L’idea che l’università pubblica italiana trasferisca risorse dai “poveri” ai “ricchi” sembra ormai essersi sedimentata nel dibattito pubblico come dato di fatto. Secondo tale idea, la fruizione dei servizi universitari da parte dei figli delle famiglie meno abbienti sarebbe così tanto inferiore rispetto a quella dei figli dei benestanti da costituire un trasferimento di fatto dalle prime verso le seconde. Questo perché l’università viene ampiamente finanziata, attraverso l’IRPEF, sia da chi la usa che da chi non la usa. Per fare un esempio estremo, se nessun “povero” fosse iscritto all’università mentre tutti i “ricchi” vi partecipassero, allora l’IRPEF pagata dalle famiglie dei primi per finanaziare l’università finirebbe interamente nelle tasche dei secondi, poiché sarebbero gli unici ad usufruire del servizio. Ipotizzando che questa stortura redistributiva sia effettivamente in atto, vengono proposte varie riforme del metodo di finanziamento dell’università pubblica. In particolare, viene suggerito di non finanziare più l’università attraverso la fiscalità generale ma attraverso le rette di iscrizione, permettendo così di non pagare tasse a chi non usa l’università. In questo articolo non si vuole discutere delle varie proposte di riforma in tal senso: qui ci si limita a valutare il presupposto su cui esse si fondano. È effettivamente vero che l’università pubblica italiana funziona come un “Robin Hood al contrario”, cioè trasferendo risorse dai “poveri” ai “ricchi”?[1]
Due effetti contrastanti: sottorappresentazione nella fruizione e progressività della tassazione.
Ipotizzando che il fondo di finanziamento ordinario (FFO) erogato dal Ministero agli atenei sia pagato interamente attraverso l’IRPEF, si può focalizzare meglio la questione attraverso la Figura 1.[2] Questa mostra due diverse “curve di Lorenz”, quella della fruizione e quella del finanziamento universitario.
Figura 1: Distribuzioni della quota di IRPEF totale pagata e della quota di universitari espressi, entrambe rispetto alla quota di popolazione italiana ordinata per reddito lordo del massimo percettore all’interno della famiglia (anno 2008). Fonte: Banca d’Italia.
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Da un lato, la curva grigia rappresenta la quota dell’IRPEF totale pagata da ciascuna quota di popolazione. Se essa giacesse sulla diagonale del quadrante (linea tratteggiata), il 10% più povero della popolazione pagherebbe il 10% dell’IRPEF totale, così come il 10% più ricco. Invece, la curva grigia si trova al di sotto della diagonale, ad indicare che i redditi più bassi pagano una percentuale dell’IRPEF totale inferiore a quella pagata dai redditi più alti. Questo primo meccanismo muove le risorse dai “ricchi” ai “poveri”. Alcune delle voci nel dibattito pubblico, ad esempio quelle di Francesca Coin e FrancescoSylos Labini, si sono limitate a mostrare questo primo effetto trascurando il secondo.
Dall’altro lato, infatti, la curva nera rappresenta la quota sul totale degli universitari espressa da ciascuna quota di popolazione. Se essa giacesse sulla diagonale del quadrante, il 10% più povero della popolazione esprimerebbe il 10% degli studenti universitari, così come il 10% più ricco. Invece la curva nera giace al di sotto della diagonale, ad indicare che le fasce di reddito più basse sono sottorappresentate tra gli studenti universitari. Questo secondo meccanismo riporta nelle tasche dei “ricchi” una parte delle tasse destinate all’università. Anche qui, alcuni commenti si sono limitati a mettere in luce questo secondo effetto trascurando il primo, come nel caso dell’articolo diAndreaMoro.
Figura 2: Saldo per i servizi universitari inerente ciascun decile della popolazione italiana ordinata rispetto al reddito lordo del massimo percettore all’interno della famiglia (anno 2008). Un saldo positivo indica che il decile in esame riceve risorse dagli altri decili della popolazione, e viceversa. Fonte: Banca d’Italia.
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Occorre invece valutare entrambi gli effetti. A seconda della loro forza relativa, l’università si troverà a redistribuire risorse dall’alto verso il basso o viceversa. Dunque quale di essi prevale? In Figura 2 si mostra il saldo per i servizi universitari relativo a ciascun decile della popolazione italiana ordinata per reddito. In questo bilancio, il costo per ciascuna fascia di reddito è dato dall’ammontare di FFO che essa paga attraverso l’IRPEF; invece il ricavo corrisponde alla parte di FFO di cui ciascuna fascia di reddito beneficia attraverso l’iscrizione dei figli all’università. Sottraendo i costi ai ricavi, si ottiene il saldo per i servizi universitari inerente ciascuna fascia di reddito.[3] Le nove fasce di reddito più basse sono in attivo: cioè godono di una parte dei servizi universitari superiore a quella che contribuiscono a finanziare. Al contrario, il 10% più ricco della popolazione è in passivo: cioè finanzia l’università in misura maggiore di quanto la utilizzi. Quindi, se l’università fosse finanziata interamente attraverso l’IRPEF, essa sposterebbe le risorse dai “ricchi” ai “poveri”, e non viceversa.[4]
La selezione in itinere
È possibile obiettare che il calcolo esposto sopra vada svolto non per i figli genericamente iscritti all’università, ma solo per quelli che riescono a conseguire la laurea. Infatti, solo questi ultimi beneficiano completamente dei servizi universitari, mentre chi abbandona il corso di studi ne beneficia necessariamente meno. Vista in un’altra prospettiva, è importante chiedersi se la selezione in itinere svolta dall’università sugli studenti cambi in maniera sostanziale il profilo redistributivo dell’università stessa. Per affrontare questo interrogativo è possibile adottare la stessa metodologia illustrata sopra, applicandola però ai laureati triennali che proseguono gli studi invece che ai generici iscritti all’università. La Figura 3 mostra i risultati di questa elaborazione riportando le nuove “curve di Lorenz” ed i saldi per i servizi universitari relativi alle diverse fasce di reddito.[5]
Figura 3: Profilo redistributivo dell’attuale metodo di finanziamento dell’università pubblica italiana rispetto ai laureati triennali che proseguono gli studi (anno 2008). Fonte: Banca d’Italia.
