Maria Chiara Pievatolo (Università di Pisa): Di bilance e di spade: l’autorità della valutazione
Quarto Convegno Roars, Trento 24-24 febbraio 2023
III Sessione: UNIVERSITÀ: LE POLITICHE MERITOCRATICHE PER L’ISTRUZIONE IN ITALIA E I LORO EFFETTI

La questione – filosofica – che mi pongo non è come si valuta, che è affrontata sistematicamente e in maniera spesso spassosa oltre che intelligente da Roars, bensì chi valuta. Quis iudicabitur? Chi è legittimato a valutare?
Anche il nostro Andrea Bonaccorsi si è dedicato al problema, in un passaggio brevissimo di un suo testo edito da Springer (p. V).

Research evaluation is an activity that has two, not just one, sources of legitimation. On the one hand, the parliament and the government in many countries have created dedicated structures to carry out research evaluation and actively make use of their results. This is a legal and institutional form of legitimation. It comes from the legitimate democratic authority of modern states. On the other hand, however, scientific and academic communities create and manage a different source of legitimation, based on scientific recognition and expertise. (corsivi aggiunti)

Bonaccorsi dice che la valutazione amministrativa della ricerca si basa da ben due fonti di legittimazione. La prima è connessa alle decisioni degli stati democratici, la cui menzione ha l’effetto retorico di far passare noi che critichiamo la valutazione da impiegati ribelli che si oppongono al popolo sovrano. La seconda fonte di legittimazione è l’autorità che emerge dalla discussione entro la comunità scientifica. Ho cercato di rendere l’idea araldicamente con un’aquila bicipite. Aquila bicipite i cui capi indossano rispettivamente il logo dell'ANVUR e il tocco accademico. L’aquila ha due teste. La prima, con l’apposito copricapo, rappresenta la legittimazione amministrativa; la seconda quella scientifica. Questo animale bicipite può rappresentare anche lo stesso Bonaccorsi che è stato allo stesso tempo funzionario dell’ANVUR, nominato dal governo, e però anche studioso e professore universitario.

Secondo Bonaccorsi, in questa duplicità che s’incarna anche esistenzialmente in lui non ci sono problemi. Kant, invece, non era di questo parere.

Il giurista, che si è eretto a simbolo la bilancia del diritto e contemporaneamente anche la spada della giustizia, si serve generalmente della seconda non soltanto semplicemente per tener lontane dalla prima tutte le influenze estranee, bensì, se uno dei piatti non vuole scendere, per metterci dentro anche la spada (vae victis); di questo il giurista che non è allo stesso tempo filosofo (anche secondo la moralità) ha la più grande tentazione, perché il suo ufficio è soltanto applicare leggi esistenti, ma non ricercare se queste stesse abbiano bisogno di un miglioramento, e considera superiore il rango della sua facoltà, in realtà inferiore, perché è accompagnato dal potere. (corsivi aggiunti)

Questo brano è tratto dall’articolo segreto della Pace perpetua e si occupa di una questione molto attuale perché sostiene che i filosofi, qualsiasi siano le opinioni dei politici, dovrebbero essere lasciati liberi di dire quello che pensano sulla condizione della pace. Per “filosofi” Kant intendeva non solo gli studiosi di filosofia in senso disciplinare, ma tutti i ricercatori che si occupano di problemi che pongono loro stessi e non che vengono loro posti: tutti i ricercatori, quindi, che si dedicano alla ricerca di base. Dunque, sono “filosofi” certamente gli studiosi di filosofia, però anche molti altri.

Perché Kant parla dei giuristi? I giuristi all’epoca facevano parte di una facoltà che veniva chiamata “superiore” e che era strettamente legata allo stato in quanto ne formava i funzionari. La facoltà di filosofia era invece inferiore, propedeutica: era quindi una facoltà che non serviva per ciò che oggi chiameremmo “professionalizzazione”. La professionalizzazione – che era importante per lo stato – era invece compito delle tre facoltà superiori, che formavano, appunto, funzionari: giurisprudenza, teologia, utile per la legittimazione della monarchia assoluta, e medicina.

