In Italia il Times of Higher Education è conosciuto soprattutto per il suo ranking, vale tuttavia (di più) la pena di seguirlo su altri temi, come quello dell’open science per cui ha pubblicato negli ultimi mesi una serie di articoli dal titolo JISC futures. Se si leggono questa serie di articoli di personaggi chiave nelle politiche della ricerca in Gran Bretagna, il confronto con ciò che avviene nel nostro Paese è desolante. A livello ministeriale l’open science è un concetto sconosciuto e di difficile declinazione. Nel dibattito pubblica non si riesce ad andare oltre alla equazione open access=scienza predatoria o comunque scienza di cattiva qualità.

Il primo di Geoffrey Boulton (professore emerito presso l’università di Edimburgo e presidente del Committee on Data for Science and Technology) si intitola The digital revolution and the future of science e analizza i mutamenti che sono avvenuti nella produzione e circolazione delle ricerche scientifiche dopo l’invenzione del Web. In particolare focalizza la sua attenzione sui dati della ricerca, sulla necessità che siano ricercabili, accessibili, valutabili, riutilizzabili

Without openness, researchers are trapped inside a cage of their own data and a community of ideas and knowledge based on a powerful collaborative potential, and able to interact with wider society in a more open science, fails to materialise.

These imperatives pose ethical challenges to publicly funded researchers to make the data they acquire intelligently open so that they can be reused, re-purposed or added to by others, particularly if that data provides the evidence for a published scientific claim

La rivoluzione digitale rappresenta la più grande rivoluzione dopo quella della stampa. E’ importante che le istituzioni, soprattutto quelle finanziate con fondi pubblici si pongano una serie di domande in particolare riguardo alle modalità con cui la scienza (dati e pubblicazioni) viene prodotta e disseminata

Do we any longer need expensive commercial publishers as intermediaries in the communication process? Do conventional means of recognising and rewarding research achievements militate against creative collaboration? Has pre-publication peer review ceased to have a useful function? These are non-trivial questions that need non-trivial responses.

 

Il secondo articolo è di Paul Feldman (CEO di JISC) e si intitola What next for the UK’s international research collaborations?

For the UK to become the most digitally advanced research nation in the world, we need to understand how both the data revolution and open science are changing the game.

Dati della ricerca e open science rappresentano il punto cruciale e pare di essere in un modo parallelo quando leggiamo

In the UK we are lucky to have an innovative policy environment where our research funders and successive governments recognise that open science means better research, and better economic and social outcomes for the UK.

La fortuna di avere delle politiche della ricerca che supportano l’open science nella convinzione che questa sia la strada per una ricerca migliore e di maggiore impatto non è sufficiente secondo l’autore dell’articolo  in un ecosistema in cui ancora molto è basato sul prestigio delle pubblicazioni ed è per lo più gestito da operatori privati.

In particolare nel post Brexit il ruolo di leadership nell’open science, l’investimento in infrastrutture digitali che favoriscono la collaborazione e la propensione verso l’innovazione  rendono la Gran Bretagna un partner molto ricercato dalle altre nazioni. Su questa strada si deve dunque continuare.

Il terzo articolo, di Steven Hill (direttore dell’area Research policy di HEFCE) si intitola Data sharing is a key part of research – and not just for ‘parasites’ e posto che in una contesto di ricerca data driven sia le politiche che gli strumenti per la raccolta dei dati della ricerca esistono, è importante fare in modo che questi dati vengano riutilizzati. Il riuso dei dati potrebbe infatti rendere meno costose alcune ricerche, eliminando la duplicazione degli sforzi

Hill ha una serie di proposte in questo senso. Ne citiamo due:

We need to reward researchers (in national and local assessments of their work) who publish the data they generate and who use existing datasets in new research or for re-analysis.

We need to require researchers, as part of applications for funding, to explore whether existing datasets could be used to answer their research questions. Funding for collection of new data should only be given where there is a sound argument that no existing data can be used.

Il quarto articolo è scritto da David Doherty (CEO del National Center for Universities and Business) e si intitola: Does business struggle with the concept of open access? Delinea il rapporto fra aziende e università, fra business e open science.

The challenge of openness is that, paradoxically, it implies something closed. Unity leads to the exclusion of those unwilling to subscribe to the new rules and we must battle to overcome exclusion.

For 20 years or more, universities have been clambering down from ivory towers to look for partners. It is absolutely imperative now that businesses join them on the plain, whether in orderly markets or disorderly bazaars, to share knowledge, information, ideas and intellectual property.

