I GIOVANI STANNO LASCIANDO IL SUD. E QUELLI CHE RESTANO,STANNO LASCIANDO GLI  STUDI.

La nuova divaricazione è drammatica, perché è sia tra il Mezzogiorno e il resto del Paese, sia tra il Mezzogiorno e l’alta formazione. La conferma viene dal Rapporto sullo stato del sistema universitario e della ricerca 2013 reso pubblico nei giorni scorsi dall’Anvur, l’Agenzia nazionale per la valutazione dell’università e la ricerca. La crisi dell’università riguarda l’Italia intera. Perché se il numero di laureati dal 2005 al 2011 è stabile intorno ai 300.000 l’anno, il calo delle immatricolazioni è netto. Dalle 338.000 raggiunte nell’anno accademico 2003/2004 si è scesi ad appena 270.000 nel 2012/2013, con una perdita secca del 20%. È un’autentica fuga dall’università. Un dato allarmante per l’intero Paese. Visto che, secondo l’Ocse, il numero dei laureati in Italia raggiunge appena il 20% della popolazione in età compresa contro i 25 e i 34 anni; contro il 40% della media Ocse; il 60% circa di Giappone, Canada e Russia; il 64% della Corea del Sud. Certo, la frase è abusata: ma come dirlo, altrimenti? Con queste disparità, l’Italia si sta giocando il proprio futuro e il proprio ruolo nel mondo.

Basterebbero solo questi dati a imporre di portare il problema dell’università italiana in cima all’agenda politica del Paese. Ma l’allarme raggiunge un livello, se possibile, ancora più alto quando si analizza la distribuzione geografica della fuga. Le immatricolazioni, infatti, sono in calo del 10% al Nord, del 25% al Centro e arrivano addirittura al 30% nel Mezzogiorno. Sono dunque i giovani del Sud quelli che fuggono dalle università. Proprio i giovani di quelle regioni in cui la crisi economica morde di più e in cui la sola risorsa possibile su cui puntare è la cultura. Sono i giovani del Mezzogiorno che stanno rinunciando a considerare la formazione come un’opportunità. È stata la crisi economica che ha determinato una divaricazione di percezione: nell’anno 2005/2006, infatti, i giovani meridionali iscritti all’università aveva raggiunto quello dei giovani settentrionali (674mila contro 679mila). Nei sei anni accademici successivi, i giovani settentrionali iscritti sono leggermente aumentati (fino a 685mila), mentre il numero dei giovani meridionali è crollato a 613.000 (meno 9,2%).

Questa fuga dei giovani meridionali dalle università modifica i termini dell’antica e mai risolta «questione meridionale». Che ora non è più solo economica e sociale. Ma è sempre più una questione, appunto, culturale. Che non è una dimensione eterea. Al contrario, è una dimensione che ha effetti concreti. Continuando ad analizzare i dati, infatti emerge, che tra i pochi giovani meridionali che si iscrivono all’università, uno su quattro (il 25,4% del Mezzogiorno continentale e il 25,0% delle Isole) sceglie un ateneo fuori dalla propria regione. Contro il 9,0% dei giovani del Centro, l’8,8% dei giovani del Nord-Est e l’8,0% dei giovani del Nord-Ovest. Una quota parte importante dei giovani meridionali che si iscrivono fuori regione, va a studiare nelle università del Centro e del Nord. Dunque a lasciare il Sud non sono solo i laureati (170.000 negli ultimi dieci anni, secondo un recente studio di Unioncamere) che non trovano lavoro dalle loro parti, ma anche gli studenti.

Ci sono dunque due fughe dei giovani meridionali. Una dagli studi superiori. L’altra dalle università del Sud verso le università del Centro e del Nord. Entrambe stanno determinando l’erosione della classe dirigente futura. Ma l’emorragia dei giovani è tale che, si calcola, una regione come la Basilicata potrebbe subire un vero e proprio calo demografico, con una popolazione che potrebbe diminuire di 50.000 unità su 574mila (quasi il 10%) nei prossimi anni. Tutto questo il Sud non può permetterselo. Ma neanche l’Italia può permettersi un Mezzogiorno sempre più deprivato di giovani, di cultura e di classe dirigente. Come se ne esce? La domanda è della massima urgenza. E la risposta, in tutte le sue articolazioni, prevede un urgente intervento di natura politica. Prevede che la politica ponga la «nuova questione meridionale» in cima alla sua agenda. Certo, occorre muovere le leve economiche. Per far sì che emerga, nel Mezzogiorno e non solo nel Mezzogiorno, un nuovo sistema produttivo che chieda giovani altamente qualificati.