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Ne emerge una fotografia interessante. La selezione universitaria “colpisce” in maniera più accentuata quegli studenti provenienti da famiglie di classe medio-alta, mentre non incide altrettanto sulle altre fasce di reddito. Questo effetto può essere constatato confrontando la forma della curva nera in Figura 3(a) con la sua corrispettiva in Figura 1. Dal confronto si nota che le percentuali di rappresentazione variano molto di più per la fascia di popolazione inclusa tra il 65-95% dei redditi più alti. Questa fascia medio-alta è marcatamente meno rappresentata quando si considerano i figli laureati rispetto ai generici iscritti. Di conseguenza, anche il suo saldo corrispondente si riduce fino a divenire marcatamente negativo, come illustrato in Figura 3(b). Questo fatto può prestarsi a diverse interpretazioni sulle quali non desideriamo soffermarci ora; ma certamente esso costituisce un motivo di interesse della presente analisi. In ogni caso, anche quando si considerano i laureati invece che gli iscritti, resta qualitativamente valido il risultato secondo cui l’attuale sistema di finanziamento dell’università pubblica italiana trasferisce risorse dalle fasce più benestanti verso quelle meno abbienti.
Figura 4: Profilo di rappresentazione rispetto al reddito per i laureati triennali che proseguono gli studi disaggregati per macro-gruppi di facoltà (anno 2010). Fonte: Banca d’Italia.
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Differenze tra facoltà
Come varia questo ultimo risultato quando si passa dal considerare l’universita in aggregato al considerare le singole facoltà? Con i dati a nostra disposizione questa domanda non può essere affrontata completamente, poiché non abbiamo informazioni sui diversi costi di formazione associati alle diverse facoltà. Per esempio, è presumibile che le facoltà di ingegneria abbiano bisogno di infrastrutture molto più costose rispetto alle facoltà di filosofia, vedendosi quindi destinata una porzione maggiore dell’IRPEF. Purtroppo però i nostri dati non permettono di fare questo tipo di distinzione. Né consentono di analizzare il profilo redistributivo associato alle singole facoltà, poiché questo determinerebbe una dimensione campionaria troppo ridotta per essere affidabile. Tuttavia, è quanto meno possibile analizzare le “curve di Lorenz” associate a quattro diversi macro-gruppi di facoltà: quelle scientifico-ingegneristiche, le scienze sociali, le discipline umanistiche, ed un quarto gruppo residuale.[6] Questa operazione permette di verificare se vi siano differenze sostanziali tra i diversi macro-gruppi nel profilo di rappresentazione dei laureati rispetto al reddito, come illustrato in Figura 4.[7]
Per quanto limitato, questo esercizio dà alcuni risultati interessanti. Infatti, i diversi macro-gruppi mostrano dei profili di rappresentazione per fascia di reddito diversi tra loro. In particolare, le facoltà di scienze sociali risultano essere quelle in cui le fasce più povere sono meno rappresentate: lo si nota dal fatto che la curva a esse associata è la più lontana dalla linea di perfetta rappresentazione per il 50% più povero della popolazione. Sono invece le facoltà classificate come “Altro” che spingono maggiormente la popolazione dei laureati verso una distribuzione rappresentativa delle diverse fasce di reddito. Proprio per questa ragione sarebbe importante comprendere meglio cosa risieda effettivamente all’interno di questo macro-gruppo.
Limiti e conclusioni
Tutte le analisi inerenti gli effetti redistributivi dell’università pubblica in Italia condividono alcuni limiti intrinseci, e la nostra non fa eccezione. Alcuni di questi limiti contribuiscono a gonfiare il saldo delle fasce meno abbienti rispetto ai servizi universitari, mentre altri lo riducono. Nella prima categoria ricadono (i) l’assenza di una correzione dei dati per l’evasione fiscale e (ii) il trascurare che parte del FFO è raccolto attraverso tasse indirette (e cioè regressive rispetto al reddito). Nella seconda categoria ricadono invece gli effetti legati (i) alle tasse universitarie, (ii) ai sussidi per il diritto allo studio, e (iii) alla maggiore propensione delle famiglie più abbienti ad avere figli iscritti presso università estere o private. È possibile che questi diversi effetti si compensino, oppure no: per saperlo con certezza occorre raccogliere dati migliori.
Fatte queste precisazioni, e fino a prova contraria, l’attuale sistema di finanziamento dell’universita risulta muovere risorse dai “ricchi” verso i “poveri”, e non viceversa. Proprio per questa ragione sono i “ricchi” ad avere un chiaro incentivo nel cambiare lo status quo sotto il profilo redistributivo. Crediamo sia giunto il momento di iniziare a prendere questa constatazione come dato di partenza nel dibattito pubblico, e non il suo opposto. D’altro lato, l’equità del sistema non basta a garantirne l’efficienza, cioè non assicura che le risorse a disposizione vengano usate nel migliore dei modi. È su questa ultima considerazione che potranno essere argomentate delle eventuali proposte di riforma della macchina di finanziamento dell’università pubblica. Mentre sarebbe bene lasciare in pace Robin Hood.
