“Qualunque cosa che accade, accade”. Specie se chi la subisce, la subisce.
Cosa si sperava sarebbe accaduto: un rifinanziamento dell’università, l’attivazione di politiche nazionali per il rafforzamento delle sedi e la mobilità dei docenti, modifiche orientate a migliorare il funzionamento degli atenei risolvendo i problemi emersi nell’attuazione di una riforma controversa ma molto pervasiva che ha coinvolto un sistema universitario poi brutalmente ridimensionato in termini di risorse (vale sempre la pena di richiamare i dati: dal 2008, meno 20% o più su tutte le voci (fondi, docenti, studenti, corsi). Le “cattedre Natta” (previste dalla legge finanziaria per il 2016, ai commi da 207 a 212) potevano essere un piccolo passo nella giusta direzione: rischiano di diventare un passo importante nella direzione opposta.
Cosa sta accadendo, infatti: un diverso disegno, che come una nave Vogon ci può apparire (sbagliando) non frutto di un progetto, che ricaviamo dal testo (recentemente diffuso dalla stampa, non ufficiale) del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri sulle c.d. “cattedre Natta” (d’ora in poi “cattedre governative”): cinquecento professori, tra associati ed ordinari, per aree ERC, con trattamento stipendiale di favore, possibilità di scelta della sede, selezionati sulla base di una procedura definita e gestita dal Governo e con commissioni di nomina governativa.
Questo schema di decreto, è a suo modo importante: sia per il tentativo, invero inusuale in questi termini nei sistemi democratici, di “presa” politica sull’università, sia perché ci costringe a confrontarci con l’accelerazione di un disegno che ormai da tempo si sta dispiegando, ma sin qui attraverso misure minime incrementali coerenti con il principio della rana bollita di Noam Chomsky.
Non ci troviamo, infatti, (solo) di fronte a quello che a prima vista più ci sconvolge: pranzo ben apparecchiato al ristorante, anzi meglio un “banchetto”, per cinquecento docenti di nomina governativa. Una partita importante, in grado di appagare esigenze diverse, con qualche ciliegina sulla torta da dare in pasto a una stampa che, pur con meritevoli eccezioni, si è prestata spesso a strumentalizzare le manchevolezze del sistema accademico mentre questo veniva impoverito ai limiti del sostenibile e oltre. Non ultimo dando un risalto davvero inusuale a dichiarazioni sulla “corruzione nelle università” rese in un convegno del Codau: colpisce, più che l’associazione corruzione-università che non è poi così strana per chi di mestiere fa il presidente dell’Anticorruzione (e che quindi inevitabilmente assocerà la questione corruzione ai diversi contesti in cui si troverà ad intervenire, che in Italia non sono, mai, esenti da qualche pecca), la copertura mediatica dei convegni della meritoria, ma poco nota se non agli addetti ai lavori, organizzazione che raccoglie i dirigenti amministrativi delle università.