Ma occorre anche modificare profondamente quella politica dell’università che da anni sta spostando risorse, finanziarie e umane, dalle università del Sud verso le università del Centro e soprattutto del Nord. Certo, molti atenei meridionali devono migliorare la qualità della didattica e della ricerca. Devono riformare se stessi, per espungere ogni forma di nepotismo e di cattiva organizzazione. Ma non è chiudendole o ridimensionandole, che si risolve il problema della qualità delle università nel Mezzogiorno. Al contrario: solo una politica di espansione, con più risorse finanziarie e umane, può aiutare l’intero sistema universitario e l’intero Paese a uscire dalla condizione di marginalità cognitiva (e, quindi, economica) in cui ci stiamo cacciando.

(Già pubblicato su L’Unità)

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20 Commenti

  1. Non voglio e non ho gli strumenti e le competenze per affrontare una questione così complessa che parte dalla fase iniziale del processo di unificazione italiano. Credo pero’ che un elemento sia caratteristico dell’ intera questione meridionale e che si ritrovi pari pari dentro la questione delle università meridionali (anche perché’ la seconda e’ ovviamente una neanche troppo piccola parte della prima).
    Si tratta della inadeguatezza (la parola non e’ quella giusta ma non mi viene un altro termine politicamente corretto) delle classi dirigenti, non solo per formazione ma soprattutto per dei caratteri tipici della borghesia del Sud, mi scuso se indegnamente mi permetto di richiamare Salvemini e soprattutto Paolo Sylos Labini.
    La Germania dopo la riunificazione ha riempito le università’ dell’ Est di forze nuove, fresche e non connesse con le governance precedenti. Forse andrebbe fatto lo stesso invece di pensare a chiudere gli atenei meridionali, come i soliti economisti da salotto TV vanno teorizzando.

    In modo “tranchant” direi che non vanno chiuse le università del Sud ma ripulite dalla classe dirigente degli ultimi 20 anni.
    Il licenziamento in tronco di un certo numero di costosi professori ordinari (ex rettori, presidi…) libererebbe alcune risorse
    su cui reclutare forze nuove e giovani cui dare subito le leve del comando.
    In Italia ci sono parecchi “precari della ricerca” e persone di valore emigrate, cui potrebbe essere offerto un posto con il vincolo di trasferirsi in modo effettivo per 10/15 anni in realtà meridionali e aiutare a crescere persone del posto fuori dagli schemi clientelari, famigliari etc..

    Il modello messo in piedi ora mi pare dire, sei uno sfogato del Sud? bene Se hai i soldi studia al nord se no pizzettaro in Germania (se ti dice bene).
    Oppurei rimane sempre la Mafia SpA …

    • Questa considerazione è solo parzialmente causa del problema. E’ certamente vero che molte Università del Sud nate negli ultimi decenni sono state spesso utilizzate per parcheggiare docenti ed amministrativi di dubbio valore richiamati dall’idea di una facile carriera ma non è solo questo. Ci sono molti docenti ed amministrativi invece validissimi che svolgono il loro lavoro in maniera eccellente.
      Il problema principale del Sud Italia resta la mancanza di un tessuto produttivo in cui iniettare innovazione e competenze. Spesso le aziende lavorano con la pubblica amministrazione e non hanno neanche bisogno di chissà quale innovazione. Ho visto tantissimi giovani validi laurearsi e doversi spesso accontentare di lavorare come operatore data entry pur di non dover andare via. Ed allora il problema è lo stesso di tutta Italia, la mancanza di incentivi per la creazione di aziende. E’ inutile continuare a giocare con le leggi che regolano il mercato del lavoro perchè ormai è chiaro che nessuna legge crea lavoro. Invece dovremmo puntare con decisione a dare continuamente opportunità di creazione di nuovo lavoro ai giovani.