Il quinto articolo è di Tony Hey (chief data scientist presso UK’s Science and Technology Facilities Council) e si intitola: Our ‘painfully slow’ progress towards the goal of open science. L’articolo confronta le politiche sull’open access di US e UK e i risultati che ne derivano.

The increasing importance of data and the need for more complex data analytical methods, along with the well-publicised problems in research reproducibility in certain fields, has led to a growing movement for “open science”

Typically, the full text of a research paper will contain only a subset of the data used to derive the results, and may not specify precisely what software has been used for the analysis or for the simulation. The open science movement seeks to make science more reproducible by adding explicit links in the paper to the full datasets and to any software used.

L’open science favorisce dunque la riproducibilità delle ricerche e punto di partenza per la sua realizzazione è l’open access alle pubblicazioni scientifiche e ai dati.

In particolare il green open access si è affermato in UK perché per poter essere presentati per il REF 2021 le pubblicazioni devono essere disponibili open access in un archivio istituzionale (l’analogo UK dei nostri IRIS) o disciplinare. La stessa cosa non è avvenuta in US dove questo legame con la valutazione non c’è.

In entrambi i Paesi  (UK e US) sono in atto politiche di sostegno per l’open science, tuttavia il sistema sembra muoversi in maniera eccessivamente lenta. Mentre

Given the environmental and medical challenges facing the world, open science is needed as a matter of urgency.

Il sesto articolo è di Jo Jonson (Ministro dell’università e della scienza): Research in the age of open science

Open science is a celebration of what is best in the scientific community: collaboration, internationalism and a desire for the furthering of human knowledge, and our endeavours at present are focused on three crucial areas: open access to research publications, open research data and open metrics.

La Gran Bretagna è stato uno dei primi Paesi a rendere obbligatorio l’open access per le pubblicazioni finanziate con fondi pubblici. Questa politica sarà ulteriormente portata avanti dal nuovo ente finanziatore della ricerca UKRI che raccoglierà, a partire da aprile 2018, i 9 principali enti finanziatori della ricerca della Gran Bretagna.

Le politiche di obbligo di pubblicazione ad accesso aperto non riguardano solo le pubblicazioni scientifiche, ma anche i dati della ricerca

Research data archives have been an important part of the UK research infrastructure for more than 50 years and in recent years they have been digitised, making it easier to discover, mine and interrogate datasets.

in un contesto in cui, come sosteneva Neelie Kroes Data is the new gold

Anche lo sviluppo di nuove metriche per la valutazione, soprattutto di metriche aperte e ‘responsabili’ sembra essere un punto fondamentale nella agenda del Ministro.

Jonson ricorda anche come la Gran Bretagna sia parte attiva della Europen Open science Cloud e intelligentemente sottolinea come

This commitment to open science is based upon the benefits that it can bring to publicly funded science in the UK.

Leggendo questa serie di articoli di personaggi chiave nelle politiche della ricerca in Gran Bretagna viene naturale fare un confronto con ciò che (non) avviene nel nostro Paese, non solo a livello del Ministero, dove l’open science è un concetto sconosciuto e di difficile declinazione, ma anche a livello dei mezzi di informazione dove non si riesce ad andare oltre alla equazione open access=scienza predatoria o comunque scienza di cattiva qualità.

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4 Commenti

  1. Credo che le stesse argomentazioni si possano applicare alle “Humanities”. Da qui l’importanza, che ritengono notevolissima, di siti come academia.edu e altri. La “open science” e le “open humanities” stanno davvero rivoluzionando, almeno così mi pare, il mondo del sapere.
    Con cordialità,
    Paolo Bernardini

    • Academia.edu, però, ha che vedere con la scienza aperta molto più per chi vi deposita i suoi testi in buona fede e a suo rischio per quanto concerne il copyright, la conservazione a lungo termine e l’uso dei suoi dati, che per l’azienda privata che spera di trarne lucro, vendendo metadati (chiusi). Segnalo un articolo recente, scritto da due bibliotecari californiani proprio allo scopo di illustrare ai docenti del loro ateneo la differenza fra Academia.edu e Researchgate, da una parte, e un archivio ad accesso aperto – quale Zenodo.org
      – dall’altra.

      Proprio la presenza di iniziative private che lucrano sul nostro bisogno di condivisione e connessione può, peraltro, essere vista come un sintomo di una carenza del pubblico, di grado diverso – come è scritto nell’articolo – a seconda dei paesi.

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