Dal 20 febbraio, in concomitanza della chiusura di tutte le attività universitarie in presenza, è iniziata la didattica a distanza. Si riteneva che tale metodo innovativo fosse determinato dalla sopravvenuta situazione di emergenza, da utilizzare per il tempo necessario, fino a un ritorno alla normalità. Ma mai si era pensato – almeno credo io – che la didattica sarebbe stata guidata, oltre che nei suoi metodi, anche nei contenuti. Infatti, a parte le università telematiche che fanno dell’e-learning la ragione stessa della loro esistenza, tutte le altre ero convinto dovessero procedere secondo una pratica didattica ancorata a quella in presenza.

Tanto è vero che a partire dai primi di marzo ho tenuto le lezioni del mio corso secondo il sistema della videoconferenza oppure, dandosi agli studenti la possibilità di interagire con domande o richieste di eventuali approfondimenti tematici, avvalendomi di Microsoft Teams. Restando inteso, pareva un’ovvietà, che ciascuna lezione da remoto avesse la medesima lunghezza di quelle in presenza; vale a dire, per due ore accademiche, come in aula. In tale modo, ritenevo di applicare sia alla lettera sia nello spirito le indicazioni del rettore prof. Elio Franzini, nella sua esortazione a proseguire la didattica a vantaggio di studenti che, pagando le tasse universitarie, mantengono il diritto a un insegnamento di qualità non dissimile – nei limiti del possibile – da quello impartito in aula.
Tuttavia, da parte del Centro per l’innovazione didattica e le tecnologie multimediali (CTU) di ateneo sono arrivate indicazioni su come svolgere la didattica a distanza. Né si tratta di soli suggerimenti tecnici circa l’uso di tecnologie a cui la maggior parte dei docenti non è avvezza. Premettendosi, comunque, che ai professori universitari a oggi non viene richiesta una competenza nella didattica multimediale (per fortuna certo, ma ancora per quanto tempo?). Ma ugualmente, il CTU a “Tecnologie per la didattica – e-learning – Coronavirus – 19: Azione straordinaria di produzione di contenuti digitali per la didattica” (https://coronavirus.ctu.unimi.it/), ha emesso tra i documenti “Linee guida per una corretta creazione di moduli multimediali (videolezioni)” (con accesso diretto a www.ctu.unimi.it/download/Linee_Guida_Slide.pdf), fornendo indicazioni non solo tecniche, ma anche su come trattare gli argomenti presentati a lezione. Infatti, per la creazione di slide si indica di “preferire periodi brevi, evitando quindi la narrazione prolissa”. Ebbene, secondo il Dizionario della lingua italiana Gabrielli, “prolisso” significa “che si dilunga troppo”, e poi “eccessivamente dettagliato”, “verboso”. E ancora, sempre stando al Gabrielli, “prolisso” può significare anche “pedante”, “pignolo”. Insomma, tutta una serie di significati negativi per questo aggettivo, espressi da parte del CTU nella valutazione di merito tutta negativa, di un’ipotetica lezione fuori dai modelli da esso stesso creati, esposta secondo un ipotetico metodo sbagliato, almeno a detta di tale documento. Ma chi deve valutare presunte incisività o prolissità di un concetto disciplinare declinato nella didattica? E poi, chi si arroga il diritto di stabilire valori qualitativi alle lezioni di un docente, indicando persino come le si deve impostare? Concetti complessi richiedono, che piaccia o no, argomentazioni complesse, mentre sta alla sensibilità e alla bravura del docente farsi capire dal proprio uditorio, e possibilmente senza ricorso a schemi banalizzanti. Ma a quanto pare, nelle videolezioni preferibile evitare le argomentazioni complesse.
Ancora, si raccomanda di “preferire elenchi puntati (per mettere in risalto dei concetti o chiarire argomenti complessi)”. Che quindi possono ritornare, ma come? Con un sapere somministrato in pillole, anzi erogato – ormai si dice così, secondo una equiparazione del docente a un rubinetto o a una pompa di benzina – mediante brevi definizioni scandite da punti, alla faccia del sapere critico da trasmettere. In altre parole, auspicato un “mangime telematico” distribuito in pacchetti preconfezionati tra l’altro, come si vedrà, anche interscambiabili.
Che l’osservazione di cui sopra non sia una farneticazione paranoide, si evince dalle raccomandazioni / prescrizioni contenute nei seguenti punti successivi che si riportano testualmente compreso quanto inserito tra parentesi tonde, mentre le chiose tra parentesi quadre sono di chi scrive: “evitare di inserire riferimenti all’insegnamento per le quali le slide [per il CTU alla base dell’insegnamento a distanza] sono state create (il nome del corso e altri riferimenti possono essere inseriti direttamente nella piattaforma di erogazione [rubinetto, per l’appunto]), in questo modo le registrazioni possono essere riutilizzate per insegnamenti/corsi differenti”. E poi, “evitare riferimenti temporali (es. come vedremo nella lezione successiva, come abbiamo visto nella lezione precedente, ecc.) per potere riutilizzare i moduli didattici anche con un ordinamento differente;” inoltre: “evitare di riferirsi alla numerazione delle lezioni (es. questa è la seconda parte dell’incontro) per la stessa ragione del punto precedente.”