  2. “Certo, molti atenei meridionali devono migliorare la qualità della didattica e della ricerca. Devono riformare se stessi, per espungere ogni forma di nepotismo e di cattiva organizzazione.”
    ———————————————————
    Ovviamente il problema esiste e va eliminato, ma non è centrale nell’argomento dell’articolo.
    Esistono, al Sud, corsi universitari che hanno qualità della didattica e della ricerca almeno paragonabili a quelle del resto del Paese, “isole” chiaramente visibili nei vari esercizi di valutazione (CIVR, VQR e anche dati ASN): ma i ragazzi vanno via lo stesso, soprattutto dopo la triennale. La ragione è semplice e chiarissima, ed è indipendente da qualità di ricerca e didattica: vanno, spesso, ad iscriversi altrove alla magistrale perché pensano, a ragione, che alla fine di quel biennio risuciranno ad “inserirsi” nel tessuto sociale ed economico della zona in cui sono andati a studiare, quello sì veramente differente tra le varie aree del Paese. Emigrano, insomma, non per studiare meglio, ma per trovarsi “laureati” nelle zone dove è più facile trovare lavoro; e, dalla loro prospettiva, non fanno male. Fanno, è vero, male al Paese: ma non è certo colpa loro, né, in generale e con tante eccezioni, delle univeersità meridionali.

    • Non sono d’accordo con l’idea che un sistema universitario internazionalizzato e dinamico non possa avere un effetto sul territorio che lo circonda e che i giovani del sud possano solo predisporsi a emigrare. Credo invece che, con le dovute eccezioni, i gruppi dirigenti degli atenei meridionali si siano colpevolmente perfettamente integrati con il tessuto sociale circostante e spesso ne siano stati una fedele rappresentazione. Tanto per citare un esempio di spinta in direzione opposta e positiva, l’universita’ di Catania e la ST Microelectronics hanno per anni mandato avanti una attività congiunta di alta qualità tecnico-scientifica con ricadute fortissime sul territorio. Merito di un docente catanese doc, ora scomparso, che dopo la scuola normale e altre esperienze internazionali aveva portato una forma mentale diversa.

    • Ormai se ne vanno anche quelli che si laureano al nord. Fino a quando regge, l’università aiuterà un po’ di giovani a costruirsi un futuro all’estero. Poi non reggerà più e amen.

    • da univ. del nord: non sarà con le stesse percentuali del sud, ma i triennali di qui se ne vanno all’estero a prendere una magistrale per esattamente gli stessi motivi indicati nel commento di occhiuzzi. se ne vanno anche a costo di pagare rette molto molto maggiori delle nostre: è proprio l’attrattiva del mercato del lavoro che li spinge.

      ps in misura ancora maggiore (anche se si tratta di cifre infinitamente minori) se ne vanno i laureati magistrale a fare il dottorato all’estero.

  3. il MIO DISCORSO RIGUARDA TUTTA LA NAZIONE, NON IL SUD:

    riprendo un mio intervento che ho lasciato, su un precedente articolo, che riguardava la domanda se è meglio laurearsi o andare a lavorare subito:

    la mia PROVOCAZIONE è: non vi laureate, andate a lavorare a 19 anni, subito,

    e spiego perché: nel settore della PUBBLICA AMMINISTRAZIONE, i TITOLI NON CONTANO, QUINDI è INUTILE LAUREARSI e progredire!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!

    LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE (non l’università) ESCLUDE I CURRICULA DEI CANDIDATI!!!!!!!!!!!

    se io, precario della ricerca, con tanto di pubblicazioni e libri, vado a fare un concorso nella PUBBLICA AMMINISTRAZIONE (esclusa l’università, che a quanto pare, non mi vuole), devo fare 3 prove scritte e 3 o 4 orali.

    I miei titoli (articoli, libri, contratti di insegnamento, progetti di ricerca) valgono punti ZERO.

    Alla PA non importa se il curriculum di una persona contenga esperienze importanti (se hai lavorato nella banca d’affari più grande del mondo per 10 anni, certamente non sei un fannullone, dai sicuramente segno di affidabilità, ma questo alla PA non importa,

    nei concorsi pubblici, devi ristudiare 5 o 6 manuali e rimetterti a fare i temi e le prove di interrogazione orali.

    è possibile che risulti come un neo-laureato? alla pari di esso, dopo 10 dalla laurea e con un curriculum grosso?