APPENDICE: Aggregazione delle facoltà di laurea in macro-gruppi disciplinari
[1] Abbiamo già risposto una prima volta a questa domanda nel nostro articolo “Chi finanzia l’università pubblica?” (www. lavoce . info, 19 febbraio 2013). In quella circostanza abbiamo svolto l’analisi sui dati del 2010, i quali rendono più difficile l’identificazione degli studenti universitari all’interno della base di dati della Banca d’Italia. Qui invece l’analisi viene svolta principalmente sui dati del 2008, per i quali non si pone questo problema. Inoltre, qui vengono aggiunte una serie di estensioni rispetto all’analisi originaria.
[2] Si noti che la semplificazione secondo cui il FFO è finanziato interamente attraverso l’IRPEF deriva essenzialmente da una carenza di dati più completi, e pertanto è comune alla gran parte delle analisi sul tema. Ad esempio, Ichino e Terlizzese usano questa semplificazione nelle loro analisi “ Se i poveri pagano l ’ università ai ricchi ” (Corriere della Sera, 10 dicembre 2012) e “ Tasse e benefici universitari : una risposta a ROARS ” ( www . scienzainrete . it, 5 gennaio 2013).
[3] Questi dati ed il risultato che ne deriva sono già contenuti nella Figura 1, dove però la visualizzazione del saldo risulta più difficile poiché occorre confrontare le pendenze relative delle due curve. Per questo abbiamo reso il risultato più fruibile visivamente attraverso la Figura 2.
[4] Questa conclusione contrasta con una prima versione delle analisi condotte da Andrea Ichino e Daniele Terlizzese, ad esempio sul Corriere della Sera (10 dicembre 2012), come già discusso nel nostro precedente articolo “ Chi finanzia l ’ università pubblica ?” ( www . lavoce . info, 19 febbraio 2013). Nel loro articolo concomitante “ Ma i poveri studiano con i soldi dei poveri ”, ( www . lavoce . info, 19 febbraio 2013), gli stessi Ichino e Terlizzese hanno poi confermato la validità del nostro risultato data la metodologia da noi adottata. Nell’ambito dello stesso articolo, essi hanno anche avanzato una metodologia alternativa basata su una particolare definizione a priori di “ricchi” e “poveri”. In questo articolo noi prescindiamo da tale proposta per adottare un approccio più agnostico in termini definitori.
[5] L’applicazione di un criterio più restrittivo nell’identificazione dei beneficiari dei servizi universitari comporta una riduzione della dimensione campionaria. È per questa ragione che in Figura 3 la popolazione viene suddivisa in quintili invece che in decili.
[6] Il dettaglio di dell’aggregazione delle facoltà in macro-gruppi disciplinari a partire della classificazione della base di dati della Banca d’italia è presentato nella tabella in appendice.
[7] A differenza dei casi precedenti, questo esercizio deve essere svolto per il 2010 invece che per il 2008, perché solo la base di dati del 2010 permette di distinguere i laureati per facoltà.
Interessante. Soprattutto però credo che sarebbe interessante ripetere l’esercizio con: 1) distribuzione di tutte le imposte (l’IRPEF, unica progressiva, copriva il 37% delle entrate fiscali totali nel 2009, mentre la gran parte delle altre imposte hanno carattere regressivo); 2) confronto con ‘proposta Ichino’.
Solo il 37% per IRPEF? Quali altre tasse progressive ci sono?
“(ii) il trascurare che parte del FFO è raccolto attraverso tasse indirette (e cioè regressive rispetto al reddito). ”
Posso sbagliarmi, ma mi sembra di ricordare che al momento attuale le entrate dell’erario sono divise a circa il 50% tra “tasse regressive” e “tasse progressive” (IRPEF). Se ciò fosse vero e facendo anche solo un primo calcolo grossolano, come cambierebbe il risultato?
MA
L’articolo è frutto di numerosi test di robustezza: essendo il risultato qualitativo tanto netto – come si vede dalla figura 2 – rimane valido per altre ragionevoli stime della tassazione. Anche il caso estremo di una ipotetica tassazione aggregata non progressiva ma perfettamente proporzionale non supporterebbe il risultato di un trasferimento dai poveri ai ricchi avanzato recentemente nel dibattito: in questo caso non vi sarebbero significativi trasferimenti da una classe di reddito all’altra. Un buon riassunto dei test di robustezza è che per ottenere il risultato di un trasferimento dai poveri ai ricchi sarebbe necessaria una tassazione aggregata regressiva, mentre tassazioni progressive spostano risorse dai ricchi ai poveri. Non sembra quindi un problema strettamente legato al sistema universitario.
Vista la natura divulgativa dell’articolo, invece di mostrare tutti i test abbiamo portato un singolo caso. L’IRPEF è stato scelto per tre motivi: è un dato che viene ricostruito dalla Banca D’Italia, ammonta a quasi metà della tassazione complessiva e, soprattutto, è la stessa semplificazione che è stata usata da altri studi simili che portavano a risultati opposti. Si è scelto quindi di facilitare il confronto evitando di complicare inutilmente l’esposizione con stime varie delle tasse indirette che non avrebbero modificato qualitativamente il risultato. Se qualcuno avesse portato avanti un simile argomento stimando la tassazione complessiva con le accise sulla benzina – per quanto possa sembrare bizzarro c’è gente che dice le cose più assurde – avremmo replicato i calcoli per quel caso.