Dal quadro soprastante, si è fatto evidente quanto prima lasciato intravedere: lezioni ridotte a pillole interscambiabili; per cui meglio non numerarle, in modo da potere usare i “moduli didattici” anche in contesti differenti da quelli per cui sono stati impostati e secondo un ordine “altro”. In proposito, inquietante la possibilità di riutilizzare il materiale didattico di un corso per altri insegnamenti/corsi. Questi ultimi tenuti da chi? Da docenti di altre materie, magari senza il consenso di chi li ha prodotti? La lezione in aula, anche se tenuta nei locali dell’ateneo è pubblica nel senso che chiunque ha diritto ad ascoltarla, anche chi è estraneo all’università. Ma è anche di proprietà del docente, consumandosi nel momento stesso in cui le ha pronunciate: in aula verba volant. Mentre in didattica online, visa et scripta manent grazie alle nuove tecnologie.  Ma lascia perplessi che terzi, pur interni all’università stessa, possano farne uso in contesti diversi da quello in cui essa ha avuto luogo, ma non previa autorizzazione del docente, piuttosto dell’Università, diventata proprietaria della lezione. Inoltre, pare che per il CTU di Milano anche nella didattica viga la proprietà commutativa delle addizioni aritmetiche: cambiando l’ordine gli addendi – cioè i moduli non legati a una numerazione progressiva – il risultato non cambia. Forse si tratta di una novità nel campo didattico ispirata dal mondo della matematica, colpevolmente sfuggitami. Ma la lezione dovrebbe restare sempre attaccata al docente che l’ha impartita, il quale si assume ogni responsabilità di quanto detto; mentre essa, al contrario, è diventata di proprietà dell’università per la quale si è tenuto il corso. Invece ecco venire fuori, con indubitabile genialità creativa, la lezione interscambiabile, senza nome, senza un proprio numero progressivo (sic!), di pronto uso in contesti vari, scardinata da quello per cui era stata impostata. Progressi delle metodologie didattiche… chissà.
Lista delle indicazioni tutt’altro che terminata. Infatti, si tocca anche il tema della durata delle lezioni online: “È stimato che un’ora di didattica in presenza corrisponde a circa 20/25 minuti di videolezione. Si consiglia di registrare delle videolezioni di durata compresa tra i 10 minuti e i 20 minuti max.” Insomma, apoteosi della cultura in pillole, la cui erogazione deve cessare dopo 10 minuti, massimo 20. Con una stima di un’ora di didattica in presenza equivalente a 20/25 minuti di videolezione. Spontanea una domanda: durata stimata da chi? Pensare che nel mio corso di Geografia (60 ore, cdl in storia, II semestre), dovendo passare alle videolezioni dopo sole sei ore in aula e cercando di mettere in pratica l’appello del rettore, ho cercato di renderle simili il più possibile a quelle in presenza. Il che ha comportato una loro durata di 90/110 minuti ciascuna. Poveri studenti, costretti a subirsi sbrodolate di concetti e riflessioni per quasi due ore, equiparate a salvifici 40/50 minuti di videolezione e somministrati in spezzoni lunghi ciascuno 20 minuti al massimo. Ho quindi violato tutte le norme anche se, potendo tornare indietro rifarei tutto ugualmente. Anche se la videolezione non soltanto richiede una preparazione degli argomenti da presentare talora complessa proprio come quella in aula, ma anche un grande lavoro tecnico e “sotterraneo” di allestimento e di inserimento della lezione per la sua fruibilità universitaria che a me, dalle competenze informatiche meno che elementari, è costato per ognuna ben di più del suo tempo di svolgimento. E naturalmente, anche nelle presentazioni delle videolezioni ho puntualizzato, con precisione quasi ossessiva, il loro numero progressivo nel contesto delle 30 lezioni totali per 60 ore contravvenendo – anche questo con il senno di poi lo rifarei ugualmente – alle norme del CTU a cui pare sembri affidata non solo la direzione tecnica, ma anche la metodologia didattica telematica di ateneo. Critiche queste, ma senza togliere nulla al lavoro egregio del CTU, che ha dovuto fronteggiare un’emergenza scoppiata quasi da un giorno all’altro, senza che l’ateneo sia – né si spera che lo diventi, nemmeno parzialmente – un’università telematica.
Ma lo stesso, qualche considerazione ulteriore è d’obbligo. L’11 aprile 2020, su ROARS, l’articolo di Laura Angelucci, “Scuola e didattica a distanza: una riflessione”. Secondo l’autrice, si sono attuati cambiamenti nella didattica diventata online, la quale “… nei limiti temporali di una situazione contingente […] non può assolutamente configurare per la scuola, in prospettiva, nessun’ipotesi di lavoro alternativa futura”. Infatti, “tutto il lessico che descrive il lavoro agile rimanda ad una concezione del lavoro che, per statuto, non appartiene alla scuola”. Pubblicazione, la sua, che sottoscriverei interamente, senza se e senza ma, avendo avuto una pratica pluridecennale come docente di secondaria – negli anni ’80 e ’90 – prima di approdare all’università. Ma i pericoli di una trasformazione strisciante della didattica di ateneo in una struttura, anche solo parziale, di e-learning sono già percepibili. E non è la sola forma a cambiare lasciando inalterata la sostanza, ma sono le forme stesse, nella didattica che piaccia o no “vere sostanze”, a modificare fin nei presupposti tutto l’insegnamento.
