In un precedente  post abbiamo raccontato come la Fondazione Agnelli (col supporto della pubblicistica nazionale) si sia impegnata durante tutta l’estate a promuovere la necessità di rimettere in piedi al più presto la valutazione standardizzata di tutti gli studenti italiani. Servono i test INVALSI, subito! – ci viene detto – indispensabili per misurare quanto capitale umano è “evaporato” a causa della chiusura delle scuole. Si tratta di una perdita rilevante, sostiene la Fondazione Agnelli: “78 miliardi di euro, ovvero circa il 10 per cento del Pil 2019″. Ma come sono giunti a questo risultato gli economisti più esperti del paese in tema di istruzione scolastica? Per i lettori che non abbiano familiarità con simili calcoli, proviamo a ricostruirne i passaggi più rilevanti. Così, ciascuno potrà giudicare se si tratti di stime attendibili e scientificamente robuste o piuttosto di valutazioni approssimative – anche nel panorama internazionale – che nel discorso pubblico italiano vengono spacciate per dati tecnici con cui il decisore deve confrontarsi. È la solita logica degli strumenti di intimidazione matematica, che servono a giustificare agende politiche predefinite da ristretti gruppi di pressione. Come tutti i salmi finiscono in gloria, altrettanto puntualmente i conti della Fondazione Agnelli servono a glorificare le ricette di sempre: test INVALSI a settembre e un po’ di pedagogia compassionevole di second’ordine.

1. FGA segue le ipotesi di Brookings, anzi no

Il direttore della Fondazione Agnelli, Andrea Gavosto, e la ricercatrice Barbara Romano hanno calcolato, su lavoce.info, le perdite individuali e collettive derivanti dalla chiusura delle scuole dovute alla pandemia da Covid19 in Italia. Lo hanno fatto ispirandosi ad un post firmato da George Psacharopoulos, Harry Patrinos, Victoria Collis ed Emiliana Vegasuscito sul blog della Brookings Institution riferito agli USA.

Per i lettori che non hanno familiarità con questo tipo di calcoli li ripercorriamo in modo che ciascuno possa farsi una idea della loro plausibilità.

Sia Gavosto e Romano che la Brookings ipotizzano che il rendimento annuo di un anno aggiuntivo di scuola sia pari al 10%: cioè un anno aggiuntivo a scuola permette ad una lavoratore di ricevere uno stipendio del 10% più alto nel corso della sua intera vita lavorativa. Perdere alcuni di mesi di scuola incide su quel rendimento.

G&R considerano 14 settimane (3 mesi e mezzo scarsi) di chiusura e stimano una perdita del 3,5%. Psacharopoulos et al. considerano un periodo di chiusura più lungo, ovvero 4 mesi, ma una perdita inferiore pari al 2,5%. Come è possibile? Il calcolo dovrebbe essere svolto molto semplicemente, riducendo il rendimento annuale dell’istruzione proporzionalmente ai mesi di scuola persi .

Notiamo anzitutto che nel post di Psacharopoulos pubblicato sul sito della Brookings Insitution c’è un errore.

Quattro mesi rappresentano un terzo dell’anno. Ne segue che il rendimento di un anno di istruzione, nel corso del quale andati persi quattro mesi, dovrebbe ridursi di un terzo. Il valore corretto della perdita annuale  sarebbe pertanto del 3,33%. Che quel 2,5% sia proprio un errore lo confermano gli stessi Psacharopoulos et al., che riportano il calcolo corretto in un loro working paper in cui scrivono: “if Country X closes its schools and universities for four months, the loss in marginal future earnings would be 3.3 percent per year over a student’s working life“.

Morale della favola: una perdita del 2,5% corrisponde ad una chiusura di 3 mesi cioè di un quarto di anno. Da notare che tre mesi corrispondono a circa 13 settimane, un periodo di poco inferiore alle 14 settimane considerate da G&R.

G&R scrivono esplicitamente che le loro stime sono state effettuate: “seguendo le ipotesi di George Psacharopoulos, Harry Patrinos, Victoria Collis ed Emiliana Vegas“.