    Questo è scandaloso!!!!!!!!!!!

    c’è qualcuno che sa darmi una risposta?

    Grazie

  4. L’analisi di Piero Marcati è totalmente corretta e va direttamente al punto. La responsabilità delle classi dirigenti meridionali in quella che è ormai una rovina di dimensioni difficilmente contenibili, è evidente, ed è un fatto che trova riscontro comune nella storiografia del meridione. Le università meridionali devono aprirsi, limitare l’inbreeding, cercare di prendere persone da fuori in base a parametri di qualità. Le scuse, troppo spesso ripetute da docenti e soprattutto, non a caso, rettori, basate sul difficile contesto economico e sociale, non reggono. Gli stipendi sono pubblici e sono gli stessi, e paradossalmente sono più competitivi rispetto a quelli del nord del paese. Questo è un momento abbastanza difficile, ma come tutti i momenti di crisi può diventare un’opportunità: molti giovani italiani di grande qualità oggi sono costretti ad andare all’estero. Gli atenei meridionali facessero loro offerte, aprissero le loro porte a chi viene da fuori: potrebbe essere l’occasione di prendere persone di valore a buon mercato. La persone verrebbero, a molti il clima e i paesaggi meridionali non dispiacciono. Fino a quando non vedremo questo, non potremo non constatare elementi di corresponsabilità nella situazione attuale.

    • Penso che questa sia la prima volta (e penso anche l’ultima)
      che rispondo a un post.

      Lo faccio per riportare alcune esperienze personali, FATTI, e lascio a voi il giudizio.

      Per ovvii motivi, che capirete leggendo il seguito, ho dovuto mantenere l’anonimato.
      Spero che FSL sia clemente.

      FATTO 1) Sono commissario di un concorso di ordinario in una sede del sud Italia.
      Alcuni candidati del concorso si sono recentemente abilitati come prima fascia nell’ASN.
      Sono candidati di valore e lavorano in università del centro-nord. Nelle more del concorso ho avuto modo d’incontrarli e ho chiesto loro:”Sei interessato? Anche se partecipa un locale, la sede chiamerà chiunque vinca. Io posso espormi per te e sono sicuro che la commissione sarebbe favorevole”. Dei 5 intervistati, tutti mi hanno risposto “No, grazie. Spero in un paio di anni che qualcuno mi prenda come ordinario in una università dei paraggi”. Quindi, non hanno la certezza, e secondo me, passeranno più di due anni. Considerate che 2 di loro sono di origine meridionale.

      FATTO 2) Sono stato commissario in uno degli ultimi concorsi a RTI a Bari. In accordo con il membro interno avevamo fatto una short list con tre candidati: due del centro-nord e uno di Roma. Nessuno di loro si presento’ all’orale. Precedentemente contattati, tutti e tre ci dissero che preferivano aspettare che accettare il posto RTI a Bari. Vinse un quarto candidato, pugliese, accettabile.

      FATTO 3) Un ricercatore di origini della città della mia università (sud Italia), che attualmente insegna in una università del centro-nord, ha avuto l’idoneità ASN sia come associato che come ordinario nel mio settore scientifico. Lui è di un altro settore scientifico e non ha mai lavorato nel mio dipartimento. Gli ho offerto di venire nella mia università e promesso che avrei lavorato per fargli avere la promozione a ordinario, quando fosse stato possibile. Mi ha risposto che se non lo avessero preso come associato nell’università dove attualmente lavora (e dove non ha chance di diventare ordinario), avrebbe preso in considerazione la mia proposta.

      FATTO 4) Dopo le mie peregrinazioni in giro per l’Europa come post-doc, e dopo che varie università del centro-nord mi avevano sbattuto la porta in faccia (reclutando i loro locali. Ma quelli sono “outstanding” ….), accettai un posto di ricercatore (fu bandito in ordine temporale, non perche’ cercavo l’università blasonata) in una sede del sud Italia. Mi trasferii lì con la mia compagna. Fui testimone della “calata” degli associati dell’ultimo concorsone nazionale (anni 90). Dopo uno-due anni non ne rimase uno! Tutti arrivavano il lunedi’ e andavano via il mercoledi’. Dopo aver concluso il corso non si vedevano piu’. Ricordo che tutti mi dicevano che “erano di passaggio e che non potevano investire in quel posto” (dove sarebbero diventati ordinari facilmente perche’ c’erano le risorse), e che dove “loro vivevano avrebbero avuto la possibilità di grandi soddisfazioni scientifiche che la sede attuale non poteva minimamente garantire”. Devo dire che da quando sono tornati a casa non ho sentito di grandi avanzamenti in quel settore. Probabilmente, io non sono in grado di capire. Certo, se guardiamo all’IF o H-index non mi sembra che siano meglio di me. Ma sappiamo bene che questi indici non sono una buona misura della qualità!

