Ogni volta che la magistratura punta i suoi potenti riflettori sui concorsi universitari gli effetti più immediati e dolorosi sono ovviamente quelli sulla vita e la reputazione delle persone coinvolte. Gli episodi, però, sono ormai troppo numerosi perché si possa continuare a rinviare una riflessione sulla necessità di cambiare radicalmente le regole. Perché sono le regole a orientare il comportamento degli esseri umani e regole sbagliate implicano il rischio che persone serie, responsabili e stimate – e ce ne sono tante anche fra i professori universitari – si trovino in situazioni che portano pericolosamente vicino al limite da non superare.

Il disegno di legge sulle attività e il reclutamento dei ricercatori, approvato dalla Camera il 15 giugno e attualmente all’esame della Commissione Istruzione del Senato, si candida ad allungare l’elenco delle occasioni perdute. Ed è un esempio particolarmente interessante, perché il legislatore era partito concentrandosi sul punto più critico e intervenendo con grande decisione. Già alla Camera, però, era iniziata la “ritirata” rispetto al testo sul quale si era avviata la discussione. E sembra proprio che il Senato si appresti a completare l’opera.

Tutti sanno che la “contiguità” accademica fra candidati e commissari, particolarmente forte quando si tratta del rapporto che si definisce “di scuola”, magari consolidato in anni di collaborazione all’interno della stessa istituzione, è il generatore di un conflitto di interessi che, pur corrispondendo a una caratteristica naturale e per certi versi preziosa del lavoro universitario, può allungare un’ombra pesante sul presupposto di imparzialità dei commissari. Ed è davvero difficile sostenere che le misure finora introdotte siano state sufficienti a risolvere il problema.

Il testo originario nel quale erano stati unificati numerosi disegni di legge, poi discusso e modificato dalla Camera, introduceva nel sistema attualmente vigente due novità che avrebbero svuotato in modo significativo il serbatoio dei sospetti e delle critiche più comuni: si rendeva impossibile la partecipazione ai concorsi dei candidati “interni” e si optava per il sorteggio integrale per la composizione delle commissioni, all’interno di una banca dati contenente i nominativi dei docenti in possesso di determinati requisiti e seguendo una raccomandazione che si trovava già nella sezione “Istituzioni universitarie” dell’aggiornamento 2017 al Piano Nazionale Anticorruzione .

Il testo che è arrivato al Senato è già fortemente depotenziato per quanto riguarda il primo punto. Le università dovranno semplicemente destinare «almeno un terzo» delle risorse disponibili a posti riservati agli “esterni” (dunque senza alcun obbligo di superare questa percentuale). E c’è un emendamento che propone di scendere da «un terzo» a «un quinto». Gli emendamenti presentati da senatori dei più diversi partiti fanno immaginare un destino analogo anche per il sorteggio. Si va dalla possibilità, per l’università che bandisce il concorso, di nominare almeno uno dei tre (o due dei cinque) commissari a quella di effettuare il sorteggio su una rosa sempre indicata dall’ateneo interessato. Fermo restando che potrà essere “interno” il commissario, oltre al candidato (per i due terzi dei posti messi a concorso). E così tutto resterà più o meno come prima.

I senatori, se dovessero approvare qualcuno di questi emendamenti, potrebbero motivare la loro decisione anche ricordando che questo era uno dei suggerimenti proposti dal Consiglio Universitario Nazionale nella sua adunanza del 28 luglio, a tutela «dell’autonomia che regola il sistema universitario» e per evitare «grandi discrepanze fra le commissioni, per la casuale presenza o assenza di docenti appartenenti alla sede che bandisce la posizione». Una domanda e un dubbio fastidioso sorgono in me spontanei: perché dalla presenza o dall’assenza di docenti “interni” dovrebbero risultare grandi discrepanze nel lavoro delle commissioni? E queste discrepanze potrebbero incidere sul principio di imparzialità? Sarebbe molto più semplice prevedere che non possano esserci commissari interni. In nessun concorso. Oppure riconoscere che il principio di autonomia implica probabilmente una logica e modalità specifiche anche per il reclutamento e aprire un confronto trasparente e onesto fra posizioni diverse ma tutte degne di rispetto. Questa, però, sarebbe un’altra storia.

L’articolo è apparso su corriere.it il 15 ottobre 2021. 