Intanto l’ANVUR – neanche la pandemia riesce a fermare questa agenzia – continua a valutare i “prodotti” (cioè oggetti in stile catena di montaggio, ora che “pubblicazioni” costituisce un termine ormai desueto) dei docenti non in base alla loro qualità intrinseca, ma a seconda della classe della rivista o del prestigio della casa editrice che li pubblica. In altre parole, involucro valutato al posto del contenuto, configurandosi una metonimia involontaria degna della migliore retorica. E procedendo innanzi, a quanto appare, si mette mano alla metodologia didattica, tra l’altro da usarsi per esigenze estranee non solo a quelle dell’aula, ma eventualmente estranee anche alla sensibilità del docente.
L’ANVUR fornisce l’incipit al rullo burocratico che sta permeando, dopo la secondaria, anche l’università. Una burocratizzazione che ormai fuori controllo che alimenta sé stessa, nonostante ripetute promesse di un suo snellimento. Tra le new entry in tale senso, la “terza missione”: come principio in sé non disprezzabile, ma dopo la sua introduzione “soft”, essa è diventata prima di tutto un obbligo, almeno morale per i docenti, per non fare sfigurare il proprio dipartimento nelle valutazioni comparative. Essa però, terzo pilastro aggiunto a quelli della ricerca e della didattica, sottrae tempo ed energie al perseguimento dei primi due. Dopodiché si è aggiunta come ennesimo adempimento burocratico: gli eventi relativi non vanno semplicemente segnalati ed eventualmente messi in curriculum; piuttosto, devono venire inseriti, per via esclusivamente digitale e secondo schemi predisposti dall’Amministrazione. In caso contrario, loro riconoscimento uguale a zero. Insomma, come in ogni burocrazia che si rispetti è la “carta” – materiale o virtuale, non fa differenza – a determinare la realtà e non viceversa. Nuova gabbia burocratica, a scoraggiare le iniziative, o almeno la loro ufficializzazione. Diventate ardue a praticarsi anche azioni banali come il riconoscimento di spese per fotocopie o l’acquisto di cancelleria a uso didattico: tanto complicati da spingere a provvedervi di tasca propria. E poi, perdite tempo a compilare sempre più moduli e scartoffie anche per la didattica, vero coronamento a essa. Aggiungiamo il bisogno di segnalare “prodotti” per soddisfare gli AIR quando prima bastavano gli elenchi delle pubblicazioni a curriculum. Poi quello di corrispondere ai criteri ANVUR, carrozzone governativo che non favorisce certo una ricerca libera e disinteressata nemmeno nel ramo umanistico del sapere, ai fini di una competizione tra atenei e dipartimenti per ottenere risorse sempre più esigue. Si potrebbe andare avanti…
Tornando alla didattica, bisogna farsi una ragione che la sua standardizzazione è irreversibile, anche se questo inquieta. L’introduzione di “abilità” e “competenze” a porre ombra alle “conoscenze critiche”, di fatto svalutate da seguire la tendenza consolidata in secondaria, ha cominciato a prendere piede fin da quando con la riforma del 3+2 la preparazione professionale si è fatta “obbiettivo” (secondo un lessico militare) da perseguirsi anche in cdl spiccatamente umanistici come storia e filosofia.
Non credo che queste riflessioni provengano da un allarmismo ingiustificato, considerando la china discendente intrapresa dall’università, specialmente nell’ultimo decennio, che ha visto il corpo docente passivo in proposito, salvo lamentele di corridoio assolutamente inutili. Come le anime nel Paradiso dantesco poste nel cielo della Luna astro che non brilla di luce propria, le quali in vita si erano distinte per mancanza di determinazione e per la tendenza alla sottomissione passiva, da ridursi in cielo a un’apparenza di ectoplasmi non riconoscibili come “sostanze” dal Poeta, che come la Luna non brillano di luce propria. Ecco le parole di Beatrice: “vere sustanze son ciò che tu vedi, / qui rilegate per manco di voto” (Par. III, 29-30). Ma forse anche troppo il cielo della Luna per i professori universitari italiani, trattandosi pur sempre di Paradiso. Infatti, l’inerzia del corpo docente raggiunge vette eccelse, altro che Piccarda Donati. Basti considerare il rifiuto al boicottaggio quasi generale della prima VQR. In proposito, davanti a un provvedimento iniquo a danno dei soli universitari tra tutti gli alti dirigenti dello Stato non contrattualizzati (parlamentari, magistrati, ufficiali superiori delle Forze Armate), l’accademia a parte qualche inutile mugugno ha messo la testa sotto la sabbia.
Infine, riguardo ai passi verso la sottrazione di spazi alla libertà didattica, si deve alla collega Ana Millan Gasca la citazione di un passo di Filostrato (su ROARS, 12 aprile), che recita: “Gli dei conoscono il futuro, gli uomini ciò che accade, i saggi ciò che si avvicina”. Non sta a me dire che sono saggio, ma anche senza che io lo sia, nessuna altra definizione mi sembra più azzeccata in relazione all’università (e alla scuola) nei giorni nostri.
Ma per fortuna, l’articolo 33 primo comma della Costituzione repubblicana non è stato ancora abrogato anche se, con l’aria che tira alimentata dall’emergenza della pandemia, a qualcuno comincia ad andare stretto. Né, sono convinto, vi sia bisogno di eliminarlo tout court: basta disapplicarlo a piccoli step magari a colpi di circolari, ai fini di una standardizzazione e semplificazione dei contenuti didattici trasmissibili.