Distratta da dinamiche di qualità, processi di valutazione ampi e pervasivi, procedure di abilitazione, dopo esserlo stata da disegni di riforma della governance, approvazione di statuti, costituzione di nuovi dipartimenti e scuole, fusione di percorsi di dottorato, l’Università italiana ha assistito, variamente consapevole, al prodursi di una trasformazione che è ancora solo parziale: frutto della carenza di risorse, ma al tempo stesso anestetizzato da questa carenza, il nuovo disegno è solo in parte rivelato nella stagione della “crisi”, ma pronto a dispiegarsi. Quello che va colto, infatti, è che nello scalare di taglia del sistema universitario avvenuto nell’ultimo decennio in termini che hanno rari esempi nello scenario internazionale se non in collegamento con eventi bellici, è innestato anche un disegno di trasformazione del sistema stesso: non solo più piccolo, ma diverso. Per il momento, però, è risultato prevalente l’effetto di ridimensionamento, anche a scapito di quello di trasformazione.
La trasformazione incide sui caratteri tradizionali, ma anche sui caratteri costituzionali della “cosa” università.
Un effetto di trasformazione che, si noti sin d’ora, va in coerenza con una serie di riforme dell’ultimo scorcio, che vanno ricomponendo “in alto e al centro” il sistema dei poteri, indebolendo sfere di competenza (come per le sovrintendenze) e percorsi di carriera riservati e “indifferenti” (pensiamo alla “buona scuola”), fidelizzando l’amministrazione alla politica (così ora con la riforma della dirigenza pubblica) e riducendo gli spazi di autonomia (delle regioni, degli enti locali). Effetto della crisi economica, della bulimia della politica, di un’esigenza di semplificazione, delle necessità di una democrazia decidente, del fallimento delle autonomie, di una perdita di senso del valore di sfere autonome e indipendenti rette da propri criteri distributivi… riflettere sulle ragioni di questo movimento al centro sarebbe complesso, basta ora cogliere la dinamica di ri-allineamento che attraversa il sistema pubblico.
Ma non divaghiamo.
Ritornando alla crisi e trasfigurazione del sistema universitario, la vicenda delle cattedre governative è rivelatrice, sin troppo, come avviene quando si perde attenzione ai dettagli e si vuole procedere con precipitazione: l’acqua è scaldata di qualche grado di troppo e la rana si accorge che qualcosa di strano le sta succedendo.
La questione, sulla quale riflettere un attimo, non è dunque la vicenda, pure in sé gravissima, delle cattedre di nomina governativa, della cui illegittimità, già solo per palese contrasto con una dozzina di principi costituzionali, confidiamo si avvedrà il Consiglio di Stato in sede di parere o, più tardi, in sede di giudizio amministrativo: le occasioni non mancheranno.
La questione è l’esigenza, che personalmente avverto, di leggere le cattedre governative dentro un’evoluzione più di lungo periodo, che per semplicità possiamo rimandare alla legge 240 del 2010 ma di cui invero si avvertono chiare tracce più risalenti. Un disegno però che, soprattutto, si sviluppa nel corso dell’attuazione anvuriana della legge e nella definizione di una strategia riformatrice autonoma che passa per i paradigmi della qualità-eccellenza in un disegno però spesso gerarchico ed autoreferenziale.
Chi, come me, abita in aree geografiche che non sono servite dall’alta velocità conosce bene queste dinamiche “di sviluppo”, che portano alla concentrazione delle residue risorse da dedicare ai servizi pubblici ai “servizi a valore aggiunto”, alla ricerca di un’eccellenza per pochi pagata da tutti, e l’arretramento dei servizi di rete tradizionale. Il modello “freccia rossa”, in sostanza, che spinge lo Stato a fare il lavoro dei privati a loro vantaggio, e a scapito del servizio pubblico: o meglio, ridefinendo i caratteri di un servizio pubblico che perde universalità, media qualità, produce maggiori disuguaglianze ma permette a specifiche aree/territori/soggetti di godere di maggiori opportunità. Il tutto dentro una dinamica di competizione anche tra territori. Ma perdonatemi la digressione, che però ha una sua utilità.