Emanuele & Ugo
No, e’ tutto, ma proprio tutto sbagliato. Il FFO non e’ finanziato dall’IRPEF, o da una tassa specifica. Le tasse vanno tutte in un calderone, da cui poi escono per le varie spese.
Leggere questo post mi ricorda lo sketch dove il maresciallo dei carabinieri dice all’appuntato, “prendi qui appuntato, un euro per il caffe’ e un euro per il giornale, vammeli a comprare”. dopo mezz’ora l’appuntato torna senza caffe’ e senza giornale “ah marescia’, mi son scurdato qual era l’euro per il caffe’ e quale per il giornale”. “miiiii, appuntato, imbecille sei, dopo mezz’ora come faccio a ricordarmi!”
Ha senso valutare l’impatto redistributivo dell’imposizione complessiva, come ha senso valutare l’impatto redistributivo di una voce di spesa (cosa che fa Andrea Moro correttamente), ma non prendere una tassa qualsiasi e dire “ah l’impatto e’ progressivo”.
Cio’ che fa il post ha esattamente lo stesso senso che prendere l’imposizione fiscale sulle Rolls Royce o sugli yacht, fare una bella curve di Lorenz, vedere che il decile piu’ ricco paga il 100% della tassa, e dire “guarda, supponendo che la tassa sulla Rolls Royce vada a finanziare il FFO, allora andare al finanziamento dell’universita’ e’ progressivo.” Il post e’ esattamente altrettanto demenziale.
Se c’è qualcosa di demenziale questo è il suo commento signor de Fraja: l’irpef è stata considerata perché è una tassa che pagano tutti e non solo i più abbienti. Nell’ipotesi che l’FFO sia finanziato dall’Irpef il risultato è corretto. L’ipotesi di base approssima parecchio la realtà che è più complicata ma è la stessa ipotesi utilizzata da coloro che sostengono che “i poveri pagano l’università ai ricchi”.
“l’irpef è stata considerata perché è una tassa che pagano tutti e non solo i più abbienti”
Falso. L’IRPEF non la pagano tutti, ma solo chi ha un reddito superiore a una certa soglia (al momento zero, anche se con le detrazioni la soglia in pratica e’ strettamente positiva). ESATTAMENTE come il fatto che la tassa sulle Rolls Royce la paga solo chi acquista un numero di Rolls Royce superiore ad una certa soglia (zero).
Se invece gli autori del post rifacessero i conti con l’ipotesi che il FFO le tasse sulle sigarette e sulla benzina (il numero di persone che paga queste tasse e’ probabilmente superiore al numero di persone che paga l’IRPEF), si accorgerebebro che il finanziamento dell’universita’ e’ spaventosamente regressivo.
Ripeto l’analisi del post e’ assolutamente balorda: si puo’ calcoalare l’impatto redistributivo di una voce di spesa, ma va fatto con l’imposizione complessiva su ciascun decile, non pigliando una tassa a piacimento.
Dovendo essere rigorosi (ma e’ chiaro che vista la sofisticazione di chi ha scritto il post parlo al vento), bisognerebbe prendere il lifetime income: per cui, ad esempio, uno studente (che ha reddito zero oggi), avra’ in futuro un reddito piu’ alto, e da un puro punto di vista di equita’, dovrebbe pagare di piu’ per l’univerista’ (considerazioni di efficienza vanno nella stessa direzione).
Ps: non sto qui difendendo chi dice che “i poveri pagano l’università ai ricchi”. Dico solo che il ragionamento del post non ha ne’ capo ne’ coda.
Balordo è quello che dice lei signor de Fraja.
Questi sono i redditi esenti (forse un pochino più generici di chi ha una rolls royce o uno yatch non crede?)
“Non è dovuta alcuna imposta quando i redditi sono al di sotto delle seguenti soglie:
redditi esclusivamente da pensione: sotto i 75 anni di età sino a 7.500 euro; sopra i 75 anni di età sino a 7.750 euro;
redditi esclusivamente da fabbricati, 500 euro;
redditi esclusivamente da terreni, 185,92 euro;
redditi da lavoro dipendente, 8.000 euro;
redditi da lavoro autonomo, 4.800 euro.
”
Quindi vada pure a fare provocazioni da quattro soldi da un’altra parte.
Egregio sig. De Fraja, sia così cortese da spiegare quale differente base di tassazione dovrebbe essere considerata per confutare la tesi:
“La spesa per l’università ha un andamento regressivo perché i poveri pagano di fatto l’università ai ricchi”.
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Le faccio notare che il post in questione produce una controargomentazione mossa specificamente contro QUELLA tesi, sciaguratamente molto diffusa, e nient’altro. Come crede sia possibile ottenere lo stesso effetto argomentativo senza far propri gli assunti della tesi che si cerca di confutare?
Caro De Fraja
sinceramente non capisco la sua argomentazione.
L’includere tasse regressive nella costituzione del finanziamento all’Università, direi rafforza indirettamente l’argomento del post. O no? Nel senso che ci dice che il problema è la tassazione regressiva.
