 Commenti

  1. tutto vero,
    ma la cosa più grave è il precariato.

    se andate sulla pagina

    troverete iniziative sulla volontà di far conoscere la gravità della ricerca precaria.

    https://www.facebook.com/ricercatorinonstrutturati

    tra le varie foto nella sezione a sinistra della pagina, c’è ne una dove si vedono i miei 3 libri (ora è l’ultima a destra), prodotto di 11 anni di precariato, ora sono disoccupato, con un curriculum, che, a detta di molti, non meriterebbe la disoccupazione.

    Vedete quella FOTO?
    Vedete che ci sono 3 LIBRI con il MIO nome?
    Bene, ora sono disoccupato.
    Ci sono moltissimi strutturati della mia materia che hanno solo 5 o 6 articoli e ZERO LIBRI.
    Secondo voi è giusto?
    Scusate lo sfogo, non mi sto vantando di nulla,
    ma la verità è questa ed è una brutta cosa.
    Condividete?

  2. Lei sopravvaluta il Miur, L’ Anvur e via dicendo.

    La realtà è che non esiste nessun piano, nè di distruzione nè di miglioramento, vanno avanti alla giornata, sulla spinta di sensazioni del momento, di umori dei giornali, di confindustria, ecc. ecc. parlano e fanno a vanvera..magari ci fosse un piano….

    c’è solo il nulla sul quale costruiscono meccanismi e strutture, che neanche chi le costruisce sa a cosa servono…..

    • Invece credo che abbia centrato il punto. Inventarsi alla giornata nuove vessazioni è segno di ‘creatività vessatoria’, per l’appunto, una specie di tortura psicologica per creare repulsione (“non voglio sapere niente!” – testa sotto la sabbia) e stanchezza (“basta, non ce la faccio più a starci dietro!”). Il parlare apparentemente a vanvera, se uno somma ciò che sembra disinformazione, spocchia, ingenuità , pressapochismo, semplice esercizio del potere condito di sorrisi, parole vacue, promesse vaghe, sordità assoluta alle critiche, perseveranza nella stessa direzione, genera un supertesto coerente. Sono troppe le manifestazioni elencate e sono troppe le persone coinvolte perché tutto sia eternamente casuale. Del resto i risultati dànno senso al percorso compiuto, eppure questo percorso poteva essere corretto a mano a mano. Sono significative, come spesso accade, le uscite quasi involontarie, quando il discorso è meno controllato, come nel caso di S.Benedetto, che ha svelato i segreti o gli intenti della politica, di quell’insegnante ‘prestata’ che ce l’aveva con gli “ordinari associati”, del coordinatore del Gev-9, che ridacchia sull’Iris, ma implicitamente anche di noi idioti che ci scervelliamo.
      Quanto alla “incentivazione del conformismo”, ancora prima che nella ricerca è stata applicata tramite la burocratizzazione estrema, distruttiva, cui nessuno che avesse voce in capitolo si è opposto veramente.

    • “S.Benedetto, che ha svelato i segreti”: ci manca solo la deriva mistica e siamo a posto, anche se i punti di contatto con la Kabbalah ci sono eccome ;-)

  3. Ho sentito dire da alcuni miei colleghi in Dipartimento che secondo certe statistiche europee
    il n. di laureati l’anno complessivo nell’ambito delle
    discipline legate alla Information Technology in Italia
    siano qualche migliaio mentre in paesi come la Francia, la Germania
    e l’Inghileterra e’ di qualche decina di migliaia. Cioe’ ci sia un ordine di grandezza di differenza.
    Qualcuno conosce qualche riferimento su queste statistiche?
    grazie!
    Andrea Clementi

  4. ovviamente c’è una perversione di fondo e ovviamente è pilotata.
    Tuttavia il punto è un altro, e cioè che si tratta di manovre che vogliono portare in realtà alla fuoriuscita dal perimetro giuridico attuale dell’università, vale a dire (vagamente) quello pubblico soggetto a regole del diritto amministrativo.
    “Colui che è peggio di berlusconi” ha dichiarato più volte che quello è l’obiettivo, e se riterrà di avere un adeguato tornaconto (retorica della lotta anti-baronale e quant’altro) lo farà.
    Mi pare un’utopia che ci si accontenti dell’anvur e di una diminuzione del 20% del corpo docenti e dei laureati, quando “il peggioratore di berlusca” può fare molto, molto di più.
    E’ da illusi pensarla diversamente-