Secondo Kant il giurista che ha la spada, quindi lo studioso-funzionario che non si vale soltanto della sperimentazione e dell’uso pubblico della ragione ma tiene in mano anche un’arma che costringe, si considera superiore, ma è in realtà inferiore, proprio perché è esposto alla tentazione di usare la spada per por fine a una discussione scientifica che non dovrebbe mai concludersi. Nella scienza non ci dovrebbe essere mai qualcuno che ha l’ultima parola: saremmo, altrimenti, ancora a parlare di epicicli e di deferenti per spiegare perché ci sono pianeti che hanno talvolta un movimento retrogrado.

L’intellettuale al servizio d’uno Stato, d’un partito o d’un sindacato, dirigente delle ricerche per conto dell’aviazione americana o dell’agenzia per l’energia atomica, come può sottrarsi alle regole del suo ufficio?

Questa citazione è tratta da un famoso pamphlet di Raymond Aron, L’oppio degli intellettuali (1955), che criticava gli intellettuali filo-marxisti. E però, anche nell’epoca della guerra fredda, Aron era ben consapevole che non solo in oriente ma anche in occidente l’intellettuale al servizio di una qualsiasi organizzazione rischia di fare la fine del giurista di Kant: avere in mano una spada che però, proprio come studioso, lo delegittima.

Kant usa la metafora della spada e della bilancia alludendo a un episodio semi-mitico della storia romana narrato da Tito Livio (Ab urbe condita, V.48.9)
Brenno: Vae victis!
Brenno (1), capo dei Galli esige un tributo in oro per lasciare Roma, che ha occupato. Si sta cercando di pesarlo. I Romani (2), disarmati, gli fanno notare che la bilancia è truccata. Come reagisce Brenno? Brenno prende la sua spada e la getta sulla bilancia dicendo: “Vae victis!“. Guai ai vinti!

Molto spesso la discussione sulla valutazione della ricerca si è indirizzata esclusivamente sulla bilancia. Quello che Kant cerca di fare e che io propongo di fare, seguendo Kant, è invece considerare la spada, per sostenere che, perfino se la bilancia inizialmente fosse esatta, perfino se i criteri della valutazione amministrativamente adottati fossero accidentalmente del tutto identici a quelli che la comunità scientifica sta usando, la presenza di qualcuno con la spada può in qualsiasi momento turbarne l’esito. Avevo posto questo problema a un membro del direttivo ANVUR, osservando che era difficile discutere disarmati, perché semplici studiosi, con qualcuno che ha la spada, e ho ottenuto questa risposta: “Sì, capisco che sia stressante.” Brenno, con più franchezza, diceva: “Vae victis”.

Chi sono gli studiosi più autorevoli? Quelli con la spada, che sono anche funzionari esposti alla tentazione di usarla per tagliar corto e chiudere la discussione, oppure quanti hanno come uniche armi quelle non letali delle ragioni e delle sperimentazioni?

Kant si era già occupato dell’interferenza della spada dello stato nella libertà della ricerca e della coscienza religiosa. Questo è un brano, un po’ anteriore. di un suo articolo molto famoso, la Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo?:

Il monarca reca detrimento alla sua stessa maestà se si immischia in queste cose ritenendo che gli scritti nei quali i suoi sudditi mettono in chiaro le loro idee siano passibili di controllo da parte del governo: sia ch’egli faccia ciò invocando il proprio intervento autocratico ed esponendosi al rimprovero: Caesar non est supra grammaticos; sia, e a maggior ragione, se egli abbassa il suo potere supremo tanto da sostenere il dispotismo spirituale di qualche tiranno del suo stato, contro tutti gli altri suoi sudditi. (corsivi aggiunti)

Qui Kant parla di due tipi possibili di interferenza dello stato nella religione e spiega perché entrambi sono sbagliati. Ma il suo argomento può essere esteso alla scienza.

Le interferenze possibili sono di due tipi: diretta e indiretta.