In realtà, affinché la stima della perdita salga al 3,5%, G&R qualche ipotesi la modificano. Prima di tutto considerano l’anno come composto da 40 settimane e calcolano che 14 ne rappresentano il 35%: ecco perché, secondo loro, la perdita annuale di reddito si attesta sul 3,5%. Se, come dichiarano, avessero davvero usato l’ipotesi di Psacharopoulos et al., quella perdita sarebbe stata di circa 1 punto percentuale inferiore. Incidentalmente, sembrerebbe che per Gavosto la durata della chiusura delle scuole sia una dato tutt’altro che univoco, tanto che in un recente articolo scrive addirittura che in Italia le scuole sono rimaste chiuse per 6 mesi.

2. Et voilà, il costo sale da 63% a 84%

Veniamo adesso al calcolo del valore attuale delle perdite future.

G&R calcolano la perdita di reddito di 14 settimane di scuola come pari al 3,5% del salario medio attuale (indicato in 25.110€): 879€. Ipotizzano quindi che per ognuno di questi 40 anni il lavoratore debba rinunciare a 879€.

Il tutto viene scontato ad un tasso del 3% annuo: questo significa, per esempio, che perdere 879€ tra 20 anni equivale ad una perdita attuale immediata di 487€.

Con questa tecnica G&R stimano che il valore attuale del totale delle perdite future di ciascun studente sia pari a 21.197€. Si noti, tra parentesi, che per arrivare a questa cifra è necessario sommare perdite per 42 41 anni lavorativi e non per 40 come scrivono G&R [gli anni da sommare sono 41, come risulta dalla tabella in calce al post, e non 42].

Questa perdita, scrivono G&R, rappresenta l’

84 per cento di un salario medio annuo. A livello individuale si tratta di un costo significativo.

e aggiungono che

una volta esteso a 8,4 milioni di studenti italiani, la cifra diventa approssimativamente di 178 miliardi di euro, ovvero circa il 10 per cento del Pil 2019.

Lasciando da parte la comparazione con il PIL che pare particolarmente eroica, salta all’occhio che le stime di Psacharopoulos et al. per gli Stati Uniti diano risultati molto diversi rispetto a quelle di G&R. Infatti negli Stati Uniti i costi di una chiusura di durata circa uguale (3 mesi equivalenti a circa 13 settimane) ha costi decisamente inferiori rispetto alla chiusura in Italia (14 settimane).

Più precisamente: in Italia 14 settimane di chiusura comportano su 42 41 anni di lavoro una perdita equivalente all’83% dello stipendio medio attuale, mentre negli USA una chiusura di 13 settimane comporta su 45 anni di lavoro una perdita di reddito equivalente al 63% dello stipendio medio attuale.

C’è qualcosa che non torna, tanto più che, come è ben noto, il rendimento del capitale umano è molto più elevato negli USA che nel nostro paese.

Addirittura, secondo Psacharopoulos et al., il costo individuale pagato dalle giovani generazioni per la lotta al COVID19 a seguito della chiusura delle scuole non sarebbe da considerare particolarmente elevato a livello individuale:

This quick estimate suggests lost earnings of $1,337 per year per student: a present value loss of earnings of $33,464 (63 percent of a year’s salary at current average wage rates). While this may not sound like too much of an individual price for young people to pay in the fight against COVID-19 […]

Come è possibile questa disparità di dati e interpretazione tra Stati Uniti e Italia? La spiegazione sta tutta in quell’anno composto da 40 settimane che G&R introducono, senza dichiararlo, nelle modalità di calcolo, cosicché a fronte di un periodo di chiusura circa uguale, la perdita di reddito italiana finisce per valere il 3,5% dello stipendio contro il 2,5% statunitense.

