Segnaliamo ai lettori il documento Arted relativo alle figure precarie nella docenza e nella ricerca universitaria dopo la “legge Gelmini”.

Precariato_Analisi_e_Proposte8

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9 Commenti

  1. Massimo rispetto e massimo appoggio. Però secondo me l’autodefinizione sindacalizzante di “precari” è un autogol, perché certe parole d’ordine non fanno oramai più presa sull’opinione pubblica (non dimenticate che la disoccupazione giovanile in Italia sta al 40%). Modesta proposta: mobilitate altri registri comunicativi.

    • Riguardo al rispetto, la definizione di precari è maledettamente perfetta per chi non ha stabilità lavorativa al di là del proprio volere, e quindi il termine precario non è un’auto-definizione e non necessita né di cambiamenti né di virgolette.

      Sindacalizzante un paio di fotoni(entangled)!
      Tra i precari la sindacalizzazione è minima perché non tutelati né durante il lavoro né durante la disoccupazione. Infatti, il ministro Poletti e l’INPS di Boeri hanno disatteso con concitato imperio la Legge per la Dis-Coll, ma lo sanno solo i precari disoccupati che hanno atteso invano la grazia della tutela una tantum.

      Quello che sarebbe necessaria è la presa (ma bella stretta) sull’ignobile Legislatore e non quella sull’opinione pubblica che è fatta di parenti e amici di precari, i quali non ha bisogno di essere convinti dello schifo rappresentato dal precariato.

      Il dato ufficiale del 40% di disoccupazione giovanile qui richiamato non trasforma (tranne nel mondo dei ricatti) i precari con borse sottopagate e volontariato in privilegiati.

      Ad una modesta proposta sul registro comunicativo rispondo con un eccellente detto aborigeno:
      ‘O sàzio nun crére a ‘o diùno

      http://bit.ly/2jFGRGk

    • L’idea di cambiare registro comunicativo mi sembra condivisibile. Invece dell’obsoleto “precari”, propongo “lavoratori diversamente stabili”.

    • Si sa che siamo tutti esperti di comunicazione. Io proporrei che, per fare presa, le precarie si vestano in modo succinto, mentre i precari potrebbero mettere in mostra i muscoli oliati. Il tutto potrebbe essere contenuto in uno spot da mettere in onda su Raiset. Se questo vi sembra un’idiozia, complimenti, siete fuori moda!

  2. L’articolo dell’ARTeD, sebbene riassuma in maniera chiara e puntuale la situazione del reclutamento nell’università dopo la L. 240/2010, trascura un dettaglio importante soprattutto alla luce della necessità, giustamente sollevata nel documento, di “avviare un nuovo e più significativo piano di reclutamento di RTDb”.
    In realtà il legislatore in un decreto attuativo della L. 240, il 49/2012 se ben ricordo, aveva inserito l’obbligo di reclutare un RTDb per ogni professore ordinario reclutato nel medesimo periodo, introducendo così un contrappeso all’eccessiva tendenza ad utilizzare le risorse per progressioni di carriera piuttosto che per nuove assunzioni.
    Poiché tale vincolo limitava la possibilità per i docenti già strutturati – che votano nei consigli di Dipartimento che decidono le chiamate ed esprimono rappresentati nei Senati e CdA che le deliberano, nonché evidentemente riescono a fare lobbing in Parlamento – di sfruttare le poche risorse per le proprie progressione di carriera, in un milleproroghe mi sembra del 2014 un piccolo comma ha ridotto il vincolo al reclutamento di un RTDb per ogni due ordinari.
    Forse per riequilibrare il corpo docente e riaumentarne la numerosità, più che puntare a lunghi e difficoltosi stravolgimenti di un’intera legge basterebbe agire su piccoli commi di semplici decreti attuativi..

  3. Non si può non concordare sul precariato in tutte le sue forme, non solo nel settore universitario.
    Mesi orsono mi capitò fra le mani, però, un articolo online, di un ricercatore che elencava fra le conseguenze del precariato universitario, un più alto potere dei baronetti (i baroni sono andati in pensione …), che i ricercatori a tempo determinato attaccano come entità astratta, ma dai quali prendono direttive, essendone ricompensati con avanzamenti di carriera; una manipolazione degli studenti, al fine di ottenere una valutazione migliore ed altro ancora che non ricordo.
    Gli individui, temo, e la loro indole, non si possono convincere di comportamenti virtuosi, però, forse, si possono migliorare le leggi.
    Non userei più la parola merito, perché viene stiracchiata sino a coprire significati molto diversi. L’opportunismo, però, potrebbe essere controllato in modi che non costituiscano sofferenza nei corsi ed Atenei, facendo sì che le energie migliori si disperdano, semplicemente perché non hanno l’appoggio dei gruppi di potere.