    ps sui tetti

  5. Molto di vero, eccetto che l’ispirazione di fondo sia liberista e confindustriale.Col bilancio unico, che doveva portare ad una gestione aziendalistica, ci siamo ritrovati al blocco burocratico di fatto, che impedisce di lavorare col mondo esterno. Tutto a causa di interpretazioni e regolamenti fatti dal corpo accademico. E che dire dell’impeto bibiometrico. Anch’esso è perseguito e concepito dall’accademia. All’industriale non importa niente che uno abbia pubblicazioni in classe A, all’accademia si. Che dire del precariato, che rimane tale perchè l’accademia considera i precari schiavi pubblicatori, invece di offrirgli un possibile sbocco lavorando col mondo esterno. In parole povere, il mondo accademico ‘illuminato’ e ‘di sinistra’ è l’unico responsabile di quanto ci sta succedendo. I politici non esistono e quelli che esistono vanno a traino del mondo accademico, non avendo la minima idea di cosa dovrebbero e potrebbero fare. I ministri dell’economia, dovendo risparmiare e percependo che il mondo accademico fa schifo, hanno gioco facile nel tagliare l’FFO. Infatti lo hanno fatto tutti, di destra e di sinistra. In definiva l’Università Italiana soffre di una sola malattia: l’indecenza del capitale umano degli accademici. A questa circostanza sarà difficile rimediare.

    • Mi sembra che lei esageri un pochino. In quanto all’industria italiana, avrei molto da dire, avendoci lavorato 8 anni prima di entrare all’università vincendo un concorso da solo, poiché l’azienda privata dove lavoravo falli’ perche’erano venuti meno i fondi europei per la ricerca e mi trovai in strada con 2 figli piccoli e un mutuo da pagare. Se guardiamo il marcio lo si trova ovunque. Io in università ho incontrato molte belle persone così come nell’industria privata.

    • Braccesi non si capisce in quale lontano asteroide lei viva ma la riforma Gelmini è stata scritta in Confindustria con la partecipazione attiva di Giavazzi & co. in qualità di ispiratori e supporters. Ora va bene non seguire e non sapere, si capisce che lei abbia cose più importanti da fare, ma non va bene mistificare.

    • Tra le infinite evidenze c’è la testimonianza di Giorgi Israel che in poche righe coglie il punto esattamente

      “Non c’è né Spectre né Protocolli, ma un’agenzia molto trasparente che ha lanciato da tempo un’Opa sul sistema dell’istruzione italiano (tutto, scuola e università). È Confindustria, con gli organi preposti (Treelle, Fondazione Agnelli, ecc.), i suoi uomini piazzati nelle posizioni giuste (Gianfelice Rocca, appunto), gli utili alleati (cfr. la lista del comitato di Treelle) e con il suo Manifesto di cui Massarenti è il portavoce. Il bello è che è un’Opa a costo zero, un caso unico al mondo, nel solco della tradizione italica del capitalismo assistito. Un modo per formare quadri aziendali gratis e avere un ufficio studi a costo zero. Domani si terrà un convegno di questa “agenzia” alla Luiss su Scuola, università e ricerca “i numeri da cambiare” (sic…).”

      https://www.roars.it/riformare-anvur-meglio-tardi-che-mai/comment-page-1/#comment-6283

    • Che esista un “piano” confindustria le che non investa solo l’università, è vero. C’e’ stata una azione piu vasta, paragonabile solo alla propaganda della chiesa cattolica. Una azione per cambiare la mentalità del paese in senso aziendalista. Per cui oggi chi sciopera o si astiene dalla VQR, è visto come un sovversivo o un matto. Per cui eiste la sola religione dell’azienda , della produttività, del lavoro , a cui tutti i partiti si sono dovuti piegare, e a seguire gli apparati dello stato, come l’università . L’università, attraverso varie azioni, anche di compravendita di rettori (alcuni vedono nel loro futuro un seggio o di più ) è stata trasformata in una agenzia di formazione professionale al servizio dell’industria. Da qui i 3000 euro di finanziamento a un grande matematico e le centinaia di migliaia a ingegneri e medici universitari legati ad aziende , che anche grazie a una gestione dissennata dei tirocinii, hanno prosperato. Confindustria, come la conferenza dei vescovi, pontifica ormai su tutto. Ha almeno due ministri, detta l’agenda, assorbe risorse. Il vero problema è, come sempre nelle trasformazioni indotte nella nostra testa da propaganda più o meno subdole e dall’uso dei ricatti e delle leve finanziarie a cui nessun ministro o capo do governo può opporsi, pena il decadimento a mezzo media. L’università non fa eccezione. Primo passo: dividi et impera

    • Mi spiego meglio: l’incidente della storia ha voluto che la riforma sia stata fatta dalla Gelmini. Inoltre qualche input è venuto dal mondo confindustriale e, ne sono testimone ad ingegneria, è stato ampiamente sostenuto da molti del nostro corpo docente (parlo di quelli in carriera, gli altri, maggioranza silenziosa, hanno sempre saputo che il 3+2 sarebbe fallito).
      Per quanto attiene alla fase attuativa della legge, questa è stata sempre ‘gestita’ e disegnata a misura del mondo accademico e ad esclusivo interesse dell’autoreferenzialità. Basta guardare i membri dell’ANVUR, che non sono certo emissari della Confindustra o della Spectre liberista, ma tutte persone ben inserite nel sistema chiuso dell’accademia. Inoltre, per non tradire la mia formazione sperimentale (galileiana), se fosse vero che il sistema è funzionale ad una logica liberista e confindustriale, dovrebbe ‘servire’ questi scopi. Invece, sperimentalmente, stiamo assistendo all’esatto opposto. Capisco che qualcuno, pur contestando l’ANVUR, abbia in realtà il disegno di sostituirsi ad essa, perseguendo fini analoghi, ma purtroppo quello che dico temo sia molto vicino al vero. Il resto è fumo di propaganda.