Invece continuo a non capire l’argomento “lifetime” centrato sullo studente; a meno che questo non serva esclusivamente per introdurre i “prestiti” con o senza restituzione sulla base del reddito. Se la redistribuzione è comunque già in atto almeno sulle tasse progressive, l’unica cosa ragionevole da fare è di alzare le tasse universitarie progressivamente sulla base del reddito famigliare. Se e quando uno studente di Lettere diventerà un autore di successo, pagherà allora di più con la sua quota progressiva (che va alzata a tutti i livelli diminuendo la quota regressiva). E, naturalmente, pagherà di più anche per le tasse universitarie dei figli – allora; non adesso quando in quanto squattrinato rischierebbe di non andare neanche all’Università per non indebitarsi (vogliamo mica mettere in piedi un “azzardo morale”?); naturalmente questo ragionamento non si applica solo al prossimo Nobel per la letteratura, ma all’ingegnere civile che poi farà i progetti per le villette a schiera ed al matematico che insegnerà alle scuole medie.
Se invece si introducono i “prestiti” con o senza restituzione basata sul reddito (che è la tesi di Ichino, Terlizzese et al), non si interviene sul problema centrale (la regressività complessiva del sistema e non solo delle tasse universitarie), si fanno assunzioni sulla base di modelli di previsione che comunque lasciano il tempo che trovano (gli informatici della mia generazione stanno già vedendo gli effetti dell'”up or out”, dove l'”out” non è una bella cosa; ma nel 1980 tutto questo era prevedibile?) e, al tempo stesso si creano problemi di efficienza del sistema mediante la costruzione di una complicata infrastruttura pubblico/privata di gestione di questi prestiti con l’unico effetto di far accumulare rendite mediante commissioni e differenziali vari. O no?!?
Rimango quindi dell’idea che il post sia utile perché fa due cose: (1) ci dice che con tasse progressive lo slogan di Ichino, Terslizzese et al. non starebbe in piedi, e (2) ci dice che quando sta in piedi, lo fa perché il sistema complessivo di tassazione non é abbastanza progressivo. Il che è il contrario di quello che fanno I&T et al.: “assunto che il sistema non è abbastanza progressivo né mai lo sarà”, allora il sotto-sistema delle tasse universitarie è di tipo “Superciuk” (for the literary minded :) ) e va – solo quello – reso più progressivo.
La discussione sta quindi nello stabilire che fare. L’osservazione dei critici di I&T et al, una volta sfrondate le pose da tutte le parti, è che la proposta di questi ultimi è basata su assunzioni più deboli, con effetti perversi che si stanno documentando laddove i “prestiti” sono presenti e che un intervento diretto sulla progressività complessiva del sistema sarebbe più semplice da gestire e generalmente più equo. Il tutto senza entrare poi nel merito di quella che dovrebbero essere la natura dell’Università e del “diritto allo studio”.
A presto
Marco Antoniotti
“I poveri pagano l’università ai ricchi” è il titolo di un paragrafo del volume di Ichino e Terlizzese “Facoltà di scelta”. Vi si legge (p. 63) “Supponiamo per semplicità che l’unica entrata dello Stato sia costituita dall’imposizione diretta, che meglio conosciamo come IRPEF”. E confrontano le tasse pagate con i benefici ricevuti per classe di reddito. Più o meno ciò che viene fatto in questo post
Capisco “signor” e “sig.” solo in un modo.
Tenendo conto che basta fare due click su internet.
L’argomento del post, in sintesi, e’ il seguente ragionamento.
Ragionamento 1. Supponiamo che il FFO venga tutto dall’IRPEF (Questa e’ un’ipotesi). La curva di Lorentz dell’IRPEF sta sotto la curva di Lorentz del numero di studenti universitari (Questo e’ un fatto). Ergo “i ricchi pagano l’universita’ ai poveri” (Questa e’ una conclusione).
Permettetemi di fare questo Ragionamento:
Ragionamento 2. Supponiamo che il FFO venga tutto dalle imposte sui carburanti. (Questa e’ un’ipotesi). La curva di Lorentz delle imposte sui carburanti sta sopra la curva di Lorentz del numero di studenti universitari (Non ho dati alla mano, ma penso sia vero). Ergo “i poveri pagano l’universita’ ai ricchi” (Questa e’ una conclusione).
Se il Ragionamento 1 e’ valido, allora per logica (ho cambiato solo il nome della tassa), deve essere valido anche il Ragionamento 2, il che porta a una contraddizione (in entrambi i casi la premessa e’ valida, dato che l’ammontare totale dell’irpef e l’ammontare totale delle imposte sui carburanti eccedono entrambi il FFO). Il mio iniziale commento semplicemente evidenziava questa contraddizione.
L’economia definisce una politica regressiva (coloro che hanno piu’ ricevuto da “madre natura” beneficiano della politica piu’ di coloro che hanno ricevuto meno), o progressiva (coloro che hanno piu’ ricevuto da “madre natura” beneficiano della politica meno di coloro che hanno ricevuto meno). La definizione non e’ mia, ma di Kenneth Arrow (uno dei piu’ grandi economisti del 20 secolo): http://www.jstor.org/discover/10.2307/1885930?uid=3738032&uid=2&uid=4&sid=21102205031201.
La definizione si applica a una singola politica individuale, per cui posso dire: “la spesa per l’istruzione universitaria e’ regressiva,” “un’imposta sugli yatch e’ progressiva”, “la detrazione fiscale per l’istruzione privata e’ regressiva”, etc etc. Non si applica a due politiche prese assieme. Non entro nel merito di quello che hanno fatto Ichino & co. Discuto solo il post, e’ il ragionamento del post, mi dispiace, e’ senza base logica.
Ps: Per inciso, in articolo teorico (http://restud.oxfordjournals.org/content/69/2/437.short) ho dimostrato che, con condizioni plausibili, la spesa ottimale per istruzione e’ regressiva: redistribuisce dai poveri ai ricchi.
1. La nozione corrente di regressività e progressività non fa riferimento a ‘madre natura’, ma al reddito, che, con buona pace di Arrow, è ampiamente divergente dai doni di madre natura.