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50 Commenti

  1. Ringrazio il collega Angelo Farina per le sue precisazioni, con le quali mi trovo completamente d’accordo, compreso la risposta data da lui stesso alla prima delle due domande. Quanto all’altra domanda, ecco la risposta. Prima di tutto l’ateneo non offre alternative, dicendo piò o meno: “Per continuare la didattica del semestre bisogna ricorrere alla dad. Altrimenti si perderà l’intero a.a. in corso. Le strutture idonee perché la dad venga riconosciuta le indichiamo noi; ma per accedervi i docenti devono uniformarsi alle regole di ateneo, altrimenti non se ne fa niente. Anzi, indichiamo anche come esporre i concetti in videolezione e i tempi di queste, diversi da quelli della didattica in aula.” Dunque come dovrebbe comportarsi un docente, soprattutto di ssd umanistici non avvezzo a raffinatezze tecnologiche digitali? Si trova costretto ad accettare, tutt’al più ignorando le indicazioni metodologiche e sulle tempistiche. Poco credibile un docente di Studi Umanistici versato non solo nella propria materia ed eventualmente in quelle limitrofe (io geografo sono docente di una disciplina di “confine” per eccellenza che attinge spesso da altri saperi), ma anche nel campo del digitale. E non solo: versato pure nell’invenzione di strumenti ad hoc, modellati per una migliore riuscita dei propri corsi. Dei quali, tra l’altro, se l’università li riconoscerà diventeranno di sua proprietà sia i suoi contenuti sia le strutture in cui vengono impartiti. Va bene il diritto al libero accesso del sapere. ma da qui al plagio vero e proprio non corre molta distanza.