Torniamo alle cattedre governative ed esaminiamone i caratteri fondamentali, non espressi dal legislatore ma esplicitati nel testo del decreto:
1.    La ripartizione delle risorse avverrà per aree scientifiche (dice la legge), liberamente interpretate dal Governo come “settori ERC”: un criterio solo apparentemente oggettivo e “neutro” (peraltro già utilizzato ai fini dei finanziamenti Prin, con effetti noti per una serie di aree scientifiche: basti dire che l’area 12, scienze giuridiche, ha visto finanziati solo due (due!) progetti su trecento; in ogni caso, un criterio nato per finalità diverse dal reclutamento, volto a valorizzare proprio l’interdisciplinarietà delle linee di ricerca). E’ vero che la legge prevedeva la possibilità di dedicare particolarmente attenzione ad alcuni settori “strategici”, come politica nazionale di ricerca, appunto, ma qui si ottiene un risultato ancora più marcato senza voler assumere la responsabilità, politica, di discriminare / differenziare / favorire.
2.    Le commissioni verranno costituite sulla base di un meccanismo a cascata (“top down”) a partire dalla nomina governativa di esperti “stranieri”, di alto profilo anche se non necessariamente accademico. Segnalo che un alto profilo è richiesto anche per la (eccezionale) nomina governativa di alcuni consiglieri di Stato, e recenti vicende sono lì a dimostrarci che alcuni concetti si prestano a interpretazioni ex parte principis.
3.    I vincitori delle selezioni godranno di un trattamento economico privilegiato. Anche qui una segnalazione: già l’ordinamento ammette un trattamento differenziato, che andrebbe rimosso, tra docenti assunti post l. 240 e docenti ante, ma lì almeno c’era la possibilità di opzione (anche se ingannevole, visti i successivi blocchi stipendiali) e l’impegno “dovuto” è parzialmente diverso, almeno formalmente. Qui, invece, il docente ha un trattamento di favore che non discende da diverse condizioni di ricerca e insegnamento, e non è possibile per altri docenti (ad esempio, già in ruolo presso lo stesso ateneo) optarvi.
4.    I vincitori potranno individuare la sede dove entrare in ruolo come associati od ordinari, sia pure con alcuni limiti di concentrazioni e salvo il fatto che la chiamata sarà decisa anche dalle sedi (il che apparentemente, a sentire il Ministro, farebbe salva l’autonomia dei singoli atenei: ma qui, guardando all’intervento nel suo complesso, è dell’autonomia dell’università italiana che si discute).

4. La questione su cui mi pare il caso di riflettere è che, al di là delle singole specifiche previsioni, e quindi anche eliminando l’impresentabile nomina governativa, si intravedono i caratteri di fondo, e quindi l’effetto sistemico, che è anche la forza che la sospinge, di questa misura: sistemico perché foriero di accelerare dinamiche di trasformazione già in atto e di disvelarle.
Proverò a sintetizzarle:
1.    Il superamento di una struttura tradizionale, stratificata e composita, dell’università. Qui il disegno è da tempo in corso, ma con formidabili resistenze, e resilienze: resistenze che si annidavano nelle strutture tese a perpetrarsi e sopravvivere (le Facoltà), riformulate e indebolite con organici di ateneo ma comunque ancora in grado di rallentare il processo di ridisegno interno. Resilienze data dalla capacità dell’area delle scienze umane e sociali, e delle altre scienze “periferiche” nel disegno, di “reinventarsi” e trovare uno spazio, anche se forse sempre più piccolo, quanto meno in termini di attrattività didattica, nelle trasformazioni in corso.
2.    La connessa semplificazione/ricomposizione dell’università dei saperi, a scapito delle aree avvertite come meno funzionali ad una lettura schiacciata sull’economia delle dinamiche sociali: quindi con ridimensionamento dello spazio delle scienze sociali e umane, talora della ricerca pura, a vantaggio delle scienze applicate e della ricerca a più diretto impatto sulla competitività delle imprese. Processo che si riflette sulla “semplificazione” della complessità dei settori in macrosettori, ed ora in “settori ERC”.
3.    Il ridisegno della “mappa” delle università, con divaricazione delle università in atenei di didattica e atenei di ricerca, ma più propriamente in atenei “locali” (anche di grandi dimensioni, peraltro) e atenei “di eccellenza” (a volte piccoli, specializzati, eccellenti perché pre-definiti come tali e quindi finanziati in termini straordinari), che ricorda da vicino il modello-freccia-rossa cui facevo cenno. In una dinamica destinata ad aumentare in modo formidabile la competizione tra università, in uno scenario fatto di vincenti e perdenti.
4.    La crescente disattenzione al merito specifico, disciplinare e contenutistico, della produzione scientifica individuale, già manifestata nei processi a guida anvuriana, specie nei settori “bibliometrici”, dalla classificazione dei contenitori (le riviste) e attraverso queste dei contenuti. Ma soprattutto evidente ora nell’affidare a commissioni di ridotta composizione, ancorché “di alto profilo”, riconducibili a tre settori scientifico-disciplinari (quelli dei tre commissari), la valutazione di svariate decine di settori scientifici diversi. In una valutazione che dovrà basarsi quindi su criteri diversi: quantitativi o di massima “esterni” alla specifica innovatività e originalità scientifica, e se anche fosse nei limiti dalla sua apprezzabilità da parte di uno dei commissari (e, quindi, verosimilmente, del settore scientifico del commissario).