    • Braccesi, sempre dal lontano asteroide in cui si trova, guarda quello che succede con delle lenti che deformano tutto. La riforma Gelmini, la legge 133/2008 e l’Anvur, come anche l’IIT, sono state costruite dai soggetti di cui sopra con l’intento di distruggere il sistema. Date queste condizioni ognuno si è adeguato a modo suo. Noi ad esempio abbiamo messo sù questo sito dedicandoci un bel po’ di tempo. Altri approfittano della situazione. Altri pettinano le bambole.

    • la verità sta nel mezzo: il sistema lo ha distrutto gelmini, perché è ovvio che togliere la terza fascia docenza, quella dei ricercatori a tempo ind., significa precarizzare.
      E farlo per sempre.
      Ricordo però chiaramente anche un’altra cosa, che qui non si può negare con faciloneria: ovvero una connivenza di vasta parte del mondo accademico sulla riforma. Dicevano che si sarebbero prodotti più posti, che era giusto così, che era meritocratico. Parlo di professori ordinari, anche e soprattutto, che avevano interpretato la riforma come un moltiplicatore della loro forza, e l’avevano attivamente sostenuta, salvo poi tornare indietro (fintamente) qualche tempo dopo.
      Non ricordo molti PO sui tetti, a Roma, diciamo che non ne ricordo nessuno, ricordo invece diversi ricercatori tempo ind., che dalla riforma erano forse i più favoriti (o forse no, poiché rimanere ric.ind. è forse meglio che diventare associati nel sistema attuale).
      Hai voglia a dire che la Gelmini e quindi il precariato non fossero sostenuti (ai tempi, ovviamente, non adesso) dalle fasce più forti della docenza.

  6. CAro Braccesi, diciamo che c’è stato una convergenza di interessi tra confindustria, alcuni colleghi interessati e anche alcuni rettori che hanno sostenuto e ispirato Gelmini. Io personalmente non sono per sostituirmi all’ Anvur ma per chiuderla, in quanto assorbe risorse preziose e molto tempo che potremmo dedicare ad altro. Detto ciò, capisco però che ci sono molte idee, tutte rispettabili che divergono dalla mia e forse l’anvur continuerà ad esistere. Il blocco della VQR comunque ha un obiettivo ben preciso: il recupero dell’anzianità pregressa.Non c’è ne sono altri, ne ci sono dietrologie di alcun genere. Quando riconosceranno gli scatti manderemo (anche con il mal di stomaco) gli articoli alla VQR.
    L’ ANVUR comunque non ha capito una cosa: non siamo in America o in Nord Europa, certi criteri da noi non funzionano ne possono funzionare. Neanche si può affondare le università del sud per un semplice motivo: si affonda il paese.

    • Vedi che, piano piano, cominciate a darmi ragione? Ma bisogna sempre provocare in modo violento per sollecitare un minimo di dibattito e di idee? Vorrei solo che convergessimo almeno su un punto: se il sistema ci fa lavorare potrà coglierne i frutti, se ci irreggimenta in un format preconfezionato ed astratto, raccoglierà solo demotivazione.

    • Ringrazio Sylos Labini per la consueta solerzia con cui si prende cura di me. E’ certo che ho un problema: non riesco più a lavorare in questa università, dopo aver scelto ed investito molte energie in questo mestiere.
      Sottolineavo soltanto che l’ultima risposta di ‘acicchel’ è molto più articolata ed interlocutoria della precedente, segno evidente che, a mente fredda, ha trovato un qualche fondamento nelle mie considerazioni. Anche se ottimisticamente, posso pensare che mi abbia dato in qualche modo ragione. Io peraltro concordo con lui che non si possa distruggere l’Università nel sud, ma neanche nel resto d’Italia, perchè il nostro sistema si basa sull’Università diffusa e sull’uniformità della formazione pubblica, che voglio ad ogni costo difendere. Con la Bocconi et similia si producono solo i danni toccati con mano quando il suo più famoso Rettore è stato Premier.

  7. […] Lo stato di crisi estrema dell’Università italiana di inizi 2016 probabilmente dipende dall’estrema difficoltà tecnica e politica di realizzare un disegno ancora occulto nel 2009, del tutto palese oggi: differenziare le sedi in research e teaching. Questo modello può realizzarsi solo facendo uscire l’Università “dal perimetro della pubblica amministrazione”. Percorso politicamente difficile. Meglio portare a lenta agonia le sedi che si intende chiudere – e che verranno chiuse con la nobile motivazione che la VQR ha stabilito che sono poco produttive. Ma se un numero crescente di docenti si rifiuta di partecipare alla VQR anche questa via diventerà difficile da percorrere. La distruzione dell’Università e le ragioni di chi si oppone […]

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