1. Caesar non est supra grammaticos cita un aneddoto famoso. L’imperatore del Sacro Romano Impero Sigismondo del Lussemburgo aveva fatto un brutto errore di latino e, corretto da un vescovo, si era offeso: “Ego sum rex Romanus et supra grammaticam”, per sentirsi rispondere che l’imperatore non è al di sopra della grammatica. Come scrive lo storico e filosofo della scienza Paolo Rossi, il principio “che la verità delle proposizioni non dipende affatto dalla autorevolezza di chi le pronuncia e non è in alcun modo legata a una qualche rivelazione o illuminazione è andato a costituire una sorta di patrimonio ideale al quale gli Europei possono ancora oggi richiamarsi come a un valore non rinunciabile.” Non si tratta solo di grammatica: la scienza moderna nasce dal rifiuto del principio di autorità, dell’ipse dixit. L’intervento diretto dello stato non è solo antiscientifico, ma delegittima, scientificamente, lo stato stesso.
Che lo stato sia democratico è, da questo punto di vista, irrilevante. Possiamo anche immaginare Brenno come un capo Gallo democraticamente eletto: l’uso della spada, che abbia dietro di sé il popolo sovrano o qualche altro tipo di legittimazione, è sempre un’interferenza del potere politico nella scienza, perfino quando a rappresentarlo c’è l’imperatore del Sacro Romano Impero – che, a differenza dell’ANVUR, era eletto, sia pure a suffragio ristrettissimo.
Inoltre, quando lo stato interferisce direttamente nella ricerca, rischia di fare brutta figura, perché viene esposto, finché c’è la possibilità di parlare liberamente, alle critiche degli studiosi che ancora, come Roars, fanno uso pubblico della ragione. La delegittimazione scientifica non travolge solo lo stato, ma anche lo studioso-funzionario, che è sistematicamente esposto al sospetto di essere al servizio del potere. Si pensi, per esempio, alla polemica sulle vaccinazioni e alla generale commistione di interessi imprenditoriali e tecnocratici nelle strutture di governo dell’Unione Europea. La scienza di stato, d’azienda, o di stato e d’azienda insieme non può che generare sfiducia. Come può uno studioso-funzionario apparire autorevole agli occhi del popolo?

2. La valutazione di stato italiana sembra evitare l’interferenza diretta dello stato, perché si basa su un’autorità amministrativa indipendente, i cui membri però sono nominati dal governo. Poi, se volete, vi racconto quanto c’è di democratico negli enti che hanno titolo a esprimere e selezionare i candidati per la rosa entro la quale il ministro dell’università e della ricerca sceglie i componenti del consiglio direttivo dell’ANVUR. E questa autorità dovrebbe – lo dice Bonaccorsi – semplicemente fotografare, cioè rendere espliciti e formalizzare, i criteri che sono già adottati implicitamente dalla comunità scientifica.

Contro la religione di stato, Kant notava che essa non elimina la costrizione, ma si limita a delegarla a un despota spirituale all’interno dello stato stesso, il quale usa quindi la spada non per sé, ma al servizio di quest’ultimo. E anche se immaginiamo che una religione, nel momento in cui viene assunta come religione di stato, sia già professata da tutti, essa in quanto religione di stato viola comunque la libertà di coscienza, perché nega ai sudditi la facoltà di cambiare idea, e perché costringe le generazioni successive, che si troveranno davanti una religione di stato già stabilita. Questo varrebbe anche se fosse stata scelta democraticamente, perché vincolerebbe comunque il loro futuro. In secondo luogo, essa viola anche la maestà del potere politico perché lo mette al servizio di un’autorità diversa – diversa anche da quella del popolo sovrano.

L’ANVUR conferisce un marchio di scientificità amministrativo, contando citazioni e pubblicazioni su database proprietari in mano a multinazionali commerciali monopolistiche o oligopolistiche e neanche italiane, una delle quali, Elsevier, è in clamoroso conflitto di interessi, in quanto allo stesso tempo editrice di riviste scientifiche e, tramite Scopus, fornitrice di servizi analitici per la valutazione bibliometrica delle riviste stesse. Anche i cosiddetti settori non bibliometrici, che sono in realtà bibliometrici perché anch’essi dipendono dal conteggio delle pubblicazioni per determinare i valori-soglia, fanno uso di liste di riviste definite amministrativamente dagli studiosi-funzionari al servizio dell’ANVUR. Dietro tutto ciò c’è l’idea che quello che scriviamo non conti nulla, ma conti semplicemente, per usare un linguaggio religioso, il culto esteriore del contenitore.