Se si rifanno i calcoli usando davvero tutte le ipotesi di Psacharopoulos et al., e si considera un orizzonte lavorativo di 40 anni (come dichiarano ma non fanno G&R), allora i risultati italiani appaiono del tutto in linea con quelli degli USA. A fronte di una perdita di reddito mensile di €676 (2,7%), il valore attuale su 40 anni di lavoro è pari €16.094. La perdita rappresenta il 64% del reddito medio attuale. Una stima, come si può notare, del tutto simile al 63% calcolato per gli Stati Uniti da Brookings.

3. Tutti i salmi finiscono in … Invalsi

Sarà bene precisare, che abbiamo molti dubbi sulla plausibilità di tutti questi calcoli. E d’altra parte, persino nel post di Psacharopoulos et al. essi vengo presentati come prime stime approssimative.

E’ interessante invece notare che nel discorso pubblico italiano numeri e calcoli sono sistematicamente impiegati come strumenti di intimidazione matematica per dare una patina di scientificità ad agende politiche ad alto tasso ideologico, promosse da ristretti gruppi di pressione.

Come tutti i salmi finiscono in gloria, altrettanto puntualmente i conti della Fondazione Agnelli servono a glorificare le ricette di sempre: test INVALSI a settembre (e ci vuole davvero fantasia per capire la connessione) e un po’ di pedagogia compassionevole di second’ordine.

 

G&R

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9 Commenti

  1. Questi vivono talmente fuori dal mondo che non si sono accorti che le scuole in Italia NON sono state chiuse, e che quindi la stragrande maggioranza degli allievi ha potuto seguire le lezioni a distanza. Certamente un surrogato, specialmente per l’arretratezza dell’infrastruttura e la povertà delle famiglie, ma non pari a zero”, grazie ad uno sforzo collettivo di allievi, insegnanti e familiari di cui appunto il paese deve essere grato.

  2. Non so perché ma da quando ho cominciato a verificare i numeri forniti dagli economisti italiani che vanno per la maggiore nel dibattito pubblico su istruzione e università continuo a trovare errori, tipicamente a favore della loro visione ideologica. Confesso che mi aspettavo qualcosa di meglio e che, oggi come oggi, prima di dar fede ai loro numeri e ai loro conti, controllo sempre di persona. In tema di università, era stato necessario fare una vera e propria bonifica col DDT:

    https://www.roars.it/universita-miti-leggende-e-realta-collectors-edition/

  3. Resto sempre più allibito. Il futuro (e il fatto umano) è per definizione incerto. Come si fa a calcolarlo in modo quantitativo? E soprattutto a spacciare per certo quel che certo non è?
    La cifra in questo caso è cifrata e mi sa che dietro ad essa c’è molta puzza di una certa ideologia. Spacciarla con i numeri, dopo quasi due secoli di positivismo, è oggi una strategia di marketing. Weil scriverebbe che “gli uomini accolgono con sollievo la facile chiarezza delle cifre”. E Simmel concorderebbe affermando che “economia monetaria e dominio dell’intelletto si corrispondono profondamente. A entrambi è comune l’atteggiamento della mera neutralità oggettiva con cui si trattano uomini e cose, un atteggiamento in cui una giustizia formale si unisce spesso a una durezza senza scrupoli. L’uomo puramente intellettuale è indifferente a tutto ciò che è propriamente individuale, perché da questo conseguono relazioni e reazioni che non si possono esaurire con l’intelletto logico – esattamente come nel principio del denaro l’individualità dei fenomeni non entra. Il denaro ha a che fare solo con ciò che è comune ad ogni cosa, il valore di scambio, che riduce tutte le qualità e le specificità al livello di domande che riguardano solo la quantità. Tutte le relazioni affettive tra le persone si basano sulla loro individualità, mentre quelle intellettuali operano con gli uomini come se fossero dei numeri, come se fossero elementi di per sé indifferenti, che interessano solo per il loro rendimento oggettivamente calcolabile. È in questo modo che che l’abitante della metropoli si rapporta coi suoi fornitori o con i suoi clienti, con i suoi servi e spesso anche con le persone del suo ambiente sociale e con cui deve intrattenere una qualche relazione. […] questo fa si che l’interesse diventi di una spietata oggettività; l’egoismo economico, basato sul calcolo intellettuale, non deve temere nessuna distrazione che provenga dall’imponderabilità delle relazioni personali”. E ancora: “lo spirito moderno è diventato sempre più calcolatore. All’ideale delle scienze naturali, quello di trasformare il mondo intero in un calcolo, di fissarne ogni parte in formule matematiche, corrisponde all’esattezza calcolatrice della vita pratica che l’economia monetaria ha generato; sol quest’ultima ha riempito la giornata di tante persone coll’attività del bilanciare, calcolare, definire numericamente, ridurre valori qualitativi in valori quantitativi. Il valore del denaro ha introdotto nelle relazioni tra gli elementi della vita una precisione, una sicurezza nella definizione di uguaglianze e disuguaglianze […] le relazioni e le attività di tutti si intrecciano in un organismo così ramificato che senza la più precisa puntualità negli accordi e nelle prestazioni il tutto sprofonderebbe in un caos inestricabile”. Ormai il mondo è una metropoli. E Torino pure.