5. Ultima, ma non ultima, la penetrazione, interna ai diversi settori scientifici, di orientamenti maggioritari o comunque “vincenti” perché meglio in grado di trovare sponda nel centro, prima anvuriano (dove già questo modello della nomina “a cascata”, con il connesso effetto “mainstream”, si è talora manifestato, sia pure in termini meno brutali) ora governativo. Con l’ulteriore effetto di rendere l’accademia più conformista, meno critica, tanto più al crescere della presa “politica” sulle dinamiche di reclutamento.
Ne emerge, nel complesso, una formidabile rottura di quelle paratie stagne, viste a torto come meri contenitori dell’autoreferenzialità accademica ma in realtà in grado di proteggere l’autonomia e libertà della scienza, delle linee di ricerca e degli approcci scientifici (in un dato momento) minoritari, nuclei di specializzazione: cogliamolo nella dinamica data dall’impatto di cinquecento docenti (ordinari/associati), che in modo incrementale e periodico entreranno nei ruoli delle università.
In un sistema fermo, quasi “pietrificato” nelle posizioni di professore ordinario, in formidabile ridimensionamento (di risorse, di studenti, ma soprattutto per quello che qui interessa di docenti), nel quale mancano o sono quasi inesistenti le dinamiche di mobilità, la carenza cronica di risorse ha prodotto un rallentamento di dinamiche già innestate nel sistema, volte alla ricomposizione del sistema in un disegno più competitivo e allineato alle esigenze “esterne” al mondo accademico. Un rallentamento che è passato, però, per dinamiche declinanti e spesso localistiche, nelle quali il modello delle abilitazioni nazionali – chiamate locali ha dato una prova di sé non particolarmente brillante e nelle quali si è perso quella aspirazione a mobilità e merito che era, sia pure forse in termini prevalentemente enunciativi, dietro al nuovo sistema di reclutamento immaginato nel 2010.

