Ichino e Terlizzese (IT) in una replica al nostro articolo “Ma i poveri pagano l’università ai ricchi?” ci chiedono Sulla base di quale conto CSL [ndr. Coin & Sylos Labini] ottengono invece i loro risultati?” Qui di seguito spieghiamo in dettaglio il conto e chiariamo anche altri numeri sollevati nella replica di IT. Tuttavia non ci dilunghiamo in altri commenti perché riteniamo sia sufficiente rimandare al nostro precedente contributo e alle referenze ivi contenute per ulteriori chiarimenti sulle nostre critiche alle tesi di IT.

1) Secondo CSL avremmo fatto riferimento, nei nostri conti sul trasferimento dai poveri ai ricchi, a un numero sbagliato per l’FFO, 9 miliardi invece di 6,8. I dati, riportati sul Corriere provengono dalla nostra precedente proposta riguardo alla quale proprio con Francesca Coin abbiamo avuto uno scambio molto vivace ma, almeno per noi, proficuo. In quel lavoro, da cui origina un libro che uscirà tra pochi giorni (“Facoltà di Scelta”, Rizzoli), abbiamo utilizzato per la spesa pubblica a favore dell’università dati riferiti al 2009: gli ultimi di cui disponevamo mentre scrivevamo. È un riferimento che avremmo dovuto menzionare anche nell’articolo sul Corriere (lo spazio era poco, ma 4 caratteri in più ci stavano) e di questo ci scusiamo. In quell’anno l’FFO era 7.4 miliardi di euro, ma ammontava in totale a 9 miliardi il finanziamento pubblico complessivo agli atenei Italiani, e quella è la cifra che (come chiaramente affermato nel lavoro che Francesca conosce) abbiamo usato nei nostri calcoli

Nell’articolo lungo di IT si fa riferimento alla seguente tabella del rapporto del CNVSU, da cui si evince che la cifra di circa 9 miliardi si ottiene sommando l’FFO (7,39 miliardi nel 2009), entrate finalizzate dal MIUR (0,95 miliardi), alienazioni beni patrimoniali e prestiti (0,36 miliardi) ed entrate diverse (0,46) miliardi. Nell’articolo sul Corriere della Sera IT scrivono che ” lo Stato dà all’università” 9 miliardi: ci sembra piuttosto improprio catalogare tutte queste spese come soldi che lo Stato dà all’università, come anche  includerle nel “contributo dei poveri ai ricchi”. Quando si discute di spese universitaria si intende l’FFO e non “entrate finalizzate da Miur” o “alienazioni beni patrimoniali e prestiti” a meno che non sia specificato, giustificando in dettaglio la ragione per tale scelta.

 

2) CSL presentano poi dei numeri dai quali risulta che i contribuenti più ricchi sovvenzionerebbero i più poveri, contrariamente a quanto da noi affermato. In particolare affermano che i contribuenti con reddito superiore a 100˙000 euro contribuirebbero attraverso l’Irpef al costo annuo procapite di uno studente universitario (da loro valutato in 3800 euro al netto delle tasse universitarie), con circa 1500 euro; quelli con reddito fino a 40˙000 euro contribuirebbero con circa 400 euro; quelli con reddito fino a 20˙000 euro con circa 100 euro. Confessiamo di non aver capito come CSL abbiano ottenuto le cifre che presentano.

Il primo numero, 3,800 euro, non è il costo annuo procapite di uno studente universitario ma il costo medio annuo di uno studente universitario, ottenuto, come spiegato nel nostro articolo, con la semplice operazione:

3800 euro =  6.8 mld euro (FFO 2012) / 1.8 mln studenti.

Visto che in Italia ci sono 41 milioni di contribuenti il costo medio per contribuente è

165 euro = 6.8 mld/41 mln

Si ipotizza che la spesa universitaria sia coperta dalla sola Irpef e poiché le aliquote Irpef variano con il reddito bisogna considerare la situazione più in dettaglio.

