“Il mio sogno è allenare una squadra di orfani”. Lo diceva un po’ di anni fa  Felice Pulici, ex portiere della Lazio, allora allenatore di ragazzini, commentando le performance di genitori assatanati che ai bordi del campo incitavano i figli ad ogni infamità pur di emergere e primeggiare. Mi è tornata in mente leggendo le tirate contro la scuola pubblica della destra liberista. L’ultimo è Romney in America, che incita i genitori a insorgere contro gli insegnanti che scioperano a difesa del loro salario e del tempo scuola sempre più compresso dai tagli ai bilanci pubblici.

C’è dietro un’idea proprietaria dei figli, contro cui la scuola ha dovuto combattere per nascere, dando un contributo essenziale alla “civilizzazione” della famiglia, alla stessa nascita dell’idea di infanzia e di adolescenza, come età meritevoli di rispetto e di cura. E la scuola continua a provarci contro la nuova barbarie di un familismo consumista e competitivo, che spesso è quello che più urla contro la scuola, e cercando di dar voce alle domande “silenziose” di chi non è in grado di consumare e competere.

Ecco, credo che bisognerebbe invertire i termini della questione, e cominciare una nuova fase in cui sia la scuola a rivolgere alle famiglie, alla società, all’economia, alla politica le domande che contano, se vogliamo che il lavoro che si fa nella scuola continui ad avere un senso.

Il lavoro che si fa sul rispetto per le persone e per le cose, in un mondo che pare dominato dalla cultura dell’usa e getta. Il lavoro per tenere insieme lingue, religioni e culture diverse, in una comune idea di cittadinanza, e che drammaticamente si scontra col fatto che una parte sempre più grande dei ragazzi che stanno nelle scuole italiane cittadini italiani non lo sono e c’è chi pensa che non dovranno esserlo mai. E la difficoltà di essere credibili quando- è ormai un luogo comune- si prova a dare ai bambini e ai ragazzi gli strumenti per continuare ad apprendere per tutto l’arco della vita, perché nessun sapere, teorico o professionale, è per sempre, e mancano nel Paese i luoghi e gli strumenti per continuare ad apprendere.

Anche l’Università e la ricerca hanno le loro domande da fare. Soprattutto una. Com’è possibile uscire dal paradosso italiano, di avere il numero più basso di laureati e di ricercatori fra tutti i Paesi più o meno sviluppati, ed avere il numero più alto di laureati e di ricercatori disoccupati o sottooccupati. In realtà dal paradosso se ne sta uscendo nel modo peggiore. Diminuiscono i giovani che all’Università si iscrivono. La crisi dà una mano, perché aumentano le famiglie che i figli alla scuola superiore e all’Università non riescono più a mandarceli. L’altra risposta, quella capace di dare senso e valore all’insegnare e all’apprendere, richiederebbe un sistema produttivo di merci e servizi che si impegna nella direzione di aumentare la propria capacità di utilizzare e produrre conoscenza, un Paese che finalmente decida davvero di considerare il suo patrimonio culturale, quello storico e quello che ogni giorno si produce nei luoghi delle cultura, come la sua risorsa più preziosa, e una straordinaria occasione di lavoro. Sempre, ma soprattutto dentro la crisi.

Ed anche alla politica ci sono domande da fare. La prima è che smetta di predicare la priorità della scuola, della ricerca, della cultura, solamente quando parla con gli insegnanti, con i ricercatori, con gli uomini e le donne dei musei, dei teatri, delle biblioteche. Cominci a parlarne quando parla di economia e di industria, di welfare e di cittadinanza, e si convinca davvero che è su questo terreno che si registra oggi la maggiore arretratezza del nostro Paese, quella che rischia di mettere in scacco contemporaneamente competitività e coesione sociale.

La seconda è che si smetta di fare riforme epocali, che durano lo spazio di una legislatura. La scuola, la ricerca, la cultura, lavorano sui tempi lunghi. Non possono vedere i propri strumenti di governo e di autogoverno, le modalità di accesso all’istruzione e al sapere, l’orizzonte economico del proprio operare, cambiare, a volte radicalmente, ad ogni cambio di maggioranza. Senza che nessuno abbia valutato gli effetti di quel che si cancella, e costruito previsioni attendibili sugli effetti del nuova che avanza.

C’è bisogno su questo terreno di una discussione “costituzionale”, in cui si ridefiniscano in maniera condivisa i principi, le finalità, le regole, gli strumenti di partecipazione democratica che devono governare il mondo della cultura, della ricerca e dell’educazione.  Approfittando magari di questo periodo di costrizione all’unanimità- per il resto da superare rapidamente se vogliamo dare una risposta di sistema alla crisi- per assumere impegni condivisi e di lungo periodo che dovranno valere qualunque sia la maggioranza che uscirà dalle elezioni, dalle prossime e da quelle che verranno. Confrontandosi in maniera alta, e non tatticista e reticente, con le proposte dei ministri in carica. A partire magari dal tema della valutazione, che in questa prospettiva deve essere lo strumento centrale di implementazione e di verifica di ogni processo di cambiamento. Con una avvertenza. La valutazione ha un significato completamente diverso se è fatta per ridimensionare o se è fatta per crescere. Occorrerebbe su questo un accordo diffuso su una affermazione semplice. Tutti i risparmi derivanti dalla riduzione di sprechi o da incrementi di produttività vanno reinvestiti nel sistema del sapere. Per cominciare a colmare gli incredibili ritardi – dalla scuola per l’infanzia all’educazione per gli adulti, dal diritto allo studio alle spese per la ricerca e la cultura- rispetto agli obiettivi che assieme a tutti gli altri Paesi Europei ci eravamo dati nella ormai mitica Conferenza di Lisbona, per provare a passare dalla mitologia alla realtà.

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