Possiamo estendere l’argomento di Kant contro la religione di stato alla scienza di stato? Sì! Si delega la valutazione della ricerca a costosissimi servizi editoriali e analitici privati. Ma dare agli oligopolisti dell’editoria scientifica l’esclusiva della valutazione della ricerca significa favorire il loro potere e permettere loro di imporre prezzi da oligopolio o da monopolio. Anche per questo, spostare il pagamento dalla lettura alla scrittura non ha alterato affatto l’entità della spesa.
L’esclusiva, inoltre, rende difficile sia sperimentare nuove forme di pubblicazione sia pubblicare contenuti anticonformisti rispetto al mainstream, come scriveva Lucio Russo in un libro che merita ancora di essere letto. E affida, infine, deliberazioni che sono di rilievo pubblico a dei privati. La spada della valutazione è messa al servizio di interessi commerciali alieni.

Ci sono però ora anche reazioni autocritiche. Qui Francesca Di Donato, che ha fatto parte, come rappresentante del CNR, del nucleo che l’ha scritto, parla dell’Agreement on Reforming Research Assessment. In Europa, addirittura a livello di commissione, ci si è resi conto che questo tipo di valutazione, basata sul conteggio di pubblicazioni e citazioni, distrugge la ricerca stessa. Che c’è una serie di attività di ricerca non riconducibili al publish or perish, a partire dalla stessa revisione paritaria, e però indispensabili.

L’accordo europeo è ambiguo perché non pone il problema di chi valuta. Però recepisce la dichiarazione DORA, che ha fra i suoi princìpi fondamentali l’impegno a dismettere la bibliometria, e specificamente il fattore d’impatto e l’indice H, per valutare i singoli ricercatori. Esso raccomanda inoltre di adottare le pratiche della scienza aperta e di cercare di coinvolgere i ricercatori, anche se non è chiaro in che termini e che titolo. Al gruppo degli stakeholder, che hanno diritto di voto sui documenti di lavoro, possono partecipare università, enti di ricerca e anche associazioni scientifiche. Quindi consiglio, a chi ha la possibilità di farlo, di aderire all’accordo, come ha fatto l’AISA, almeno per tener sotto controllo un processo che non è privo di ambiguità. Vi ha aderito perfino l’ANVUR, che però, per ora, non ha fatto nulla per onorare la sua firma.

Coda

Come vedete, non occorre tirare fuori argomenti particolarmente nuovi per criticare la valutazione di stato. Basta conoscere un pochino di storia della filosofia, forse anche soltanto tramite un manuale.

Già il primo libro della Repubblica di Platone presenta un ricercatore da competizione, il sofista Trasimaco, il quale sostiene che la giustizia è l’utile del più forte. Nel dialogo si usa l’esempio della medicina, ma possiamo estendere l’argomento alla ricerca in generale. Perché facciamo ricerca? Chiaramente per l’eccellenza, l’areté – cioè per far vedere che siamo più bravi degli altri, soverchiando i colleghi.

Socrate risponde con una confutazione ad hominem, che però è così efficace da far arrossire Trasimaco: un ricercatore che è talmente competitivo da voler prevalere su chiunque, anche quando afferma, contro l’interlocutore, cose scientificamente insostenibili, si comporta esattamente come un ignorante.

Perché Trasimaco arrossisce? Perché Trasimaco era un sofista, un esperto che vendeva il proprio sapere: se avesse ammesso, sulla base delle propria teoria, che il suo comportamento era indistinguibile da quello di un ignorante che vuole avere comunque ragione anche quando sbaglia, avrebbe distrutto il proprio mercato. Quindi, anche come sofista, egli comprende che la competitività nella discussione scientifica delegittima lo scienziato stesso, delegittima la scienza stessa. Trasimaco arrossisce perché è un sofista ma non è affatto uno stupido e si rende conto chiaramente di questo pericolo, a differenza di molti nostri colleghi. Quando cerchiamo di legittimarci sulla base e nei termini della competitività imposta dalla valutazione di stato, anche noi rischiamo di distruggere il nostro mercato, perché distruggiamo, consegnandolo a terzi, ciò che ci dovrebbe rendere autorevoli, vale a dire il servizio alla ricerca della verità invece che alle medagliette della valutazione e alla volontà di dimostrare che siamo più bravi degli altri a prescindere da ciò che sosteniamo.

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1 commento

  1. “..e ho ottenuto questa risposta: “Sì, capisco che sia stressante.”…” uhm! ricorda molto quando Lollobrigida ha chiesto “Questo le provoca disagio?” alla giornalista che lo incalzava.

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