A fine agosto Carlo Rovelli – un fisico tra i più brillanti e di successo – ha in un suo articolo raccontato che per rispondere in una conferenza alla domanda “Serve la filosofia alla scienza?” e ribattere a chi riteneva che essa fosse del tutto inutile, come Hawking e Weinberg, ha «cominciato a studiare». Si è così imbattuto in chi il tema lo aveva già svolto: Aristotele, che nella sua opera giovanile, il Protrepticus (andata perduta e ricostruita in base alle testimonianze esistenti), portava argomenti sull’utilità della filosofia per la scienza ancora attuali, sicché – con onestà e modestia di cui bisogna dargli atto – Rovelli conclude che «Per la mia conferenza, bastava copiarli e aggiornarli un po’».
Non entriamo nel merito delle pur apprezzabili tesi sostenute da Rovelli. Quel che ci preme qui mettere in luce è il fatto che Aristotele è vissuto nel IV secolo avanti Cristo. Appartiene cioè alla categoria dei “classici”. Un filosofo dunque, un “classico”, che 2400 anni fa ha elaborato gli argomenti che hanno permesso a un fisico del XXI secolo di rispondere adeguatamente ad altri fisici dello stesso secolo. Non si fosse Rovelli imbattuto in Aristotele, si sarebbe sicuramente “arrovellato” (sit venia verbo!) nel cercare argomenti e idee per sostenere l’utilità della filosofia e controbattere le tesi di chi invece la criticava. Ma un filosofo di 2400 anni fa gli ha fornito una traccia, dei concetti, su cui ha poi lui stesso costruito, elaborando altre idee, andando avanti su quella base e quindi evitando di fare lavoro inutile, magari per arrivare a scoprire l’acqua calda col ripetere, senza averne consapevolezza, tesi già note, beandosi della convinzione di averle escogitate lui per primo e quindi adagiandosi sui propri allori.
Questo episodio non è che una piccola, ma significativa conferma, di quanto sostiene Nuccio Ordine nel suo ultimo libro, Classici per la vita. Una piccola biblioteca ideale (La nave di Teseo, Milano 2016). Nato come raccolta dei brani di classici pubblicati e commentati su “Sette”, il settimanale del “Corriere della Sera”, è arricchito da un’ampia introduzione in cui si sottolinea l’importanza dei classici e si svolgono anche delle amare ma giuste considerazioni su quanto sta avvenendo da un po’ d’anni nella scuola e nell’università. La scelta dei testi serve innanzi tutto a dimostrare quanto esemplificato dall’episodio prima narrato, e cioè «come i classici possano rispondere ancora oggi alle nostre domande e rivelarsi un prezioso strumento di conoscenza» (p. 19).
Il classico non è dunque un inutile fardello, un volume sdrucito da riporre in qualche polverosa scaffalatura, ma uno strumento del pensiero: è “classico” non perché antico o vetusto; non deve il suo valore solo al fatto di essere una testimonianza del passato, ma perché ha rappresentato un momento fondamentale dello sviluppo del pensiero e della cultura umana, un luogo in cui si sono addensati, in modo efficace ed esemplare, i pensieri di un’epoca, l’esperienza dell’umanità sino allora vissuta, ma anche l’originalità di chi ha dissentito, di chi si è dimostrato ‘eretico’ e così annunciato le future eresie e la futura civiltà. I classici sono tali perché stanno sul discrimine: assorbono gli umori del tempo, senza i quali non potrebbero nemmeno essere concepiti, e guardano al di là del loro tempo, come chi sta sul crinale di una montagna e da una parte vede la terra che ha lasciato, dall’altra il paesaggio che potrà percorrere, ancora nebbioso, ma affascinante e suggestivo. Questo viene indicato ai contemporanei, che non sono solo quelli dell’epoca in cui l’autore è vissuto, ma tutti coloro che lo leggono, perché il classico è tale in quanto è in grado di parlare ad ogni uomo di ogni tempo. Ancora oggi andiamo tutti – e vengono i turisti di tutto il mondo – a vedere ed ammirare le rappresentazioni classiche delle tragedie di Euripide, Sofocle, Eschilo, messe in scena nel magnifico teatro greco di Siracusa. Cosa ci dicono queste tragedie? Sono forse inutili per chi va ad ascoltarle? A cosa è dovuto il loro fascino? Anche esse sono dei classici e rappresentano passioni, sentimenti, idee che ancora oggi coinvolgono gli uomini, pur esprimendosi in un linguaggio diverso, rivestite da leggende e miti ormai non più creduti, pur appartenendo a una storia giudicata lontana e spesso misconosciuta dagli stessi spettatori.
