In un precedente articolo su questo sito (CNR: ritornare alle origini) sostenevo che il CNR è, ed è sempre stato, in mano ai docenti universitari e che la comunità scientifica interna all’ente viene sistematicamente estromessa dai processi decisionali che la riguardano direttamente. Un caso per tutti: il ministro Gelmini ha ritenuto di non nominare nel consiglio di amministrazione del CNR il candidato membro regolarmente eletto dai ricercatori, ma ha preferito avere il prezioso apporto dell’esperto delle Camere di commercio, di quello della Conferenza delle regioni (universitario in pensione), oltre a quello dei suoi nominati di fiducia, tutti rigorosamente universitari.

Il fatto che il mondo della ricerca pubblica italiana sia saldamente nelle mani dei docenti universitari si rileva, tra l’altro, dalla composizione dell’ANVUR: i sette componenti dell’Agenzia sono tutti professori universitari ordinari. Questi, a loro volta, hanno nominato professori universitari come coordinatori delle 14 Aree tematiche dell’esercizio di Valutazione della Qualità della Ricerca (VQR). L’ANVUR ha appena nominato i 450 membri dei Gruppi Esperti di Valutazione (GEV), praticamente tutti professori universitari. E’ del tutto legittimo aspettarsi che, nella scelta delle centinaia di referee che verranno incaricati di valutare i circa 22.000 prodotti di ricerca, gli universitari scelti dagli universitari sceglieranno altri universitari. Va aggiunto a tale proposito che l’articolo di Alberto Baccini Gli esperti di valutazione all’italiana (su questo sito) svela come, almeno dell’area economica, esistano gruppi accademici in grado di orientare i risultati della valutazione, gruppi caratterizzati da una “vicinanza” tra i membri ben superiore a quella di un analogo esercizio nel Regno Unito. Questo è un pesante indizio del permanere, anche in questo caso, delle ben note cordate universitarie, alleanze mascherate da interessi scientifici, ma nei fatti utilizzate per puri fini di gestione del potere.

Tra i 450 membri dei GEV soltanto tre (dicasi tre) provengono dal CNR, quattro dal CNRS francese (i francesi vincolo sugli italiani!), cinque dagli altri enti di ricerca pubblici italiani, e otto da istituzioni straniere (tipicamente legate all’università). Gli scienziati degli enti pubblici italiani rappresentano dunque l’1,8 per cento del totale dei membri dei GEV mentre essi rappresentano l’11,8 per cento (7.700 unità) dei soggetti da valutare. Nel caso dei ricercatori del CNR la (sotto)rappresentanza nei GEV è scandalosamente pari allo 0,7 per cento laddove  essi rappresentano il 6,1 per cento degli scienziati italiani da valutare. Insomma i numeri dicono che la famosa “seconda” rete scientifica del paese non è capace di valutare la ricerca e che sono stati mobilitati in massa i docenti –in parte stranieri ed in parte italiani operanti all’estero – per giudicare i ricercatori di professione, non l’inverso.

Tale situazione è inaccettabile e offensiva per il 4.000 scienziati operanti nel CNR che, se si prendono per buoni i dati Scimago o la valutazione indipendente svolta sugli istituti nel 2008, sono tra i migliori del paese in termini di produttività scientifica e che, stando ai criteri del VQR – criteri quanto mai bizzarri – hanno un “valore” scientifico pari al doppio di quello dei colleghi dell’accademia (i primi debbono presentare sei “prodotti”, mentre i secondi soltanto tre). Ancora una volta quindi si afferma nei fatti una direzionalità nei rapporti, ovvero che gli universitari esercitano uno strapotere che consente loro di giudicare se stessi e i loro colleghi degli enti pubblici posti in una posizione subalterna (ricordo che il VQR riguarda la valutazione delle università e degli enti vigilati dal MIUR), ma che impedisce la condizione di reciprocità: l’intrusione dei non universitari nelle università non è affatto gradita.

Non si tratta di affermare una rivendicazione di ruolo quanto, piuttosto, di sottolineare come, così facendo, si finisca con il pregiudicare l’esito del processo di valutazione. Il danno di questa ennesima e sciagurata scelta è grave per il CNR e per gli enti di ricerca pubblici in generale. Abbiamo già sperimentato, in occasione della valutazione degli oltre 100 istituti di ricerca del CNR svolta nel 2008, che gli universitari non di rado fanno fatica a comprendere il senso, l’organizzazione ed il valore della ricerca interdisciplinare e tematica, ben diversa da quella disciplinare che è loro propria. Con il VQR si profila dunque una situazione pericolosa per il CNR sotto vari aspetti: il sistema del VQR è stato pensato per l’università e poco si attaglia alla realtà degli enti pubblici di ricerca; la composizione dei valutatori è inadeguata per mancanza di competenze provenienti dagli enti di ricerca; la decisione di valutare il CNR nella sua interezza e non a livello di singolo istituto di ricerca che nei fatti è del tutto simile al dipartimento universitario (sommando quindi, mele, pere, arance e cavoli) appare del tutto inadeguata.

I ricercatori del CNR vivono questa ennesima discriminazione come uno schiaffo alla loro professionalità, alla loro indipendenza ed al loro orgoglio, e la vedono come un serio pericolo per la qualità, e quindi per gli esiti, della valutazione. Non c’è dunque da meravigliarsi che alcuni di essi si stiano interrogando sulla possibilità di boicottare il VQR. Il boicottaggio sarebbe una scelta dirompente, ma ci sono i tempi ed i modi per introdurre i necessari correttivi – sempre che ce ne sia la volontà.

Per mettere riparo al tutto, forse una strada c’è: rivolgersi al governo, quello dei “professori”.

 

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