Vogliamo dunque calcolare quanto “spende” il sig. Rossi in istruzione universitaria tramite la fiscalità generale. Ovvero il sign. Rossi ha reddito r(i) e paga t(i) per l’Irpef: quanto sarà la quota di t(i) destinata a coprire l’FFO dell’università supponendo che non ci siano altre tasse (ipotesi fatta anche da IT)?

Per stimare t(i) il sig. Rossi può prendere la tabelle degli scaglioni per calcolare la sua aliquota

e dunque se il suo reddito è compreso nello scaglione j può usare la formula

 

Per calcolare la frazione di t(i) che viene utilizzata per finanziare la spesa universitaria tramite la fiscalità generale dobbiamo stimare il gettito Irpef totale

dove n(i) è il numero di contribuenti  reddito r(i) (con i=1..N – le classe di reddito sono tabulate qui) e t(i) è il relativo contributo Irpef. Definendo con p=FFO/Irpef  la frazione del gettito totale Irpef che va in FFO (p=0,03 per FFO=6,8 mld di euro), il contibuto per la spesa dell’FFO tramite l’Irpef pagata dal sig. Rossi è p*t(i). Nella figura seguente si mostra l’andamento del contributo per classe di reddito

Questo risultato significa che un singolo “povero” paga per il sistema universitario molto meno di un singolo “ricco”, sia in termini assoluti

100 euro (“povero”)

contro

1500 euro (“ricco”),

che percentuali:

100/20,000=0,5% (“povero”)

contro

1500/100,000=1,5% (“ricco”).

Inoltre un “povero” paga tramite l’Irpef solo il

100/3800=2,8% (“povero”)

del costo del servizio mentre un “ricco” paga il

1500/3800=40% (“ricco”)

del costo del servizio.

I “poveri” dunque non pagano ai “ricchi” o più dei “ricchi”: 

piuttosto i  “poveri”  contribuiscono alle spese di un servizio in maniera molto minore del costo del servizio stesso, come è giusto che sia.

Chiarito questo punto consideriamo quale sia il problema che IT evidenziano con la loro analisi. Il risultato di IT, “Che il finanziamento universitario opera ogni anno un trasferimento ingente, circa 2,5 mld di euro, dalle famiglie con reddito inferiore ai 40.000 euro lordi annui a quelle con reddito superiore” è  ottenuto considerando il contributo aggregato delle classi di reddito ovvero moltiplicando il contributo del sig. Rossi p*t(i) per tutti gli altri “signori Rossi” che appartengono alla stessa classe di reddito, e così via.

Dunque, mentre noi ci chiediamo quanto sia il contributo del singolo sig.Rossi alla spesa universitaria, e quanto sarebbe dunque il suo “risparmio” se l’università non venisse pagata tramite la fiscalità generale (il 3% della sua tassazione Irpef – ovvero irrilevante), IT si chiedono una domanda diversa: quanto contribuiscono tutti coloro che hanno un certo reddito (o un reddito fino ad un certo valore) alla spesa universitaria?

Se l’università fosse frequentata nella stessa proporzione  da studenti provenienti da ciascuna classe di reddito  il dato aggregato fornirebbe una informazione del tutto identica al dato diasaggregato. Ma così non è, ed anzi è noto che gli studenti universitari provengono preferenzialmente dalle classi con redditi più alti. Dunque si crea uno squilibrio dovuto proprio al fatto che i “poveri”, pur essendo più dei “ricchi”, vanno meno dei “ricchi” all’università. Perciò IT  si domandano: è giusto che qualcuno che non usufruisce direttamente di un certo servizio lo paghi tramite una frazione (ndr, irrilevante) delle proprie tasse? Rispondono: no.

Dunque invece di finanziare la spesa con un contributo irrilevante di tutti i contribuenti, propongono di chiedere un contributo molto ingente, che implica l’indebitamento per qualche decennio, a chi si iscrive all’università e non ha le risorse per pagare tasse di circa 10,000 euro. Dunque il sig.Rossi, quello “povero” che prima pagava 100 euro, in maniera indiretta tramite la fiscalità generale, secondo IT  avrà la convenienza di pagare 10,000 euro  guadagnandoci una bella “scommessa” per l’investimento sulla propria formazione: quello che si dice un affarone!