Solo gli stupidi o gli incolti non si rendono conto di ciò; solo chi non li ha mai letti, ritiene che siano del tutto inutili, così come solo chi non ha mai letto un libro di filosofia pensa – come gli scienziati criticati da Rovelli, ispirato da Aristotele – che essa sia un vano sproloquio. Come ha anche recentemente ricordato Massimo Cacciari, «non ho mai conosciuto nessun grande medico, nessun grande fisico, nessun grande ingegnere che non avesse coscienza critica, cioè che non fosse appassionato di quei testi su cui soli ci si forma una coscienza critica. Nei classici noi ascoltiamo la voce di persone che hanno sconquassato il pregiudizio ed hanno messo a soqquadro ogni coscienza prestabilita. E se la scuola vi fa leggere i classici come un catechismo dovete ribellarvi. La ricchezza di questi studi sono le domande, i dubbi, le angosce, che hanno mosso tutti i grandi pensatori». Ed è ben giustificata la sua angoscia all’idea dell’eliminazione del percorso di studi classici, così come lascia temere la crisi delle iscrizioni al liceo classico, che tanto dibattito ha recentemente suscitato e che ha visto numerosi interventi in sua difesa. Ma questo è un tema che richiede un discorso a parte, in quanto il problema della lettura dei classici non è una questione che si possa limitare al solo liceo classico, ma riguarda la scuola in generale, e persino l’università. E qui vengono a proposito le accorate e sferzanti pagine di Nuccio Ordine, che punta il dito sulle condizioni in cui si è ridotto l’insegnamento scolastico e l’esigenza da lui fortemente sentita di «ricondurre la scuola e l’università alla loro funzione essenziale: non quella di sfornare diplomati e laureati, ma quella di formare cittadini liberi, colti, capaci di ragionare criticamente e autonomamente» (p. 17).
E invece proprio questo obiettivo è stato dimenticato negli ultimi anni, con le disastrose riforme che hanno interessato tutto il comparto educativo, governate dall’ossessione dello studio produttivo, utile, capace di rispondere alle esigenze del mercato del lavoro, invitanti a una specializzazione precoce, implementando l’alternanza “scuola-lavoro” (così come prevede la “buona scuola”), creando curricula universitari professionalizzanti, sempre più specialistici, e quindi tagliando tutte le discipline inutili, in primo luogo quelle umanistiche. Che posto potrebbero avere i classici in questo desolante panorama? L’attuale sistema educativo sembra che non abbia più interesse alla formazione dell’uomo, ma solo del produttore, dell’operaio, del tecnico, del professionista, dell’esperto. La personalità umana nella sua integralità scompare dietro le categorie economicistiche, dietro la professione che ciascuno deve occupare, l’utilità che bisogna assicurare alla società. È la medesima logica manageriale che invade anche l’ambito dei beni culturali, che sono ormai considerati come il “petrolio” e vengono definiti “giacimenti”, per cui sono ritenuti inutili se non generano soldi. Ma, osserva Ordine, «Comparare i beni culturali al “petrolio”, o valutare una mostra in base alla quantità di biglietti staccati, significa perdere di vista il valore in sé della bellezza e la funzione civile che l’arte può avere nel formare l’identità e la crescita umana e culturale del popolo» (p. 38). Non posso dimenticare la prima volta che