  2. ringrazio anch’io l’ing. Farina per le sue precisazioni, ma mi associo alle obiezioni di Violante. non c’è la possibilità per il singolo, qualora fosse anche così esperto in tecnologie digitali, di opporsi a scelte che o sono dall’alto imposte e guidate o sono comunque quelle che offre il mercato con le sue spietate leggi. sono personalmente molto curioso di applicativi diversi da quelli predominanti (come vivaldi e libreoffice o jitsimeet o telegram ecc. – senza farmi illusioni sulla loro dichiarata libertà) ma se la stragrande maggioranza usa un altro prodotto è con quello che bisogna fare i conti (forse, ma accetto suggerimenti!). ribadisco però che la discussione a mio avviso NON deve avvitarsi su questo aspetto secondario, quanto su quello principale: la didattica NON deve essere a distanza se non in casi limitati, circostanziati, a tempo determinato, ecc. insomma eccezionalmente. così come la caccia al cittadino fatta coi droni non vorremmo mica che la d-a-d diventi la norma?

  3. Il Corona virus accelera la trasformazione dell’università?

    Sarebbe atroce che le lezioni dal vivo “scomparissero”, in uno scenario alla Philip Dick, sotto la spinta delle aziende del digitale (si apre un mercato ancora più sterminato), dell’intento sconsiderato di tagliare la spesa pubblica e dell’ideologia del controllo che piega a tale scopo le tecnologie dell’informazione. Quindi il virus potrebbe spingere in tal senso e siamo tenuti a vigilare. Appare molto preoccupante che le autorità accademiche non inizino a pensare concretamente e organizzare e provvedere a quanto necessario per svolgere tutta o parte della sessione degli esami nelle aule universitarie, partecipando allo sforzo collettivo per ripristinare la vita economica, sociale, politica con le necessarie cautele.

    Tuttavia, vi è un gran numero di persone che vuole fare studi superiori e non riesce a frequentare l’università nella sua forma originaria, non se lo può permettere. Molti di questi, in Italia, sono iscritti alle università pubbliche (quindi non telematiche). Anche se questo paese lanciasse una politica decisa e lungimirante di borse di studio, ci sarebbe sempre gente desiderosa di seguire corsi e avere un contatto a distanza con l’università.
    Quindi il Corona virus accelera il nostro impegno ad occuparci di questi studenti con competenza, immaginando canali e forme che preservino l’incanto e la bellezza della vita universitaria anche per chi non può se non sporadicamente stare in aula.

    Ciò implica aspetti tecnologici, relativi a cose come la qualità del suono e dell’immagine e degli ambienti didattici digitali: e siamo stati posti di fronte di colpo a ciò che bolle in pentola, quindi è stato meglio venire a sapere con ritmi accelerati cose interessanti e promettenti e altre su cui vigilare, cose come Respondus (“sorvegliare e punire”).

    E ciò implica anche aspetti espressivi, estetici, comunicativi e didattici. Bisogna essere all’altezza (non sostituire) la “drammaturgia istantanea” e il dinamismo che rende l’atmosfera densa di pensiero e domande, di parole e sguardi nell’incontro in aula. Ad esempio, curando la grafica (viviamo in un epoca di creatività sterminata in tal senso, non c’è solo Microsoft e i disegnini di Google sotto il cielo). Ad esempio, valorizzando la voce e l’ascolto e lavorando sulla “sceneggiatura”, dimensioni delle arti dal vivo che l’insegnamento universitario potrebbe coltivare, come il ritmo e la complicità comunicativa e la dimensione di gioco-mimesi del sapere: io, caro Violante, ho scartato radicalmente la lezione in streaming e costruito altro proprio perché penso che la lezione dal vivo è altro necessariamente, e ho visto molti ragazzi schiacciati da ore e ore collegati agli schermi (mentre in aula c’è un altro trascinamento e coinvolgimento; se il prof è un po’ una frana almeno ci sono i compagni!).
    La Open University e altre università a distanza virtuose del dopoguerra (o del ante-coronavirus) hanno ideato così molte cose che sono state di ispirazione alle università in generale.