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2. La veridicità di una premessa non è richiesta per una confutazione: ad esempio una reductio ad absurdum può ASSUMERE una tesi proprio per dimostrarne la falsità. L’assunzione della base Irpef rileva per la confutazione di quella tesi.
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3. Grazie per il cortese suggerimento di lettura, ma le saremo tutti ancor più grati se volesse fornire una versione essenziale delle sue argomentazioni come post su ROARS, così da agevolare la discussione (se ciò le sta a cuore).
Riassumendo:
R1: Ipotesi A1 e B “implicano” C.
R2: Ipotesi A2 e B “implicano” -C.
Ma sia A1 che A2 sono vere.
Ed anche B.
Direi che allora il problema e’ in “implicano”.
Oppure il problema e’ C, che non e’ il D si vuole dimostrare.
Va beh, seghe mentali.
rispondo ad Andrea Zhok:
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“1. La nozione corrente di regressività e progressività non fa riferimento a ‘madre natura’, ma al reddito, che, con buona pace di Arrow, è ampiamente divergente dai doni di madre natura”.
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Arrow, scrivendo un lavoro teorico, si riferisce a un concetto piu’ generale di endowment (le potenzialita’ di un individuo, nel senso di un altro grande ecomista, Amartya Sen, o per chi conosce la bibbia, i talenti della parabola dei talenti). Il reddito famigliare conta per l’endowment (ed e’ determinato da madre natura, che ti fa nascere figlio di Agnelli, invece che figlio di un disoccupato drogato), ma non solo, contano anche altre cose, come l’intelligenza, la salute, tutto cio’ che ti permette di avere “successo nella vita”. Chiamando theta questa misura (approssimativamente misurabile, ma misurabile), e’ indubbio che vi siano individui con alto theta, e altri con basso theta. Arrow definisce regressiva una politica statale che da’ piu’ risorse a chi ha un theta piu’ alto.
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In pratica, per chi fa leggi, theta va approssimato in qualche modo, e le politiche fiscali lo approssimano con il reddito (che pero’ e’ endogeno, cioe’ scelto dall’individuo, che puo lavorare di piu’ o di meno, e quindi guadagnare di piu’ o di meno).
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La politica del finanziamento universitario in Italia e’ regressiva (nel senso di Arrow): i piu’ fortunati (o perche’ sono nati intelligenti, o perche’ sono nati in famiglie benestanti) ricevono piu’ dei meno fortunati.
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Di per se’ cio’ non e’ iniquo, perche’ si puo’ correggere con altre politiche (ad esempio la tassazione progressiva sul reddito, che pero’ ha altri effetti non necessariamente desiderabili. Da un punto di vista teorico, il meccanismo migliore per finanziare l’univerista’ e farla pagare a chi ne beneficia, tramite un prestito a lungo periodo amministrato dal sistema fiscale).
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Un meccanismo che riesce a far questo e’ equo (chi piu’ ha ricevuto da madre natura contribuisce di piu’ alla societa’) e efficiente: la decisione se la societa; deve incorrere il costo dell’istruzione di una persona X e’ presa da (nel senso che il costo e’ sopportato da) gli agenti che hanno l’informazione migliore riguardo al beneficio della persona X di andare all’universita’.
“Da un punto di vista teorico, il meccanismo migliore per finanziare l’univerista’ e farla pagare a chi ne beneficia, tramite un prestito a lungo periodo amministrato dal sistema fiscale” . La parola “teorico” (e quale “teoria” di grazia?)è usata come al solito a sproposito, ma se se scrive “da un punto di vista di una certa ideologia” va tutto bene e si è anche un tantino più chiari.
Un modello teorico in cui si ipotizzi che un governo voglia massimizzare la media ponderata dell’utilita’ (intesa non solo come reddito ma come benessere, welfare, felicita’, etc) di tutti i mebri della societa’ indica che l’istruzione universitaria vada finanziata con prestiti a lungo periodo pagati da chi riceve l’investimento. Sottolineo il fatto che la media e’ ponderata: quindi accomoda qualunque ideologia: chi vuole favorire i meno fortunati puo’ dare peso maggiore all’utilita’ dei meno fortunati, e viceversa.
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Ho usato il termine teorico come contrapposto alla pratica: applicare principi teorici al mondo reale richiede compromessi, ed e’ spesso impossibile. Ad esempio in un paese con evasione fiscale elevata, e’ difficile adoperare il sistema fiscale per il ripagamento dei prestiti universitari. In pratica, al contrario che in teoria, certe soluzioni non funzionano.
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La teoria pero’ e’ importante, perche’ permette di avere un termine di paragone, e di identificare meccanismi che sono teoricamenti errati.
Il termine di paragone è la realtà non un “modello teorico”. E la realtà, ad esempio, degli Stati Uniti è molto semplice: la bolla dei prestiti studenteschi sta per esplodere in quanto il totale debito degli studenti USA è arrivato, secondo la Federal Reserve, a quasi 1000 miliardi di dollari nel quarto trimestre 2012 (superando addirittura le carte di credito), suddivisi in 37 milioni di prestiti. Le ipotesi del modello teorico (ecco ipotesi) andrebbero confrontate con la realtà del pianeta terra.
Il confronto che ho in mente io e’ fra la realta’ da un lato e il modello teorico dall’altro.