    Le citazioni: S. Weil, La persona e il sacro, Adelphi, Milano, 2012, p. 27.
    G. Simmel, Le metropoli e la vita dello spirito, Armando, Roma, 1995, pp. 38-39.
    G. Simmel, Le metropoli e la vita dello spirito, cit. p. 40.

  4. Siamo davvero impressionati dall’attenzione che la redazione di Roars (chi esattamente? in questi casi sarebbe buona norma firmarsi) ha reiteratamente dedicato al nostro articolo su lavoce.info sulla perdita di capitale umano per effetto del Covid. Vogliamo però tranquillizzare chi, in particolare Giuseppe De Nicolao, ha motivo di dubitare dell’attendibilità dei numeri degli economisti: in questo caso, basta applicare un po’ di aritmetica elementare per risolvere il busillis.

    Nell’articolo vogliamo stimare la perdita di capitale umano specificamente causata dalla chiusura delle scuole in Italia per via del Covid-19, rispetto a un qualsiasi altro anno scolastico. Come immaginiamo sappia anche la Redazione Roars, in Italia le scuole sono chiuse d’estate per tre mesi (quest’anno dal 10 giugno al 14 settembre, con un po’ di variabilità regionale). Nel nostro articolo vogliamo occuparci soltanto della perdita aggiuntiva causata dal Covid nel 2020; perciò la pausa estiva non va considerata; vanno invece considerate le 14 settimane (70 giorni di scuola) dal 5 marzo (anche qui con piccole differenze locali) al 10 giugno. 70 giorni di scuola divisi per i 200 giorni di anno scolastico previsti dalla legge fa esattamente il 35% di riduzione del tempo scuola normale (molto vicino peraltro al 33% stimato dalla Banca Mondiale); moltiplicato per il 10% di rendimento annuo del capitale umano porta a una riduzione del 3,5%, da cui discendono gli altri calcoli. La perdita annua di 879 euro si accumula, fino a determinare in 40 anni di vita lavorativa (non 42) la somma totale di 21.197 euro a persona (potenza dell’interesse composto!). Tutto qui.

    Nell’articolo – come detto – seguiamo la metodologia di Psacharopoulos ed altri: è però evidente che in un paese diverso dagli Stati Uniti i risultati non possono coincidere alla virgola. Inoltre, nell’articolo sottolineiamo esplicitamente che “la perdita potrebbe essere al massimo…”, poiché la nostra stima non può tener conto degli effetti della Didattica a Distanza e di quanto questa abbia mitigato la perdita di apprendimenti nelle 14 settimane. Per saperlo – ed è una domanda che crediamo cruciale, anche nell’eventualità di nuovi lockdown e di un nuovo ricorso alla DaD – avremmo avuto bisogno di confrontare gli esiti delle prove Invalsi di quest’anno con quelle degli scorsi anni (al netto di eventuali effetti coorte). Ma le prove quest’anno non si sono tenute.

    Andrea Gavosto – Barbara Romano

    • Scrivono Gavosto e Romano nel loro commento: “Siamo davvero impressionati dall’attenzione che la redazione di Roars (chi esattamente? in questi casi sarebbe buona norma firmarsi) ha reiteratamente dedicato al nostro articolo su lavoce.info”.