    Certo piegarsi a quello che offre il mercato in termini tecnologici e basta significa farci imporre da sviluppatori di software (con tutto il rispetto) quello che si intende per formazione e vita universitaria. Ci sono editori commerciali e ciò è sacrosanto, ma ci sono anche le university press per preservare la scrittura accademica dall’essere cancellata dalle spinte del mercato. La cosa giusta sarebbe quindi, anche per la didattica a distanza – un’opzione giusta per un’istruzione universitaria che vuole raggiungere i più – fare ciò che l’università sa proprio fare: fare ricerca e pensare e progettare proposte in equipe interdisciplinari, che qualcun altro può far diventare anche un prodotto commerciale; eventualmente sviluppare piattaforme e altri software per il nostro uso.

    Ma il fatto è che ciò che l’università sa fare, oggi non ce lo fanno fare più. Oggi dobbiamo prepararci alle ispezioni dell’ANVUR e cercare di essere attrattivi (di fondi) e terzamissionari.

  4. Infarti, dobbiamo cercare di dire e far valere la nostra. Nel merito della didattica, si tratta di essere docenti veri o ripetitori, di incoraggiare studenti che sappiano essere altro che ripetitori di parole-chiave. Ci vuole una scuola, persone che si sono formate in modo critico e che perciò possono seguire e apprezzare i percorsi degli altri. Libertà riassume tutto.

  5. Rispondo a Mariam, che chiedeva dove trovare istruzioni ed indicazioni su metodi, software e piattaforme.
    In giro c’e’ un mucchio di roba, anche se spesso e’ “di parte”.
    Anni fa avevo realizzato una piccola guida sulla videoregistrazione delle lezioni col software open source Camstudio, che trovi qui: http://www.angelofarina.it/Public/Camstudio/
    Peccato che la Microsoft abbia reso impossibile il funzionamento di Camstudio in Windows 10…
    Quest’estate conto di rilasciare una guida aggiornata, a valle delle esperienze di questa primavera.
    Qui vi do’ solo alcuni spunti.
    1) Soprattutto nei corsi NON teledidattici si e’ rivelato assai utile per gli studenti rendere disponibile materiale di supporto via Internet (dispense, libri, immagini, suoni, musica, slides Powerpoint, audio e video registrazioni delle normali lezioni fatte in classe). Io carico tale materiale sul mio sito web personale. Secondo me ogni docente dovrebbe avere una pagina web personale, liberamente accessibile a tutti, con le informazioni di contatto ed il materiale didattico “pubblico”.
    I vari Moodle di ateneo, invece, secondo me non vanno bene, perche’ rendono i contenuti accessibili solo agli studenti iscritti a ciascuno specifico corso.
    2) Le videolezioni possono essere in tre diversi formati:
    a) file video (AVI o MP4) che lo studente si scarica quando e dove ha accesso ad Internet, e se lo guarda poi quando vuole, anche senza connessione.
    b) lezioni pre-registrate ma visualizzabili solo in streaming, tramite portali dedicati come i Moodle di ateneo, o semplicemente con Youtube, Facebook, etc.
    Questi contenuti sono fruibili quando si vuole, ma solo se si e’ connessi ad Internet e la qualita’ audio e video e’ buona solo se la connessione e’ veloce e stabile.
    c) Lezioni interattive in “classe virtuale”, usando piattaforme come Google Meet, MS Teams o Zoom.
    Qui ovviamente si vede la lezione solo se ci si collega il giorno giusto all’ora stabilita, a meno che ovviamente qualcuno la registri, ricadendo cosi’ in uno dei due casi precedenti.
    Il pregio (teorico) della lezione interattiva e’ che gli studenti possono interloquire col docente, chiedendo spiegazioni, etc.
    Per gli studenti di solito a) e’ meglio di b), e c) e’ assai poco gradita.
    Ora che la didattica standard ci e’ impedita dobbiamo per forza usare anche la lezione interattiva c), se no perdiamo ogni contatto con gli studenti.
    Ma in condizioni normali, secondo me c) deve scomparire, e si dovrebbe puntare soprattutto su a), come ausilio agli altri materiali di supporto del corso. Queste videolezioni sono utili in pratica solo agli studenti che han perso una lezione e la vogliono recuperare almeno in parte.