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Puo darsi che negli US i prestiti universitari siano troppo alti; anche se una media di circa $27000 a persona non mi sembra alta, visto l’incremento di reddito, nell’ambito della vita lavorativa determinato dall’istruzione universitaria e’ circa $1,3 milioni (in realta’ per l’autoselezione la cifra vera e’ molto piu’ piccola, ma anche se dicessimo un quarto e’ sempre un valore sostanziale della laurea).
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Ma ammesso che i debiti universitari (1000md) siano troppo alti in US, cio’ di per se’ non implica che siano troppo alti anche in Italia.
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Potrebbe darsi che la cifra ideale di debiti universitari sia compresa fra circa 0 (il valore dell’Italia) e 1000md (il valore degli US). Non sto dicendo che lo sia, sto solo dicendo che sulla base delle informazioni disponibili non possiamo dire che il valore del debito universitario dell’Italia sai eccessivo.
@De Fraja.
Lei sostiene che l’insieme di endowment (le potenzialita’ di un individuo) e reddito famigliare rappresenterebbero un’entità misurabile, ancorché approssimativamente.
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Ebbene, per produrre una misurazione unitaria di due entità toto coelo disomogenee (altre che mele ed arance) come queste bisognerebbe infarcire una teoria di tante di quelle ipotesi ad hoc che, se lei me ne concede la metà, io le dimostro inconfutabilmente che lei non esiste…
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Poi, come noto, da una premessa insensata possiamo far discendere con ferrea logica qualunque conclusione, nonché il suo opposto…
Caro De Fraja, mi spiega che senso ha citare
“l’incremento di reddito, nell’ambito della vita lavorativa determinato dall’istruzione universitaria e’ circa $1,3 milioni ”
che e’ un dato “medio” quando qui si sta parlando di redistribuzione?
Ha presente la differenza che c’e’ tra una distribuzione e la sua media?
Molto probabilmente la distribuzione del “incremento di reddito nell’ambito lavorativo” e’ molto sbilanciata, in qualunque modo uno voglia calcolarla (tra l’altro non e’ chiaro cosa uno possa misurare con i dati “storici” visto che 30 anni fa si laureava una frazione molto minore di persone).
Ha presente che esiste un fenomeno di over-qualification per la quale persone laureate lavorano in call center in cui ti potrebbero assumere con la terza media? Per queste persone la laurea ha in realta’ un effetto negativo sul lifteime income visto che i loro colleghi che hanno iniziato a lavorare a 18 invece che a 24 hanno integrato reddito per 6 anni in piu’.
Il problema è nelle assunzioni dei modelli teorici. La crisi-catastrofe economica in cui ci ritroviamo è stata guidata in gran parte dall’indebitamento privato, almeno negli USA, che è stato supportato dal governo e dall’allegra schiera di teorici tra i quali spicca Robert Lucas: “Io sono scettico sulla tesi che il problema dei mutui subprime contamini tutto il mercato dei mutui, che la costruzione di alloggi avrà una battuta d’arresto, e che l’economia scivolerà in una recessione. Ogni passo in questa catena è discutibile e nessuno è stato quantificato. Se abbiamo imparato qualcosa dai passati 20 anni è che c’è parecchia stabilità incorporata nell’economia reale”. E’ un esempio, ne possiamo fare altri N. Quando è che la cosidetta scienza economica si confronterà con la realtà?
Va beh, pero’ devo dire qualche cosa al filosofo nato dove sono ora (ICTP).
Teoria degli insiemi. Funzioni tra insiemi. Dominio qualunque di cardinalita’ finita. Codominio l’insieme dei numeri reali. Mi invento una funzione (ovviamente non biiettiva) tra questo dominio e questo codominio.
Forse la funzione definita non serve a niente, ma cosa c’e’ di illogico?
Tweet di Maria Chiara Carrozza:
Figo !!
Pero’, se riesce a togliere il blocco degli stupendi e del turn-over sono ancora piu’ contento !!
…”high tuition, high aid,” model. The theory was that, in a time of tight state budgets, charging wealthy students exorbitantly would allow them to charge poorer students reasonably. It hasn’t worked out that way.
http://www.theatlantic.com/business/archive/2013/05/how-colleges-are-selling-out-the-poor-to-court-the-rich/275725/
http://newamerica.net/sites/newamerica.net/files/policydocs/Merit_Aid%20Final.pdf
Prendiamo lo studente davvero “povero” che alle spalle NON ha una famiglia in grado di sostenerlo in qualsiasi modo, o anche che ha una famiglia magari “ricca” che non intende sostenere le spese dell’università, o che peggio una famiglia non la ha. Questo studente è “capace e meritevole” e desidererebbe raggiungere “i più alti gradi dell’istruzione”. Nella situazione di OGGI, gli studenti che ricadono nelle categorie sopra esposte, sono esclusi dall’università. Tuttavia, si troveranno a pagare in seguito tramite le imposte dirette o indirette una parte del costo dell’università agli studenti che se la possono permettere. In questi casi specifici, l’affermazione “l’università è pagata dai poveri ai ricchi” è per me corretta.
Chi è non ha accesso ad una soglia minima di reddito, l’università se la sogna. Se qualcuno la pensa diversamente, mi piacerebbe sentire la sua opinione.
Per quanto riguarda le soluzioni, possiamo discuterne. Possiamo convenire che i diritti hanno un costo, e quindi questi studenti vanno comunque sostenuti con borse di studio adeguate. Possiamo invece immaginare una soluzione tipo Ichino/Terlizzese nella quale si alzano le tasse per sostenere le fasce a reddito zero, che è tuttavia criticata perché molti sostengono che danneggerebbe chi comunque riesce ad accedere oggi all’università anche se con difficoltà.