  4. L’analisi presentata è lucida e veritiera, ma la terapia proposta non mi convince sino in fondo.
    Temo infatti che all’eliminazione “tot court” degli assegni di ricerca farebbe seguito una disponibilità di posti di RC assai inferiore. Infatti:
    1) Costerebbero il doppio, quindi a parità di risorse se ne possono avere la metà
    2) calerebbero pure drasticamente le risorse, perchè quale azienda metterebbe a disposizione dell’Università le risorse economiche per bandire degli RC? Non è difficile farsi finanziare degli assegni, per l’azienda significa acquisire ricerca di qualità a basso costo, e per l’assegnista, seppur precario, vedersi entrare dei bei soldini ogni mese, del tutto esentasse (gli assegni non sono gravati da IRPEF).
    Un assegnista in fascia 5 riceve infatti una retribuzione netta di circa 2300 Euro/mese, che non è poi cosi’ cattiva, considerato che se arrotonda con altri lavoretti, pubblicazioni, docenze, progetti, brevetti, diritti d’autore, etc., anche su tali proventi addizionali praticamente non paga tasse, perchè il reddito dell’assegno è fiscalmente inesistente.
    Con gli RC le buste paga sarebbero ben più basse, causa IRPEF almeno al 30%, non si avrebbe alcuna reale tutela in più, e si farebbe molta più fatica a stipulare contratti di ricerca con le aziende, che a quel punto avrebbero più interesse ad assumere in proprio i ricercatori con meccanismi quali il Jobs Act, anzichè fare ricerca con l’Università finanziando gli assegni nei dipartimenti..

    • Un importo di 2300 come quello citato nel post è di gran lunga superiore addirittura all’importo netto degli RTDA e RTDB. Posso chiedere qual è la fortunata università che eroga assegni così elevati?

      Nella mia università non esistono “fasce” di assegni. Per quanto mi riguarda,ad oggi sono passati più 9 anni di conseguimento del mio dottorato, e ho avuto assegni di ricerca per quattro anni (non consecutivi), l’ultimo dei quali scaduto qualche mese fa. L’importo era poco più di 1400 euro al mese.

  5. Difficile essere in disaccordo con la richiesta di investire maggiormente nell’università italiana (infatti ce ne sono e ce ne saranno tante – e sacrosante).
    Ma si potrebbe ottenere miglioramenti significativi a costo zero, e non capisco perché non se ne parli mai (un esempio è quello citato da meritator, che non conoscevo). Il motivo principale per cui bandire un assegno di ricerca costa metà del bandire un RTDa è semplice: l’assegno è esentasse. Ma questo è lo Stato che con una mano (non) dà e con l’altra (non) riceve. Per rimuovere questa “concorrenza sleale” basterebbe quindi tassare gli assegni di ricerca (anzi, tassarli più delle altre figure, per compensare il costo sociale della precarietà), trasformandoli in figure lavorative a tutti gli effetti, ovviamente applicando un meccanismo per compensare il sistema universitario dell’incremento del costo, tramite l’incremento di gettito che ne conseguirebbe. Vero è che dove ci sono tasse ci sono detrazioni (che quindi lo Stato non riceverebbe indietro), ma d’altra parte ci sono assegni il cui finanziamento non viene dallo Stato (es. progetti europei), ed assegnisti che percepiscono altri redditi (che per criteri di progressività pagherebbero in tasse più dell’incremento del loro stipendio lordo): in questi casi la manovra avrebbe per lo Stato un vantaggio economico.
    Il principale vantaggio sarebbe non solo il riconoscimento dell’assegnista come un lavoratore “vero”, ma anche che bandire RDTa (e anche RTDb, laddove ci siano i punti organico) non sembrerebbe più, ai singoli professori ed alle università nel loro complesso, una spesa folle ed ingiustificata per ciò che si potrebbe ottenere a metà prezzo.

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