Un po’ come ai blocchi di partenza, prima dell’avvio della gara, numerosi atenei, settori, aree scientifiche, docenti hanno immaginato di essere competitivi anche nel nuovo contesto, proprio perché ancora la gara doveva iniziare: eppure sono già chiari, e i dati sono lì a dimostrarlo, i costi maggiori pagati da alcuni atenei (specie del centro-sud), aree scientifiche, settori (meno in grado di intercettare risorse ed opportunità esterne) ai nuovi paradigmi. Ora che il sistema si rimette, malamente, in movimento, all’impoverimento localistico degli atenei (con effetti diversi legati in ultima istanza alla diversa capacità fiscale per abitante nelle regioni di riferimento) si sovrappone non una (auspicabile) politica nazionale di rilancio e riequilibrio, e recupero di qualità rispetto ai difetti del reclutamento locale, ma un acceleratore delle trasformazioni già in corso, se è vero (come pare oggettivamente presumibile) che i nuovi docenti saranno orientati a scegliere sedi maggiormente appetibili (per fondi, prestigio, collegamenti, opportunità esterne) rispetto a sedi “disagiate”, in declino o decentrate; se è vero che i docenti selezionati saranno riconducibili ad alcune aree scientifiche piuttosto che ad altre in un disegno che non riflette l’attuale composizione della docenza universitaria.
Altri meglio di me possono calcolare l’effetto divaricante, nel medio termine, di un simile “movimento” di docenza: il che può apparire anche (parzialmente) auspicabile se pensiamo alla attuale assenza di meccanismi di mobilità tra sedi. Qui, però, il percorso è unidirezionale, dalla periferia al “centro”, mentre proprio le sedi “periferiche” avrebbero bisogno di innesti esterni, di perdita di autoreferenzialità locale, e tutta l’università di maggiore circolazione di energie.
Pure nella consapevolezza di queste trasformazioni, il nuovo meccanismo, se ripensato (e ci sono spazi per farlo, dato che la previsione della legge è sin troppo ampia e indeterminata), avrebbe effetti in alcuni casi auspicabili, a partire dal fatto di contribuire a riavviare dinamiche di mobilità e di carriera slegate dalle (sole) dinamiche, reti e risorse, locali, delle singole università. E’ evidente, inoltre, che le sedi con docenti competitivi saranno maggiormente interessate a trattenere i propri docenti “migliori” se poste di fronte al rischio di perderli in una dinamica come quella di “cattedre del merito”: purché di merito si tratti. Il problema è che, sulla base della bozza di decreto, le cattedre governative non sembrano in grado di assicurare che la selezione avverrà sulla base di una valutazione di merito disciplinare: per la ridotta composizione delle commissioni, per l’irragionevole organizzazione secondo criteri estranei a quelli delle aree disciplinari (gli ERC: utili per finanziare progetti di ricerca di grandi dimensioni, meglio se interdisciplinari, meno per reclutare esperti nei diversi settori disciplinari), per la nomina governativa dei presidenti e a cascata dei membri.
Quest’ultimo è il punto più chiaramente controverso delle nuove cattedre, governative appunto: per come immaginato nel testo diffuso dagli organi di informazione, il decreto prevedrebbe una centralità politico-governativa nell’individuazione di tutti i presidenti delle venticinque commissioni, a loro volta in grado di scegliere gli altri (due per commissione) membri. Un modello nel quale tutti i membri, direttamente o indirettamente, sono riconducibili all’investitura operata dall’esecutivo: oltre alla presa governativa, si nota un’evidente effetto conformativo con la penetrazione in profondità degli orientamenti e settori scientifici “mainstream”, più in grado di farsi apprezzare a livello politico.
In questi termini, sarebbe un piccolo grande banchetto, una piccola-grande cooptazione, gestita dal Governo in un gioco di sponda: un banchetto alla fine dell’università come l’abbiamo conosciuta, con tutti i suoi pregi e i suoi difetti.

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7 Commenti

  1. Post decisamente troppo lungo e stilisticamente inadatto alla comunicazione in rete. Ciò premesso, siamo d’accordo su tutto in linea di massima. E allora? Il problema è sempre quello: Che fare? Lenin docet.
    In un paese narcotizzato, in cui la conflittualità sociale è finita o se appare viene scaricata sugli immigrati, la rappresentanza politica sostituita dall’autorappresentazione castale degli oligarchi, che fare? raccogliamo firme e petizioni su change.org? Come diceva il principe De Curtis, ‘ma mi faccia il piacere!’

    • Caro Anonimo (fra i tanti), ma davvero vale la pena di discettare dei canoni della comunicazione in rete? Troppo lungo? Non lo legga. Stilisticamente difficile: idem.
      La disabitudine alla comprensione dei testi sta facendo proseliti, ma io non vorrei difenderla. Sa, c’erano tempi in cui si parlava e si discuteva di cose molto più complesse. Ha presente Aristotele?