sono andato a Roma, ancora studente liceale: mi venivano le lagrime agli occhi nel vedere “in carne ed ossa” i monumenti e le opere d’arte che avevo studiato nel manuale liceale, in cui a stento vi erano le foto in bianco a nero; ma ora nel vederle dal vivo, tutte le nozioni apprese diventavano viva realtà, assumevano un significato diverso e capivo veramente quello che avevo studiato; comprendevo anche il valore di quanto appreso e il senso di quelle lezioni di storia dell’arte, difficili e “terribili”, impartitemi dalla severa ma preparatissima insegnante del liceo, che sono rimaste per sempre un mio patrimonio culturale, che hanno formato la mia sensibilità. Ma se la scuola si disinteressa a dare questa preparazione (si era addirittura paventata la minaccia, qualche tempo fa, di ridurre le ore di storia dell’arte, in un paese come l’Italia che ne possiede più di tutti al mondo!), allora non ci dobbiamo meravigliare che possano un giorno anche da noi formarsi bande di ignoranti e violenti che a colpi di martello pneumatico abbattono impagabili e preziosi templi e monumenti, come è avvenuto a Palmira in Siria e in altre parti del mondo.
È questo il sistema educativo che anche nel vocabolario ha sposato l’ideologia del più bieco aziendalismo: il preside che diventa “dirigente”, gli studenti che non devono acquisire conoscenze ma “crediti” (o subire “debiti”), non sapere ma “competenze”, i frutti del lavoro scientifico che diventano “prodotti” e così via. Come non ricordare la scuola delle tre “i” proposta da Berlusconi: inglese, internet, impresa? Sembra che per questo aspetto non vi sia stata soluzione di continuità nel tentativo di orientare le scelte educative in base al “mercato”. Ma, avverte Ordine, «Inseguire la chimera del mercato, però, è puramente illusorio. […] La velocità delle mutazioni che investono oggi il complesso meccanismo degli scambi economici è talmente elevata che sarebbe impossibile adeguare, con altrettanta rapidità, i curricula scolastici. La formazione ha bisogno di tempi lunghi. Orientarla esclusivamente sulle presunte offerte del mondo del lavoro potrebbe rivelarsi una sfida perduta in partenza» (p. 22). Non solo, ma si dimentica che le aziende più dinamiche e creative non hanno bisogno di automi specializzati, bensì di gente creativa, dalla mentalità flessibile, capace di adattarsi ai vari ruoli, che rapidamente cambiano e non sono prevedibili con molto anticipo. È loro cura, infatti, assumere le persone più preparate e quindi formarle in modo specialistico all’interno dell’azienda. Ma in Italia, aziende ormai in decrescita tecnologica e una classe imprenditoriale incapace e impreparata (tra le più ignoranti dei paesi sviluppati) mirano a scaricare sulla scuola e sull’università le spese che dovrebbero sostenere in proprio, per la preparazione del proprio personale, nella illusione che gli venga fornito così un prodotto finito pronto all’impiego. E si pensa che la disoccupazione giovanile sia dovuta al fatto che i giovani non siano preparati per il mercato del lavoro, non nel fatto che la produzione industriale sia stagnante e l’economia non cresce. Perché, così come è accaduto in passato e accade negli altri paesi, un’economia dinamica in crescita assume comunque il personale di cui ha bisogno e affronta le spese per la sua preparazione sul campo.