      Potrei continuare. Ma mi fermo qui. Spero di non essere bollato (apoditticamente) come VITTIMISTA MERIDIONALE, come il povero Continillo.
      A proposito vorrei dire qualcosa in merito e non per lanciare un nuovo flame. Ho seguito su ROARS l’intervento del prof. Figà-Talamanca, e devo ammettere che il sarcasmo con cui accompagnava i risultati di alcune università del centro sud, mi ha abbastanza irritato. Io capisco gli argomenti del prof. Figà-Talamanca, ma quel sorrisetto …. non l’ho mandato giu’. Che ci volete fare, noi meridionali siamo un po’ suscettibili.

      Non posso negare che esistano FATTI totalmente contrari a quelli da me esposti. Ma a tutti quelli che hanno la verità in tasca e che discettanno delle classi dirigenti del sud, io vorrei chiedere cosa può fare quella parte di classe dirigente che vorrebbe cambiare? Classe dirigente che c’e’, vi assicuro esiste. E, comunque, non e’ una questione di panorami, ma di serietà e abnegazione, che difficilmente si trova nella classe dirigente italiana (presa in toto).

      Un caro saluto.

      P.S.=come scrive De Nicolao, presto (e in alcuni settori è gia’ così), la mitica classe dirigente del nord (quella che recluta i suoi candidati locali, per intenderci), dovrà cominciare a fare il conto con quei laureati che vanno in Germania, Francia, etc. e non tornano facilmente. A meno che metti sul piatto un bel po’ di quattrini e fringe benefits.

  5. Forse vivo in un altro paese, ma come si attraggono ricercatori validi “da fuori”? Non si può assumere nessuno, né giovane né vecchio. Non ci sono fondi per la ricerca, ed anche ad averne da finanziatori non italiani (i famosi ERC) come lavorare in dipartimenti desertificati dove non si riesce neanche a pagare la manutenzione delle strumentazioni esistenti ed è impossibile acquisirne di nuove.

    Il futuro non offre migliori orizzonti, per reperire risorse per il bonus irpef, tanto per essere fedeli alla linea Gelmini-Profumo-Carrozza leggo sul sito di Repubblica di oggi:”A Palazzo Chigi, ieri, il testo del decreto non era stato consegnato alla stampa. Oggi, però, una bozza circolante tra i rettori della Conferenza delle università (porta la data, 18 aprile, e l’ora, 16,46, del Consiglio dei ministri) al comma 6 articolo 50 parla in maniera esplicita di una sottrazione di 30 milioni al Fondo di finanziamento ordinario delle università per il 2014 (oggi ammonta a 7 miliardi di euro) e di 45 milioni per ogni anno a partire dal 2015.

    Il titolo dell’articolo del decreto spending è “disposizioni finanziarie” e recita: “Per l’università la razionalizzazione della spesa è assicurata attraverso la riduzione della dotazione del Fondo di finanziamento ordinario” (istituito nel 1993 e nelle ultime due stagioni in calo). Inoltre, una “razionalizzazione della spesa” generale viene assicurata attraverso una riduzione del Fondo ordinario per gli enti di ricerca, a eccezione dell’Invalsi. In questo caso l’ammontare della “razionalizzazione” non è stata quantificata.”