      Non c’è da impressionarsi. L’articolo ha avuto grande eco sui giornali; Redazione Roars ha ritenuto di dover intervenire con riflessioni generali e verificando i calcoli. Le “norme” per la firma degli articoli sono in linea dal giorno in cui abbiamo inaugurato il blog: . Vi si legge: “Gli articoli condivisi dalla redazione, che dunque esprimono un punto di vista comune della redazione, sono firmati a nome della redazione”. Dunque i due post sono firmati dalla Redazione Roars perché con la firma collettiva segnaliamo che gli articoli sono completamente condivisi da tutta la redazione.
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      Scrivono Gavosto e Romano: “Come immaginiamo sappia anche la Redazione Roars, in Italia le scuole sono chiuse d’estate per tre mesi (quest’anno dal 10 giugno al 14 settembre, con un po’ di variabilità regionale). Nel nostro articolo vogliamo occuparci soltanto della perdita aggiuntiva causata dal Covid nel 2020; perciò la pausa estiva non va considerata; vanno invece considerate le 14 settimane (70 giorni di scuola) dal 5 marzo (anche qui con piccole differenze locali) al 10 giugno. 70 giorni di scuola divisi per i 200 giorni di anno scolastico previsti dalla legge fa esattamente il 35% di riduzione del tempo scuola”.
      Evidentemente Gavosto e Romano hanno letto con troppa fretta il nostro post. Non si sono accorti che abbiamo fatto precisamente il calcolo che propongono nel loro commento. Lo abbiamo fatto in settimane e non in giorni. Immaginiamo però che anche Gavosto e Romano sappiano che 200 giorni di scuola corrispondono alle 40 settimane che abbiamo usato nel nostro post.
      Il problema è che nel loro articolo su LaVoce Gavosto e Romano scrivono di aver fatto i conti “seguendo le ipotesi” di Psacharopoulos e altri. Lo ribadiscono anche nel commento: “Nell’articolo – come detto – seguiamo la metodologia di Psacharopoulos ed altri: è però evidente che in un paese diverso dagli Stati Uniti i risultati non possono coincidere alla virgola”. Non ci risulta però che negli Stati Uniti le settimane ed i mesi abbiano durata diversa rispetto all’Italia.
      Le ipotesi di Psacharopoulos e altri non considerano le settimane o i giorni effettivi di scuola, ma l’anno solare. Come risultato, per Psacharopoulos et al..una chiusura di 3 mesi (1/4 di 1 anno) comporta una perdita del 2,5%. Se Gavosto e Romano avessero usato le ipotesi di Psacharopoulos la stima della perdita sarebbe stata di 1 punto percentuale più basso, come abbiamo scritto nell’articolo. E i risultati coinciderebbero quasi alla virgola con quelli degli Stati Uniti (come abbiamo mostrato nel post).
      ____________________
      Secondo Gavosto e Romano il 35% di riduzione del tempo scuola da loro usato sarebbe “molto vicino peraltro al 33% stimato dalla Banca Mondiale”. Peccato che Gavosto e Romano abbiano dimenticato di inserire il riferimento bibliografico che ci avrebbe permesso di essere più precisi in questo commento. In ogni caso, se si riferiscono al working paper della Banca Mondiale che abbiamo citato anche nel nostro post, la perdita del tempo scuola si riferisce a una chiusura di 4 mesi su 12 (corrispondente ad una perdita di 1/3 di anno (33%)). Di conseguenza, come abbiamo già scritto nel post e poco sopra, le settimane perse in Italia (14) corrisponderebbero circa al 25%.
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      “La perdita annua di 879 euro si accumula, fino a determinare in 40 anni di vita lavorativa (non 42) la somma totale di 21.197 euro a persona (potenza dell’interesse composto!)”.