Ma qui emergono alcuni aspetti della recente cultura di governo, che è anche il riflesso dello spirito dell’epoca. La formazione che “ha bisogno di tempi lunghi”, come auspicato da Ordine, è quella che vuole «educare i giovani al rispetto della giustizia, alla solidarietà umana, alla tolleranza, al disprezzo della corruzione, alla democrazia con l’obiettivo di migliorare anche la crescita economica e civile del paese» (p. 48). È quel tipo di educazione e di conoscenze che – come ammonisce Einstein – è tutto ciò che rimane all’uomo adulto dopo che si è dimenticato tutto quanto ha appreso da studente. Studiare Platone, Aristotele, Spinoza o Kant non serve solo (ma può anche servire, come dimostra Rovelli!) a ricordarne e riutilizzarne gli argomenti, ma soprattutto a creare un abito di rigore nel ragionamento, nell’abituare la mente a esplorare ipotesi diverse, a non abbandonarsi alla falsa naturalezza delle opinioni e delle culture, assunte come eterne e immutabili. E allo stesso modo, dimostrare i teoremi della geometria euclidea o quelli di analisi, non serve perché domani saranno utilizzati nella professione o perché poi saranno ricordati all’università: qui si ricomincia ex novo e nella vita adulta è oro che cola se ancora si riescono a fare le divisioni con la virgola. No, tutto ciò serve perché dimostrando si impara a dimostrare e si apprende in modo naturale e osmotico a svolgere un argomento deduttivo e a riconoscere quando un ragionamento è corretto o meno. Come sosteneva Galileo, «Il sonar l’organo non s’impara da quelli che sanno far organi, ma da chi gli sa sonare; la poesia s’impara dalla continua lettura de’ poeti; il dipignere s’apprende col continuo disegnare e dipignere; il dimostrare, dalla lettura dei libri pieni di dimostrazioni, che sono i matematici soli, e non i logici». Non quindi arie e discorsi astratti sulla logica, del tutto inutili se non associati alla logica concreta, incarnata nei ragionamenti reali, quelli fatti dai matematici e dai filosofi innanzi tutto. È così che si edifica un “abito mentale” che poi si applicherà sempre nella vita, anche quando si ragiona di politica. Sicché è inutile, come alcuni vanno predicando, fare più matematica nel senso di estendere il programma con nuove nozioni; è importante invece fare buona matematica, far ragionare con la matematica i ragazzi, così come lo si deve fare con la filosofia. E così come lo stesso deve avvenire con i classici.
Ma i classici hanno anche una funzione ulteriore. Così come da un computer e dal suo software non si ricava nulla se non vi si immettono dei dati, delle informazioni, così anche la mente logicamente più istruita e formata a nulla di originale giunge se in essa non sono immessi dei dati, che in questo caso sono idee, conoscenze, esperienze: quelle che hanno avuto gli altri uomini e che sono state depositate in monumenti materiali e cartacei, conservati in biblioteche e siti archeologici. Il più bravo dei matematici finirà per ragionare a vuoto – o esprimere banali opinioni tratte dai luoghi comuni dell’ambiente in cui vive – quando va al di là del proprio campo specialistico, se non si nutre di idee, così come ha avuto l’umiltà di fare Rovelli. Se insomma non si impregna di tutta quell’esperienza umana che è consegnata nei classici e nella cultura in genere, in quella umanistica in particolare. Ma per far ciò deve avere l’umiltà di riconoscere che anche in letteratura, in filosofia o nell’arte v’è un rigore, un metodo di studio, una tradizione, uno specialismo che bisogna riconoscere, conoscere e rispettare; che non si può ignorare senza poi pagare pegno; bisogna avere l’umiltà, appunto, di mettersi a studiare, leggere, informarsi e quindi lasciarsi saturare dell’umanità e dei suoi pensieri, passati e presenti. Solo in tal modo si potrà avere quel cittadino auspicato da Ordine, qualunque sia il suo campo di interesse. Ma ciò può avvenire solo nel corso del processo educativo, alla scuola come all’università. Dopo risulta per i più troppo tardi.