A nostro avviso l’università fornisce un beneficio anche a chi non la frequenta (anche chi non va all’università avrà benifici materiali e morali dal vivere in una società più istruita) ed è dunque del tutto ragionevole che venga pagata da tutti i contribuenti, seppur in maniera del tutto trascurabile da ognuno. Ad esempio, lo Stato si occupa di fornire una istruzione fino ai 18 anni a tutti i cittadini, attraverso la scuola pubblica: chi paga per la formazione degli insegnanti? Tutti i cittadini attraverso la fiscalità generale. E così via per i medici, i giudici, chi si occupa dell’amministrazione dello Stato ecc.

In realtà il perno dell’argomento di IT non è altro che l’arcinoto problema del diritto allo studio: lo squilibrio  attuale nella frequentazione dell’università, lo ricordiamo ancora una volta, è causato  da una insufficente politica di supporto al diritto allo studio che richiederebbe di agire con forza e determinazione al più presto. Perché il fronte dell’equità sociale passa proprio per il diritto allo studio piuttosto che per l’aumento delle tasse universitarie come ripetutamente (e speriamo vanamente) proposto da IT.

 (Pubblicato su Scienza in Rete)

 

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5 Commenti

  1. Segnalo ai nostri lettori che la proposta di Andrea Ichino e Daniele Terlizzese viene ripresa ora da Pietro Ichino nelle sue risposte alle dieci domande poste dal Gruppo 2003.

    Tra l’altro, Pietro Ichino scrive:

    Il Progetto (di Andrea Ichino e Daniele Terlizzese n.d.r.) consente di affiancare alla valutazione centralizzata dell’ANVUR un meccanismo di valutazione decentralizzata e di mercato. Una vera “facoltà di scelta” da parte degli studenti rappresenta proprio quello stimolo alla competizione di cui l’universita italiana ha bisogno; è l’ingrediente che manca alla riforma Gelmini, al suo impianto di valutazione troppo centralizzato. L’Anvur sta facendo un buon lavoro, ma da questa esperienza è facile capire quanto sia complesso, costoso e potenzialmente criticabile da ogni lato, un processo di valutazione centralizzato e uniforme per tutte le discipline.

    Interessante l’ultima frase.

  2. Anche questo passo è interessante:

    Un cardine di questa proposta è l’idea che il sistema universitario, come la sua storia ci insegna, sia la modalità con cui la società trasmette la frontiera più avanzata della conoscenza a quella parte della popolazione che è meglio in grado di riceverla e di estenderla. È un sistema intrinsecamente elitario, perché si fonda su una ineliminabile disuguaglianza nei talenti e nelle capacità delle persone. È una disuguaglianza che non deve dipendere dalla ricchezza o dal reddito della famiglia d’origine, e bisogna fare ogni possibile sforzo per rompere questo legame; ma così come non sarebbe possibile che tutti vadano alle olimpiadi, è inevitabile che alcuni tra noi siano più di altri in grado di prendere il testimone della conoscenza. Ciò non è in contrasto con quanto affermato nella nostra Costituzione (articolo 34), dove si stabilisce il diritto di «raggiungere i gradi più alti degli studi» per i «capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi». Questa è una qualificazione importante e spesso trascurata: non per tutti, solo per i capaci e meritevoli.

    Viene da chiedersi a quale periodo storico alluda Ichino, e di quale paese. Forse gli studiosi di storia delle università potrebbero illuminarci. In ogni caso, e tralasciando la spinosa questione di come si misuri il talento e la capacità delle persone, l’analogia con le olimpiadi è chiaramente priva di senso. Se la prendessimo sul serio, buona parte delle università del mondo dovrebbero chiudere visto che per lo più non producono atleti straordinari (degli olimpionici), ma persone che hanno acquisito in media un buon livello nelle rispettive specialità atletiche. Come ha scritto Ralf Dahrendorf, un liberale che aveva una certa competenza in materia di università:

    molte grandi università del mondo già da molto tempo sono diventate grandi magazzini in cui si trova di tutto, dai reparti di vendite di occasione alle boutiques di lusso, dai banchi di chincaglieria alle esposizioni di articoli speciali.