  6. Sarebbe interessante conoscere più in dettaglio le singolari esperienze di Prometheus, ma l’anonimato non permette (l’anonimato conferma tra l’altro una certa ritrosia a parlare apertamente così tipica di certi ambienti accademici, che certo non proietta un’immagine favorevole degli stessi). In ogni caso, mi permetto di dare un consiglio, per appurare alcuni FATTI. Collegarsi al sito delle università in questione, andare sulla pagina del reclutamento, e calcolare la percentuale di assunti con formazione (dottorato o post-doc) effettuata in loco o in università limitrofe. Calcolare poi anche il numero di concorrenti esterni (per vedere che non è così basso). Bisogna poi infine anche ricordare che in certi posti, dopo che per tanti anni si è fatto inbreeding, i candidati esterni possono ritenere assai inutile e inutilmente dispendioso partecipare a valutazioni comparative, come io, nella mia esperienza, ho potuto constatare. Su una cosa concordo però col collega (?) Prometheus: la classe dirigente del nord non è certo di grande livello. E lo dico da meridionale.

  7. Omerta’. E’ il termine giusto per definire la “ritrosia a parlare apertamente” citata da Mingione. Sebbene questa sia, oltre al vittimismo, una delle caratteristiche delle classi dirigenti del sud, non è il mio caso . Come ho scritto sono uno dei commissari della succitata valutazione comparativa. Non appena saranno pubblicati gli atti riceverai prontamente una mia email con saluti.

    Riguardo l’inbreeding, non mi sembra che nelle altre sedi vi sia questo evidente “mischiare di sangue”, come diceva Profumo. A Bergamo trovo colleghi di Bergamo, massimo Brescia e raramente Milano. A Venezia sono veneziani, qualcuno di Verona, raramente Padovani. Lo stesso vale per Bologna, Modena, Firenze, Pisa.

    Per il resto io ho fornito alcuni fatti, sicuramente statisticamente non significativi. Se poi Mingione o altri vorranno partecipare all’esperimento possono proporre ai ricercatori o associati a loro prossimi di trasferirsi al sud di Roma a ricoprire un posto di associato o ordinario. Chiaramente non deve essere proposto a un dottorando di diventare ordinario a Reggio Calabria, ma a un associato, possibilmente, con h-index decoroso (oopss, scusate …). Inoltre, dovrete essere chiari nello spiegare che la probabilità di ritornare a casa è prossima allo zero. Oppure che vi aspettate un comportamento serio e professionale, e che quindi è necessario che investano in quella loro nuova sede.
    Siete scienziati e mi fido dei risultati che pubblicherete.

    Un caro saluto.

    • Faccio ancora una volta mia le argomentazioni di Piero Marcati. Voglio solo riferire un dato, che è quello secondo me di un’esperienza positiva fatta al Dipartimento di Matematica di Parma negli ultimi 20 anni. Abbiamo assunto, se non ho fatto male i conti, 27 persone, di cui 22 non di formazione parmigiana o emiliana. Sono persone con dottorato preso un po’ dappertutto (Italia e fuori). Persone che hanno girato il mondo e affrontato in certi casi pesanti sacrifici personali e fatto rinunce. Che hanno tardato a farsi una famiglia e subìto spesso perdite economiche. Abbiamo cercato di prendere il meglio che potevamo, tra quelli che erano disposti a venire, non guardando in faccia a nessuno. Abbiamo anche preso direttamente come professori persone che erano post-doc negli USA (e non ce ne siamo pentiti, anzi), perché noi pensiamo che la bravura vada premiata e subito, il concetto di “gavetta” lo lasciamo a quelli a cui piacciono i servi. Anche da noi qualcuno è andato via, attratto da università estere, ma abbiamo continuato su questa strada e oggi possiamo dire di aver molto migliorato una situazione che venti anni fa era ancora gravata da decenni di inbreeding.