 

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3 Commenti

  1. Cari amici e colleghi del ROARS, continuo a essere ammirato dal vostro tenace lavoro, ma permettetemi di andare un po’ contro corrente. E’ giusta l’idea di impedire a malfattori di manipolare concorsi e esercitare un odioso potere sulla vita degli altri, mortificando magari i migliori e premiando sodali con pochi o nulli meriti. Tutto giusto. Ma mi domando se questo nobile e civilissimo obiettivo sia possibile conseguirlo mediante lo strumento in esame: commissari interni o esterni all’Ateneo. A me pare strumento assai poco tagliente: le consorterie si scambiano favori sia dentro che fuori i confini di un singolo ateneo, come spero sia banale conoscenza comune.
    Allargo quindi il tema. Secondo me, occorre divenire consapevoli di un fatto, scomodo ma vero: il sistema della ricerca di un paese non migliora ingabbiandolo (come ormai è costume nazionale) in una rete di formalismi e controlli da ufficio del catasto; un sistema della ricerca (sistema che in Italia NON esiste) è per definizione un “lusso”; e lo è perché per “scoprire” il nuovo occorre che che chi ci lavora goda di privilegi, di esplorare il nuovo con le minori formalità possibili, privilegi che sono sicuramente intollerabili e inaccettabili da un punto di vista della parità dei cittadini e della correttezza giuridica dei loro rapporti con le istituzioni, ma secondo me indispensabili. Mi è perfettamente chiaro che laddove esistono privilegi, là esiste pure terreno di coltura per l’abuso, per i mascalzoni: ma è proprio per questo che dico che avere un sistema della ricerca è un “lusso” istituzionale ed è per questo che sono pochi i paesi al mondo che hanno modo di e interesse a dotarsi di un VERO sistema della ricerca; un sistema della ricerca comporta la penalizzazione civile di dover “tollerare” una certa quota sperabilmente minoritaria (una delle due code della curva di Gauss) di mascalzoni e una certa quota – maggioritaria – di buoni gestori della ricerca; il beneficio civile (per i paesi che hanno interesse a avvalersi della scoperta del “nuovo”, paesi tra cui NON c’è l’Italia, alla quale necessitano solo cuochi e albergatori) è che la seconda coda della curva di Gauss sarà abitata da una minoranza di ricercatori veri e soprattutto messi nelle condizioni di scoprire il “nuovo”. Ovviamente gli scandali accaduti in varie sedi meritano la massima severità, ma i fatti di cronaca rischiano di far perdere di vista la natura del problema e di incoraggiare una visione opaca del ruolo della scienza e della ricerca.
    Ma masochisticamente voglio “peggiorare”, se possibile, il mio andare contro corrente: i vecchi concorsi baronali avevano enormi difetti, passavano spesso i sodali e le vittime erano i migliori. Nel mio piccolo, testimonio che l’ho provato sulla mia pelle. Ma questo sistema “lussuoso” (e volendo perfino criminale) aveva un pregio: la responsabilità. Il “barone” che faceva passare l’allievo (eventualmente scarso), se ne assumeva la responsabilità per tutta la vita, nel bene e nel male: il beneficato di turno rimaneva per sempre noto come “l’allievo di x” (appellativo peraltro molto antipatico da sentirsi appiccicare sulla schiena, secondo me…). Oggi, invece, la responsabilità è res nullius: se in cattedra va un minus habens di nome x, nessuno è responsabile; e nessuno vuol dire che qualcuno ha dato a x l’abilitazione, ma qualcun’altro ha fatto diventare x ricercatore/associato/ordinario e poi si è completamente scordato di x: perché il commissario interno non si è nominato da solo ma lo ha nominato il Consiglio di Dipartimento, il commissario esterno ha accettato di entrare in commissione solo per fare un favore ad altri, e altri vuol dire sempre uno del Consiglio di Dipartimento, e il Dipartimento in questione, come è noto, è formato da (almeno) alcune decine di persone, le quali hanno altro da pensare che sentirsi responsabili di x, o di tizio o di Caio. Oggi insomma i concorsi non impediscono l’”inciucio”, ma in più nessuno è scientificamente responsabile dell’eventuale malfatto.

    • Concordo in toto nel reputare la mancanza di responsabilità essere il problema principale.

      Trovo errato il sistema dei concorsi perché vince – facendo le cose come dicono le regole attuali – chi ce l’ha più lungo (l’elenco pubblicazioni), anche se è una persona problematica, anche non sa interagire con gli altri, anche ha solo fatto articoli in modo matto e disperatissimo per sopraffare in lunghezza i suoi nemici-colleghi, etc. e senza che alcuno sia responsabile della scelta.

      Penso che solo la responsabilizzazione (i.e., facendo rischiare qualcosa) di chi prende la decisione possa garantire contemporaneamente buona qualità ed efficacia del reclutamento.

      Purtroppo (evidentemente miei limiti) non ho capito la prima parte del commento.

  2. Io invece, da pensionato, non ritengo che il vecchio sistema fosse così esecrabile. Era responsabilità del capo scegliersi l’allievo giusto per farlo diventare ricercatore (allora a tempo indefinito, bei tempi), che doveva essere un giovane disposto a lavorare sodo. Ma la cosa era vera soprattutto al sud. Io ero a Cosenza, e i miei due ricercatori sono ora tutti e due associati e idonei per l’ordinariato. Li avevo scelto tra i più brillanti dei miei studenti, ma potevo mai prendere qualche giovane che non era cosentino, che poi avrebbe fatto di tutto per andarsene? Anche queste sono considerazioni da fare.

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