Ma appunto qui sta il problema. Chi attualmente dirige i nostri destini e la classe politica attuale sono interessati a tale tipo d’uomo? O piuttosto non fa loro comodo lo specialista cieco, che nulla sa di umanità e di idee, buono solo ad esercitare le proprie competenze per i limitati fini produttivistici e mercantili ritenuti utili all’economia e al totem “mercato”? A fornirli di idee ci pensa chi di dovere, con la televisione e gli strumenti di comunicazione di massa, con i giornali asserviti alla (in)cultura dominante. Così bastano pochi a pensare per tutti; il resto dell’umanità, come i bovini negli allevamenti stabulari, si limita a consumare e ruminare quanto gli viene passato dal fattore. Per costoro, vale l’analogo dell’allevamento in batteria: le batterie di test a risposta predefinita. Essi hanno ormai esondato il limite oltre il quale da strumenti utili, diventano utensili di distorsione e adulterazione della vera conoscenza e formazione. È quanto accade con gli attuali sistemi di valutazione, ad es. quelli utilizzati dall’INVALSI per le scuole, che – ci avverte Ordine – non tengono conto di fondamentali parametri: «Se in una scuola del Veneto un professore riesce a far capire ai suoi studenti che offendere un immigrato o un ministro della Repubblica per il colore della sua pelle è una gravissima manifestazione di razzismo e di ignoranza, se un professore in una scuola della Calabria o della Sicilia riesce a far capire ai suoi studenti che non può essere considerato un “uomo d’onore” il mafioso che spaccia cocaina o che estorce soldi (“pizzo”) ai commercianti […]: ebbene questi importanti risultati non trovano posto nei questionari INVALSI […].» (pp. 42-3). Ma la società d’oggi ha bisogno di cittadini critici, consapevoli, capaci di pensare con la propria testa? Oppure gli sono funzionali uomini che, come i cani pavloviani, sono pronti a sbavare al primo demagogo che sventola le bandiere dell’immigrazione, del diverso, del terrorista? Qui il pessimismo della ragione sembra contrastare con i buoni propositi e le giuste ricette suggerite da Ordine.
Ma tutto quanto detto ha un suo perno, intorno a cui ruota e senza il quale ogni tipo di educazione sarebbe un frullatore impazzito di novità e didattichese: la centralità del docente e dell’insegnante. In proposito viene riportato da Ordine un episodio della vita di Albert Camus, la lettera da lui scritta quando ha conseguito il Nobel al suo insegnante di scuola media, Louis Germain: «senza il suo insegnamento e il suo esempio – scrive lo scrittore – non ci sarebbe stato nulla di tutto questo. […] i suoi sforzi, il suo lavoro e la sua generosità che lei ci metteva sono sempre vivi in uno dei suoi scolaretti che, nonostante l’età, non ha cessato di essere il suo riconoscente allievo» (p. 24). Senza questo suo insegnante, senza «quella mano affettuosa» tesa a «quel bambino povero che io ero», forse non avremmo avuto il Camus che abbiamo letto e apprezzato. Un insegnante, uno studio, una passione, possono cambiare la vita, possono far crescere, maturare diventare addirittura “migliori” – obiettivo questo scomparso dagli orizzonti didattici degli attuali obiettivi formativi. Ma ci vogliono a tale scopo insegnanti preparati, motivati, appassionati della propria materia, che impieghino il loro tempo anche loro a studiare, preparare le proprie lezioni, leggere ed apprendere; perché «La buona scuola la fanno principalmente i buoni professori» (p. 28). Bisognerebbe, allora che tali insegnanti vengano adeguatamente preparati dalle università e che alla scuola vada a insegnare chi è veramente competente nella materia non, come accade oggi, anche chi ha studiato in corsi di laurea che hanno poco a che fare con la disciplina che poi professano a scuola, solo perché ha dato di essa qualche corso, spesso superficiale e poco approfondito. E ciò solo perché bisogna “utilizzare” il personale esistente e risparmiare sui costi.