  8. Prometheus mi pare interpreti le mie osservazioni e quelle di Giuseppe Mingione come Teorema: “ogni professore del Sud e’ mafioso ogni professore del Nord e’ una mammoletta”, so benissimo che cio’ e’ assolutamente falso. Posso anche testimoniare che una volta un collega molto b”pesante” del Sud mi confesso di avere fatto i migliori “affari” con un paludato grande cattedratico del Nord che più Nord non si può (ha pure votato Lega una volta). Il quale ovviamente essendo grande uomo di scienza non si e’ mai sporcato le mani in prima persona sui concorsi “particolari”, preferendo gestirli attraverso sottopancia di scarsa visibilità scientifica, in modo da avere una immagine personale immacolata e preservare l’alone di rigore scientifico della sua scuola. Quello che volevo dire e’ che al Sud il malcostume spesso non e’ individuale ma un prodotto del sistema, dovuto a retaggi storici e culturali e fattori ambientali pesantissimi.
    Abbiamo avuto Universita’ con Rettori, Direttori Amministrativi e Presidi processati per reati di mafia. Allora e’ comprensibile che in certe situazioni un poveraccio non se la senta di fare battaglie rischiose o non sia interessato a trasferirsi.
    Per questo più che chiudere atenei del Sud o asfissiarli, lo stato dovrebbe destabilizzare i gruppi dirigenti, decapitando le catene del potere locale in modo radicale. Magari vinceranno gli anticorpi generati dal sistema di potere locale ma varrebbe la pena di iniettare il virus.
    Il ruolo degli Atenei non deve infatti essere pero’ quello di mera riproduzione della realtà circostante ma, soprattutto in situazioni difficili, quello di elemento di rottura del patto “consociativo” che lega i gruppi dirigenti tra loro.

    • Caro Pierangelo,
      io non ho interpretato nessuno. Ho solo messo dei FATTI sul piatto. Le analisi sociologiche che leggo, questioni meridionali o settentrionali, le conosco bene e ti posso assicurare che sono tali e quali dall’unità d’Italia.

      Io sono una persona pragmatica. Quando tu parli di “virus da iniettare” che sostituisca la classe dirigente più o meno marcia, di soluzione tipo “Germania dell’Est”, non pensi che il tuo sia solo un “wishful thinking”?
      Anche io licenzierei due-tre ricercatori/associati del mio SSD che ci hanno regalato un bel -1.5 nella VQR. Ma è realizzabile tutto cio’ in un paese democratico? Guarda che in Germania dell’Est (ho degli amici) non e’ mica andata come tu hai esposto? Hanno semplicemente “fatto fuori” quei docenti che erano compromessi con il precedente regime. Non ci sono stati affatto licenziamenti o pensionamenti di massa.

      La tua non è una soluzione praticabile. Non è diversa dalla iperuranica soluzione zero della chiusura di un ateneo.

      Non penso ci siano soluzioni facili. E anche le analisi sociologiche “facili”, sono solo superficiali, buone per l’uso e consumo di istanze localistiche, piu’ o meno secessioniste, sia del nord che del sud.

      La mia soluzione? Semplicemente, lasciare che il processo culturale faccia il suo corso: il sud di 40-50 anni fa, non e’ lo stesso di oggi. Purtroppo, fintantochè soffriremo uno basso livello di sviluppo, dovremo accontentarci di quello che abbiamo. Non e’ fatalismo, e’ semplice realismo.

      @Antonio Banfi: Se essere nati a Brescia o Milano, o aver studiato alla Cattolica, oppure alla Bicocca, neutralizza il fattore inbreeding, sono felice per voi che potete attuarlo in questo modo poco costoso.

      Se io volessi prendere “per prova” uno studente di Marcati, questi dovrebbe spostarsi in aereo, via Roma (non ci sarebbe il volo diretto). Se dovessi limitarmi all’universita’ piu’ vicina, dovrei chiedere a questa persona di investire parte del suo tempo in un commuting di circa 250 km, da farsi in macchina o autobus, in quanto in treno è improponibile.

      E’ possibile che ci sia un fattore logistico che frena tale “mescolanza di sangue”?

      Mi sono lagnato troppo? Mi dispiace, ma questi purtroppo sono fatti.

      Un caro saluto.

  9. Mi scuso se re intervengo, ma quando parlo di estromettere la classe dirigente non intendo dei “pogrom” di poveri disgraziati che hanno preso -1.5 alla VQR, per quanto mi riguarda trovo più’ serio e dignitoso il non scrivere piuttosto che contribuire ai quintali di spazzatura che circola.
    Intendo parlare di RETTORI, PRESIDI, DIRIGENTI AMMINISTRATIVI, cioè quella sfera di persone che sono state COLLUSE con un ambiente circostante in cui CLIENTELISMO, CORRUZIONE sono stati e sono ancora SISTEMA.
    Certo poi il resto d’Italia non ride anche perché, a quanto ci e’ dato di vedere, regioni storicamente sane come la Lombardia invece di esportare elementi di buon governo stanno importando in maniera preoccupante il peggio dei difetti del Sud.

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