    Sottolineo che la varietà di cui parla Dahrendorf è interna alle singole università.

    Infine, una considerazione sul testo costituzionale. La qualificazione «capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi» non indica olimpionici, come è ovvio, ma per l’appunto coloro che si sono impegnati mettendo a frutto le proprie capacità per raggiungere un buon livello. Questo vuol dire che l’università non è per tutti – per esempio, non è per gli scansafatiche – ma non certo che sia solo per gli olimpionici.

    • Ichino dovrebbe cambiare pusher.
      Da quando è passato a Monti può tirare fuori il liberista radicale che è in lui e lasciarsi andare a queste tirate a mezza strada tra Buchanan e Burke. Indifferente a ciò che il mondo crede sia la funzione dell’istruzione, inclusa quella terziaria, l’Ichino major ha deliberato che l’università è fatta per i geni (come, con tutta evidenza, lui ritiene di essere), i quali portano avanti la fiaccola del Sapere sopra le teste del volgo. Va da sé che, dall’alto delle sue profonde cognizioni biologiche e pedagogiche, l’Ichino furioso ha raggiunto la certezza epistemica che il volgo è nato per il lavoro bruto e l’abiezione dei sensi, con l’eccezione di quei rari figli prediletti, che il Mercato nella sua divina lungimiranza infallibilmente valorizzerà.
      .
      E la cosa bella, è che questo Faro della Civiltà dice ‘ste boiate con la massima serietà e convinzione, ritenendo in cuor suo che tutto il resto del mondo sia tanto tanto ingiusto nel misconoscerne l’acume.

  3. I&T semplicemente applicano, anche al sistema universitario, alcuni cardini di base dell’ideologia liberista, e, in particolare, manifestano l’avversione verso la fiscalità generale. Si tratta di una ricettina ideologica miope che probabilmente ripeteranno in qualsiasi caso, che si parli di università o di lecca-lecca. Poi i numeri si trovano. Se non vanno bene i dati sui singoli (che sono quelli che contano perché le persone decidono singolarmente se investire in istruzione) si prendono quelli aggregati. Le esternalità create dalla maggiore istruzione, invece, non esistono perché non quantificabili con calcoletti aritmetici da terza media. (Te ne accorgi però che pesano quando la vita politica e la qualità della democrazia degradano grazie al fatto che la gente crede mediamente a tutte le cretinate che sente raccontare, prima di tutto da alcuni economisti). Di buon senso invece neanche se ne parla: da 100 a 10mila è una bella sfida per uno che è povero, da 1500 a 10mila mica tanto per uno con una certa disponibilità. Naturalmente I&T non si sono fatti domande del tipo: ma in un paese dal quale già i laureati scappano, conviene investire in istruzione ad uno che è povero? E, soprattutto, avranno le persone povere, verosimilmente meno dotate di strumenti intellettuali per capire e decidere, il coraggio di puntare tanti soldi su una cosa oggettivamente rischiosa? Ancora, in un paese dove il 70% delle persone è analfabeta funzionale può avere successo un mercato dell’istruzione in cui bisogna avere una significativa capacità discernimento per non cadere nelle trappole delle università di serie C? (Domanda questa da estendere anche all’acutissimo senatore Pietro, che crede che si possa da un momento all’altro inventare un mercato universitario perfetto, caso unico in europa). Sono domande semplici e di buon senso, per rispondere alle quali però bisogna abbandonare la fede nell’ideologia. Ah no, scusate, la realtà non deve interferire con l’ideologia. Che si azioni la macchina del tempo dunque, che si torni al passato.

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