Ma non si risparmia invece quando si tratta di investire sulle tecnologie digitali: «mentre in Italia le scuole pubbliche cadono a pezzi e si spendono somme irrisorie per formare ottimi insegnanti […], un miliardo di euro viene stanziato per la cosiddetta “scuola digitale”. Ma è vero che gli studenti imparano meglio e di più avvalendosi di risorse multimediali e di materiale didattico online?» (p. 28). Il dubbio è lecito e fondato, non solo per gli esempi riportati da Ordine, ma anche in base a quanto recentemente avvenuto in Francia, dove – ci informa un articolo su La Stampa dell’8 settembre scorso – monta il fronte del no alla scuola digitale e si mette in guardia contro l’utopia “tecnologico-pedagogica” del governo Hollande, varata nel 2014 col “Piano per il digitale nella scuola”. In un recente libro scritto da un insegnante e un ingegnere (Karine Mauvilly e Philippe Bihouix, Le Désastre de l’école numérique. Plaidoyer pour une école sans écrans, Seuil) si descrive il “disastro” della scuola digitale, in quanto queste nuove tecnologie «rendono difficile la concentrazione, diminuiscono la capacità di riflessione e di calcolo, non stimolano la creatività».
A tale infatuazione per il digitale – che un effetto sicuro lo ha, quello di arricchire industrie e venditori – fa da pendant l’idea che per fare dei buoni insegnanti non siano necessari tanto i contenuti disciplinari, ma «basta lo studio della didattica che, negli ultimi decenni, ha assunto una centralità sproporzionata: con buona pace delle pedagogie imperanti, la conoscenza della disciplina viene prima ed è condizione essenziale. Se non si è padroni di quella specifica letteratura, nessun manuale che insegni a insegnare aiuterà a preparare una buona lezione» (pp. 21-2). E così il cosiddetto TFA, cioè il tirocinio che viene effettuato dopo la laurea per preparare gli insegnanti, è centrato esclusivamente su discipline didattiche e viene trascurato qualsiasi approfondimento disciplinare, anche per coloro i quali, per la specifica classe di concorso a cui vengono preparati, hanno “acquisito” nel corso degli studi universitari appena 24 “crediti”.
Quando detto per la scuola è evidentemente anche valido per l’università: il docente è sempre più distratto dai suoi principali obiettivi – ricerca e didattica – dalle sempre più pressanti esigenze burocratiche a cui è sottoposto. Ormai gran parte dell’attività di un docente universitario è dedicata a riunioni e compilazioni di moduli, schede, report, sillabi e via dicendo, che nulla cambiano perché restano delle mere esercitazioni cartacee, il cui adempimento è spesso inutile e privo di senso. «L’insensata moltiplicazione di riunioni e di relazioni – destinate a illustrare nel dettaglio programmazioni, obiettivi, progetti, percorsi, laboratori – ha finito per assorbire gran parte delle energie dei docenti, trasformando una legittima esigenza organizzativa in una dannosa superfetazione di controlli amministrativi. Si è dichiarato guerra alla burocrazia, ma la semplificazione tanto auspicata non riguarda, purtroppo, le scuole e le università». (p. 41)
Il richiamo ai classici, dunque, non è altro che un modo per continuare, con diverse armi, quanto prima sostenuto in un precedente fortunato libro, L’utilità dell’inutile, da me già discusso, e che ha visto numerose edizioni, più di 30 traduzioni in lingua estera e uno straordinario successo, testimoniando che v’è un pubblico, vi sono lettori, v’è una società civile che ancora intende e capisce il valore dell’educazione umanistica e rifiuta la stortura aziendalistica. Che resiste a quanto sta avvenendo nell’educazione, in Italia ma anche nel mondo, perché ovunque domina ormai quasi un pensiero unico; e in questa resistenza c’è l’unica speranza di una futura inversione di tendenza. Ed è triste che tutto ciò avvenga proprio in Europa, cioè nella patria e nel luogo di origine della cultura occidentale: il destino riservato alla Grecia ne è un malinconico simbolo. Come l’Europa può difendere la propria identità culturale se non coltivandola nelle scuole, facendone il perno del proprio sistema educativo?