  2. @aristotele a differenza di lei trovo l’articolo ottimo. Certo la seconda parte è più complicata (si sente il giurista). L’impianto generale è veramente pertinente. Che fare dice lei giustamente. Beh una cosa da fare ad esempio è apprezzare lo sforzo della comunità quando firma lettere come quelle che lei sembra (se ho capito) dileggiare. Inoltre non fare le prime donne (malattia degli universitari di tutto il mondo da sempre) nel dire che le cose dette e fatte da altri si potevano fare meglio. Sono convinto che anche lei pensi che Renzi sia il nostro Erdogan. Erdogan epura: ha cominciato con i professori e con i rettori (oggi di sua nomina). Renzi soffoca (riducendo i finanziamenti) e sceglie (non riesco a trovare tra i suoi consulenti nominati professori che non siano della commerciale bocconi, della Luiss, o della lobby corriere sole24 confindustria). La ciligina sulla torta della cernita: cattedre Natta. La nostra (io firmo spesso anche quando non sono perfettamente d’accordo) lettera di protesta ha facilitato la presa di posizione del consiglio stato mi pare. Piacerebbe anche a me di suggerire come e cosa fare. Vorrei ad esempio (mi si permetta un piccolo desidererio) che ci fosse una sollevazione collettiva dei professori e ricercatori tutti, secondo i modelli dei vecchi scioperi giapponesi, una fascia gialla o di qualsiasi colore al braccio tutti i giorni come protesta civile a favore dell’università pubblica, inoltre (contiuo a sognare) ci mettiamo a disposizione delgi studenti di sabato, alla sera, perfino di domenica per aiutarli a studiare, laurearsi in tempo (quelli bravi ovviamente). Vedremo in tal modo se gli apparati burocratici che ci stanno soffocando di burocrazia entreranno in crisi almeno un po’. Già nel renderci disponibili non facciamo altro che testimoniare quello che facciamo di solito (lavorare di sera, di sabato e domenica) e nel contempo aiutare la parte più maltrattata di unipubblica la didattica. Forse i giornali di regime non continueranno in tal modo a coprirci di sterco. Gli scioperi (sospensione attività etc.) lasciamoli ai magistrati. Avanti tutta roars (uso questa espressione da ben prima del Bomba ;) )

  3. Sono lieto di aver stimolato la discussione. Mi dispiace solo di essere stato frainteso. @Banfi: non capisco perché lei mi schernisca; ho detto di essere d’accordo e di apprezzare l’articolo; lei è giovane, dovrebbe conoscere più di me le differenze comunicative fra un saggio scientifico e un post sul web; le analisi, come quelle puntuali di roars, sono ormai abbondanti e ottime; è la sintesi, a mio giudizio, che manca ancora; come diceva quel pensatore, che certo non le sarà gradito, i filosofi fino a ora hanno interpretato il mondo, adesso si tratta di cambiarlo. Naturalmente nemmeno io so come fare.
    @giufe: sono proprio d’accordo anche con lei, nonostante sembri non avermi capito del tutto; firmo anche tutte le petizioni e le lettere, ma mi pare che l’unico risultato immediato sia di incrementare lo spam nella mia casella di posta, oltre, va da sé, la censura dei colleghi collocati in posizioni di potere. Et de hoc satis.

    • @aristotele ok ci siamo intesi. Le auguro ogni bene. Continuiamo a credere nella e ad amare la nostra unipubblica. Capisco i miei sono termini un po’ stantii..ma è ciò che sento.
      avanti tutta roars

  4. ho trovato l’articolo utile. Certo, resta davvero da chiedersi con che criterio verranno scelti i commissari. Il governo mica «conosce» i docenti, dovrà chiedere a qualcuno. A chi? Chi sarà il certificatore del merito che poi di fatto gestirà tutta la selezione? In che modo, visto che non è previsto che i docenti di chiara fame facciano una esplicita domanda di partecipazione, il ministero arriverà a fare una scelta?
    Questo non mi è per nulla chiaro.
    Si può letteralmente pescare tra il tutto ed il niente. Il mio dubbio non è su chi sceglierà il governo, ma su chi sarà in grado di fare pressioni sul governo per farsi scegliere o fare scegliere altri.

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