      Se si usa, come abbiamo fatto nel nostro post, la “potenza dell’interesse composto!”, e si considerano 40 anni di vita lavorativa, il valore attuale della perdita è pari a 20.927 euro.
      Per arrivare a 21.197 euro, si devono sommare 41 anni di vita lavorativa.
      Saremo grati a Gavosto e Romano se riusciranno a indicarci come, usando la “potenza dell’interesse composto!” si arrivi a 21.197 euro sommando 40 anni soltanto; noi non ci riusciamo.
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      In relazione a questo ultimo punto, purtroppo, abbiamo fatto un errore anche noi nel post. Abbiamo fatto correttamente i calcoli e li abbiamo riportati correttamente nella tabella in appendice: vi risulta che sommando 41 anni di vita lavorativa si arriva a 21.197 euro. Nel testo del post abbiamo scritto, invece, che gli anni di vita lavorativa da sommare sono 42. Ci scusiamo con i lettori. Abbiamo corretto il post segnalando l’errore originario.



  5. https://www.donnamoderna.com/news/societa/scuola-settembre-2020-come-sara

    Anche la nota rivista scolastica “donna moderna” riporta in data 10/09 il parere “degli esperti” su come far ripartire la scuola. Tra questi, il direttore della FGA, Andrea Gavosto, che nell’intervista semplifica un po’ le cose, trovando tuttavia il modo di manifestare le sue principali preoccupazioni ai lettori.
    Leggiamo:

    “in Italia non possiamo ancora quantificarlo [l’apprendimento -o il capitale umano perduto?], perché sono saltati i test Invalsi di maggio, che invece negli Stati Uniti e in Gran Bretagna sono stati effettuati. E il risultato non consola: il 30% degli studenti ha avuto un calo nell’apprendimento della lingua madre e ben il 50% in matematica [..] è stata calcolato che ci sarà una perdita del 10% dei Pil nazionali quando queste generazioni entreranno nel mercato del lavoro

    Semplificare un concetto per renderlo accessibile ai più è dote di pochi, è vero.
    Tuttavia, qui si spacciano false analogie per dati di fatto e si tacciono invece i fatti realmente accaduti, che raccontano un’altra storia.
    E cioè che mai come in questa fase di emergenza la valutazione standardizzata ha mostrato il suo definitivo fallimento.
    Non solo non esistono “test INVALSI in USA e UK”, ma abbiamo tutti letto ciò che è accaduto ai test standardizzati proprio in quei paesi, durante la pandemia.

    In USA, ad esempio:

    The coronavirus pandemic, by forcing the cancellation of in-person test-taking, prompted elite universities including Harvard, Yale and the University of California system to join, at least temporarily, the list of schools that aren’t requiring the ACT and SAT entrance exams. (https://www.bloomberg.com/news/articles/2020-07-21/what-virus-protests-for-u-s-college-admissions-quicktake).

    per non parlare dell’UK, dove si è assistito ad una spettacolare retromarcia da parte del governo sull’attribuzione algoritmica di valutazioni assegnate agli studenti a fine II ciclo, in sostituzioni di quelle degli insegnanti
    (vedi qui o qui)

    Inculcare nelle mamme e nelle nonne, nelle lettrici o lettori di “donna moderna” la vaga idea che la scuola italiana senza i test INVALSI navighi (o miagoli?) nel buio, causando addirittura la perdita di punti di PIL, è oggi l’ennesima operazione di basso rigore intellettuale e di provincialismo a cui assistiamo in tema di scuola.

  6. Cari amici della Redazione, siete troppo severi. Così si rischia di essere addirittura ingiusti. Formazione Unica sulla Didattica Digitale Integrata (FUDDI), obbligatoria e magari da tenersi in spaziosi campi di rieducazione regionali; oppure far lavorare solo i docenti di matematica, italiano, inglese e scienze (gli altri a casa, pagati ugualmente? o – meglio ancora: a casa licenziati, con enorme vantaggio per il MEF?) sono idee oggettivamente spassosissime. Meritevoli dunque di diffusione. In attesa di entrare in aule con 28 studenti, ogni occasione per sorridere è preziosa. Dopo, chissà.

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