Occorrerebbe una nuova politica della formazione, una “buona paideia” che possa correggere e superare sia la “buona scuola”, come anche la “cattiva università”, nella quale oggi ci troviamo a vivere per effetto delle riforme “epocali” in passato subite.
Definire Carlo Rovelli, 60 anni compiuti, “un giovane fisico tra i più brillanti e di successo..” qualifica l’estensore dell’articolo. E poi ci chiediamo perche’ i giovani fuggano dall’Italia?
Non avevo visto la sua carta di identità e dalle foto mi sembrava molto più giovane. In ogni caso resta uno dei fisici più brillanti e di successo, anche se non giovane come avevo creduto (benché mi capita spesso di considerare giovani gli altri colleghi, rispetto alla mia età). Ho però corretto, per sua soddisfazione. Ma, in ogni caso – me lo lasci dire – ritenere che un dato anagrafico possa qualificare l’estensore dell’articolo, senza considerare gli argomenti in esso contenuti, mi pare che qualifichi adeguatamente l’estensore del commento.
siamo pari. Penso che quando si scrive bisogna essere accurati. Deve essere la deformazione professionale.
Se proprio vogliamo dirla tutta, Rovelli è più famoso presso il grande pubblico per la divulgazione, che non presso la comunità scientifica per il contributo dato alla fisica teorica, in verità abbastanza minimale.
Secondo google scholar Carlo Rovelli ha: Citazioni 20166 Indice H 70 ed i10-index 196.
Slan, ma che dici? Controlla pure tu prima di affermare la qualunque https://scholar.google.it/citations?user=1Pf4OmIAAAAJ&hl=it
Ho solo scorso velocemente l’articolo, che comunque mi è parso appropriato in un’epoca in cui i filistei si sono pesantemente infiltrati anche nelle università…
Tuttavia, visto che va di moda commentare senza entrare nel merito di quello che si commenta, non mi trattengo: solo io inizio a provare un leggero fastidio a leggere post tanto più sentenziosi quanto più anonimo è il nickname?
Forse è un buon segno che tanti commenti “alla buona” vengano da anonimi. In un certo modo denota una confusa ma emergente consapevolezza che non è il caso di mettere la faccia su quello che scrivono. Un primo impercettibile segnale di una possibile evoluzione verso una qualche forma di raziocinio.
1) il mio commento a proposito dell’imprecisione sull’eta’ di Carlo Rovelli era relativo all’articolo che cominciava con un errore grave (e non e’ un buon inizio). non voleva mettere in discussione niente altro.
Ringrazio l’estensore per aver corretto.
2) nessun problema a metterci il nome (Giorgio Chiarelli). come ho scritto ammetto che il difetto dei fisici di essere un po’ precisini fino a diventare pignoli e’ diventata una seconda natura
3)ROARS dovrebbe decidere (questa e’ per De Nicolao): se vuole che i commenti siano firmati con nome e cognome basta chiederlo. Battute sul fatto che “anonimi” facciano commenti “alla buona” potrebbero suonare offensive. In ogni caso, nel passato, qualcuno mi ha risposto dandomi nome e cognome e quindi le battute (sapendo nome e cognome di chi scrive) sono fuori luogo
Ci sono anonimi i cui commenti sono tutt’altro che “alla buona”. Anzi, danno un contributo molto positivo alla discussione (come quello di giorgioch che ha precisato la svista sull’età di Rovelli). Tuttavia, è pure vero che una buona parte dei commenti inutilmente provocatori o che ripetono luoghi comuni o ritornelli da tempo “debunked” provengono da anonimi. Ovviamente, mi riferivo a questa ultima categoria. In questi cinque anni ne ho visti davvero tanti e, a fronte del tempo e della pazienza che mi hanno fatto consumare, mi sento pienamente autorizzato ad uno sfottò una tantum. Mi spiace solo che si senta chiamato in causa chi non c’entra: una precisazione documentata è stata e sarà sempre benvenuta.