  6. Grazie! Mi interessa molto. Anche come scambio di opinioni. Credo che possa essere molto utile anche se ci rendiamo conto che parte dei frequentanti ha problemi nel seguire. Si potrebbero costruire lezioni integrabili con quelle in presenza per guidare man mano all’autoformazione.

  7. Sulla base dell’ esperinza con un corso con più di 100 studenti direi che una buona parte di loro ha problemi, al di à delle ottiimistiche dichiarazioni ufficiali. Parte dei problemi sono legati a difficoltà tecniche. Parte a difficoltà di altro tipo. Una delle più frequenti è il calo di attenzione durante lezioni in streaming. Come docenti dovremmo essere in grado di diagnosticare il problema e trovare soluzioni.
    Ma non “si nasce imparati”. In quante sedi c’è stata un’ analisi della situazione ed un supporto per i docenti.? Temo molto poche, se ce ne sono.

    Però il consiglio di semplificare e accorciare i tempi della lezione tradizionale va esattamente in questa direzione.

    Per cui le problematiche correlate alla risposta all’emergenza sono tante e non appiattibili sullo stereotipo dl una “qurelle des anciens et des modernes”. Una buona misura di questo direi che è data dal non piccolo numero di commenti che questo articolo ha innescato.

  8. Concordo completamente con le opinioni di Ana Millan Gasca. Per parte mia, ribadisco che la dad non è didattica, è altro. Utile come rimedio di emergenza per salvare l’a.a. in corso e forse, chissà, anche il prossimo. Ma per me la cosa finirà lì, non essendo la mia un’università telematica. Ottimo anche il suggerimento di Farina di creare, per ogni evenienza, un sito web personale e di libero accesso: in fondo la didattica in aula è aperta a tutti coloro che vogliano assistervi, non importa se iscritti all’università o no.
    Fondamentali, credo, anche le ultime osservazioni della collega Millan Gasca. Siamo entrati in università per svolgere didattica e ricerca. Ricerca un’era fa orientata alla progressione del sapere con pubblicazioni (anche poche) innovative e brillanti, mentre oggi finalizzata al superamento delle soglie ASN sia per l’idoneità a una fascia di docenza superiore sia per fare superare al proprio dipartimento di afferenza l’ispezione ANVUR incombente. Il tutto secondo criteri quantitativi e con prevalenza dei contenitori sui contenuti (tipo, tante monografie, tanti articoli in classe A, ecc.), con risultati contradditori e talora anche assurdi. Mi trovo in un dipartimento soggetto alla prossima ispezione ANVUR. Attualmente io PA soddisfo una sola condizione su tre circa la soglia ASN per la mia fascia. Ma ne soddisfo due su tre sia per la soglia ASN per diventare PO sia quella, con asticella posta ancora più in alto, per diventare commissario di ASN. Criteri a geometrie variabili come anche quelli per l’accesso ai collegi didattici dei dottorati, a seconda delle finestre temporali entro cui ci si trova incasellati. Negli ultimissimi anni ho rallentato il ritmo delle pubblicazioni (o, meglio, dei “prodotti”), avendo preferito concentrarmi nella ricerca e nella stesura relative a una monografia, pur consapevole che il risultato finale, in termini di valutazione ministeriale, sarà inferiore a quello di un articolo di una sola pagina su rivista di classe A. Infatti a me, a carriera finita questo non importa niente. Tra l’altro, dico con orgoglio di essere stato respinto a due domande di abilitazione a PO. Per la prima volta, anche se soddisfacevo tutti i requisiti formali richiesti per tale ruolo e con una valutazione delle pubblicazioni interamente positiva con una motivazione del TAR a cui avevo fatto ricorso, secondo la quale pur avendo io avuto ragione nel merito, si doveva riconoscere alla commissione la più ampia discrezionalità. Alla seconda, al fine di evitare una nuova impugnazione da parte dell’interessato, le medesime pubblicazioni giudicate idonee alla tornata precedente, erano diventate di valore scientifico “scarso” o “nullo”. Non parliamo poi della terza missione, imposta senza chiedere prima qualche parere agli interessati, nonché ingabbiata in una ennesima cornice burocratica da fare perdere ogni voglia di registrare eventi configurabili in essa. E tutto questo, in un silenzio glaciale da parte dei 50.000 docenti strutturati italiani, che a quanto pare più e meglio degli struzzi digeriscono tutto, cacciando poio la testa sotto la sabbia.

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