Il dibattito sulle Tasse Universitarie dovrebbe partire dal punto “come garantisco a tutti gli studenti capaci e meritevoli l’accesso all’università?” Lo status quo non lo garantisce.
Mah, almeno metà dei miei studenti sono studenti lavoratori e se gli alzi le tasse, col modello Ichino, semplicemente li perdi. Ovviamente lo scandalo è che in Italia non ci sono borse di studio sufficienti per i capaci e meritevoli, se privi di mezzi.
Andrea,
Non pensare ai tuoi studenti attuali, i quali paradossalmente si potrebbero addirittura definire “privilegiati” rispetto a quelli che all’università non ci possono andare…
Articolo molto interessante. La figura 1 mostra chiarissimamente che il 50% della popolazione con redditi bassi contribuisce il 15% dell’IRPEF e il 30% degli studenti universitari, un risultato che contraddice tutte le mie impressioni di docente universitario (l’impressione che danno gli studenti è di essere relativamente abbienti). Ma le impressioni, si sa, non fanno statistica.
E’ importante però considerare che le imposte non progressive (carburanti, sigarette, alcolici, etc.) sposterebbero in alto la curva grigia di fig.1, lasciando invariata naturalmente quella nera. Penso che De Fraja qui sopra intenda dire qualcosa del genere (non sono un economista quindi è meglio se mi fermo qui). Inoltre è anche importante considerare che l’evasione fiscale fa sembrare “poveri” alcuni che sono “ricchi” e quindi innalza la parte iniziale della curva nera.
In compenso il FFO in passato è stato tagliato per coprire l’esenzione dell’ICI prima casa (dl 93/08).
Caro De Fraja
“Un modello teorico in cui si ipotizzi che un governo voglia massimizzare la media ponderata dell’utilita’ (intesa non solo come reddito ma come benessere, welfare, felicita’, etc) di tutti i membri della societa’ indica che l’istruzione universitaria vada finanziata con prestiti a lungo periodo pagati da chi riceve l’investimento. Sottolineo il fatto che la media e’ ponderata: quindi accomoda qualunque ideologia: chi vuole favorire i meno fortunati puo’ dare peso maggiore all’utilita’ dei meno fortunati, e viceversa.”
E perché un modello teorico “non ideologico” perché “ponderato” “indica che l’istruzione universitaria vada finanziata con prestiti a lungo periodo pagati da chi riceve l’investimento”?
Mi sfugge il nesso logico. A meno che non sia dimostrabile che complessivamente – al netto di costi implementativi e di accentramento dei profitti – questa soluzione sia veramente la “migliore” percorribile in contrasto con meccanismi meno indiretti di rendere più progressivo il finanziamento del sistema universitario e di ricerca.
Articolo interessante ma non risponde alla domanda divenuta di attualità oggi: abolire le “tasse universitarie” a chi conviene?
Si tratterebbe di far pagare alla fiscalità generale anche quella parte del costo del sistema universitario che è a carico dei singoli studenti. Nella “proposta Grasso” insomma, al FFO si aggiungerebbe un FFO+ che avrebbe importo pari al totale delle attuali “tasse universitarie” (TU) pagate dagli studenti di anno in anno.
A chi convenga (ricchi o poveri) questo eventuale cambiamento l’articolo non lo dice.
Per rispondere a questa domanda dovremmo infatti, seguendo l’approccio dell’articolo, avere la curva di Lorenz delle TU e confrontarla con la curva di Lorenz di questo FFO+ che le sostituirebbe. Ricordiamo infatti che le TU vengono pagate dagli studenti in funzione del reddito della famiglia di appartenenza (ISEE), non sono quindi uguali per tutti ma sono esse stesse “progressive”.
La domanda diventa: sono più o meno “progresive” della fiscalità generale (che pagherebbe il FFO+)?
Io non ho questa informazione ma osservo solo che per i redditi più bassi, che oggi non pagano TU, la proposta di far pagare anche il TU alla fiscalità generale genererebbe un danno, visto che anche i redditi più bassi contribuiscono alla fiscalità generale (ovvero pagherebbero la FFO+). Ad oggi il limite di esenzione è fissato a 13k€ di isee. Tra 13k€ e 30k€ le TU si pagano nella forma del 7% della differenza tra 30k e 13k. Oltre dipendono dalla singola università.
A occhio c’è una bella progressività, probabilmente superiore alla stessa iRPEF e quasi certamente superiore alla fiscalità generale che include forme di tassazione repressive). O sbaglio?
“Articolo interessante ma non risponde alla domanda divenuta di attualità oggi: abolire le “tasse universitarie” a chi conviene?” SI veda https://www.roars.it/ma-i-poveri-pagano-luniversita-ai-ricchi/ e https://www.roars.it/il-profilo-redistributivo-delluniversita-pubblica-italiana/
Mi permetto di segnalare che sono stati fatti i conti anche sulla specifica proposta di LeU, così da poter effettivamente rispondere alla domanda “Chi guadagna dal taglio delle tasse universitarie?”. Ecco il link: http://www.lavoce.info/archives/51164/tasse-universitarie-vale-la-pena-tagliarle/
[…] sulle sue spalle, ma anche che il primo paga sostanzialmente meno del costo pro capite degli studi. Nello stesso blog, Emanuele Pugliese e Ugo Gragnolati identificano separatamente i due fattori in contrasto tra loro […]
[…] sue spalle, ma anche che il primo paga sostanzialmente meno del costo pro capite degli studi. Nello stesso blog, Emanuele Pugliese e Ugo Gragnolati identificano separatamente i due fattori in contrasto tra loro […]