Lo ammetto, lo ammetto: io invece mi riferivo anche al suo commento, in particolare per il tono che mi ha ispirato il termine “sentenzioso” :)
Mi permetta di farle notare: se per lei “alla buona” potrebbe essere “offensivo”, non crede che sia stato un po’ eccessivo valutare come “errore grave” l’aver usato con leggerezza l’aggettivo “giovane” e soprattutto adombrare che una simile svista possa addirittura fare scappare l’ennesimo cervello? ;)
De Nicolao, la sua affermazione £una buona parte dei commenti inutilmente provocatori o che ripetono luoghi comuni o ritornelli da tempo “debunked” provengono da anonimi£ non è sufficientemente suffragata da dati. :-)
:-)))
(sarebbe dura fare una conta precisa: sul blog ci sono 38.500 commenti)
…. mi delude può tranquillamente mettere su un modello statistico della quantificazione delle cazzate :-))) provi a immaginare che eco avrebbe una scoperta del genere a livello della stampa nazionale ed internazionale … Uno dei titoli sul corriere potrebbe essere: Gli universitari sparano più cazzate su ROARS che gli avventori del Bar dello Sport il lunedì dopo il derby
Per precisare ulteriormente. Io non trovo sia infamante ammettere di aver commesso un errore, specie se questo è inessenziale per l’argomento che si svolge (che importa, infatti, sapere che Rovelli sia giovane o anziano?). Ritengo che ciò faccia parte dell’etica della scienza, per quei pochi che ancora ci credono e non sono dediti alla falsificazione persino dei propri titoli per entrare nei parametri Anvur. Avrei potuto, in quanto amministratore del sito, semplicemente cassare il commento e correggere senza darlo a vedere l’errore, ma ho preferito non farlo, perché mi è parso giusto dare il riconoscimento a chi aveva fatto il commento ed eticamente corretto ammettere che di errore si trattava. Ma detto ciò, mi amareggia il fatto che la discussione si sia concentrata su un fatto irrilevante e non sui temi da me sollevati, che concernono scienziati, filosofi ed umanisti; e che addirittura si sia invocata la fuga dei cervelli, quasi io ne fossi una delle cause! Forse anche questo è un segno dei tempi che ci troviamo a vivere.
Tornando all’articolo, sottoscrivo tutto. Sono felice di aver appena acquistato l’altro libro (l’utilità dell’inutile) per mero interesse e senza conoscerne la recensione. Mi conforta sapere che sto per iniziare una buona lettura.
Ringrazio Francesco Coniglione per un testo che è assai più di una recensione. Si tratta infatti di una argomentata riflessione sul senso profondo della scuola, sul significato dell’essere docenti -di questo magnifico mestiere- su che cosa ci renda davvero ciò che siamo: la curiosità, la bellezza, il comprendere, lo scrivere, il creare.
La gratitudine di Camus verso il suo insegnante è lucida e commovente. Molti di noi hanno avuto la fortuna di incontrare docenti appassionati, competenti, colti. A loro dobbiamo moltissimo, alla scuola veramente ‘buona’, che coincide con le persone che in essa insegnano. Le riforme tecnocratiche messe in atto da diversi governi tentano di distruggere tutto questo.
Coniglione ricorda anche lo splendido teatro greco di Siracusa. Quest’anno ho seguito tutte e tre le tragedie che vi sono state rappresentate: Alcesti, Elettra, Fedra. Ne ho scritto qui – http://www.biuso.eu/category/teatro/ – cercando di restituire la perennità di questi classici, che sono davvero -come sostiene Nuccio Ordine- ‘per la vita’, per sempre, per il sempre umano.