Si sono recentemente svolte a Roma (dal 16 al 19 maggio) le Olimpiadi Internazionali di filosofia, che hanno coinvolto gli studenti di 50 nazioni diverse. Quanto segue è una versione leggermente modificata di quanto detto sul significato della filosofia e sul suo ruolo nell’educazione e nella formazione dei giovani, in occasione della cerimonia finale di premiazione.
Alla base dell’importanza dell’insegnamento e della pratica della filosofia per i giovani in via di formazione v’è, e vi deve essere, a mio avviso, un’idea di fondo: che la filosofia non possa caratterizzarsi solo come una disciplina specialistica che si rinserra nelle torri d’avorio dei dipartimenti universitari. Deve essere anche questo, ovviamente, perché senza il lavoro specialistico dei molti studiosi che di essa si occupano, finirebbe per trasformarsi in un vago e generico chiacchiericcio, intriso di luoghi comuni e pensieri già datati. Essa deve anche non solo aprirsi alla società, ma cercare di diventare la coscienza critica di uomini adulti che vogliono pensare sé stessi e il proprio mondo all’interno di una tradizione di pensiero che ha una ricchezza di motivi e di riflessioni che non cessano di essere attuali. Essa metta a tal fine a disposizione una sorta di “cassetta degli attrezzi” – fatta di idee, argomenti, riflessioni e meditazioni – dei quali l’uomo contemporaneo non può fare a meno se non vuole sempre ricominciare d’accapo o correre il rischio di riscoprire l’acqua calda.
Se questo è vero, sarebbe tuttavia un errore pensare che la filosofia è un mero esercizio al ragionamento e all’argomentazione, ridurla a una sterile e astratta successione di deduzioni e controdeduzioni che – sospese nel vuoto – finirebbero per trasformarsi in inutile logomachia. La filosofia ci insegna sì a ragionare – in ciò analogamente ad altre discipline a tal fine particolarmente indicate, come ad es. la matematica – ma non fa ciò solo come esercizio dell’arte logica; piuttosto essa adempie a questo compito proponendoci modelli concreti di ragionamento e di dibattito che hanno avuto protagonisti collocati nella storia e nel tempo: sono i grandi filosofi, il cui pensiero bisogna studiare perché in esso non solo è contenuto un ricco patrimonio di cultura che ci aiuta a comprendere il nostro passato e quindi anche il nostro presente, ma anche paradigmi e stili di pensiero che si dimostrano ancora attuali e ci danno l’esempio concreto della filosofia nel suo divenire. Di ciò ne era perfettamente consapevole il fondatore della scienza e del metodo scientifico moderno, Galileo Galilei quando, nel criticare la logica scolastica e sillogistica al suo tempo ancora dominante come modello di argomentazione, ha scritto con grande acume:
«[…] la logica […] è l’organo col quale si filosofa; ma, sì come può esser che un artefice sia eccellente in fabbricare organi, ma indotto nel sapergli sonare, cosi può esser un gran logico, ma poco esperto nel sapersi servir della logica sì come ci son molti che sanno per lo senno a mente tutta la poetica, e son poi infelici nel compor quattro versi solamente; altri posseggono tutti i precetti del Vinci, e non saprebber poi dipignere uno sgabello. Il sonar l’organo non s’impara da quelli che sanno far organi, ma da chi gli sa sonare; la poesia s’impara dalla continua lettura de’ poeti; il dipignere s’apprende col continuo disegnare e dipignere; il dimostrare, dalla lettura dei libri pieni di dimostrazioni, che sono i matematici soli, e non i logici». E così la filosofia e l’arte del ragionamento filosofico è possibile che vengano insegnati e appresi solo col continuo leggere libri pieni di argomentazioni filosofiche; e questi sono esclusivamente i classici dei grandi filosofi.»
Ma la filosofia deve fare ancora uno sforzo: essa deve cercare di svincolarsi da una sorta di “globalized parochialism”(secondo la terminologia impiegata da Gereon Wolters), cioè l’idea che la sua storia sia solo la storia del pensiero occidentale. È necessario andare sempre più in direzione di una filosofia comparata, non intesa come mero gusto dell’esotico o semplice e sterile confronto tra sistemi di pensiero diversi nella vana speranza di trovare una sorta di “philosophia perennis”. Essa deve piuttosto illuminarci sulla molteplicità dei modi in cui l’uomo può rispondere a problemi ed esigenze che – questi sì – sono generalmente umani: la felicità, la sofferenza, il nostro destino nel mondo, il modo migliore di organizzare la nostra coesistenza, il senso del bello, il valore e il senso del male e del bene. A queste questioni tutti gli uomini hanno cercato di dare una risposta, in Occidente come in Oriente, al Nord come al Sud del mondo; ogni popolo, ogni comunità ha cercato la propria strada. E queste risposte, queste strade, non sono depositate in un circuito integrato, non sono oggetto di una dimostrazione matematica, non fanno parte della scienza delle costruzioni o dell’econometria, sono accuratamente tenute lontane dalle considerazioni economiche: ma, come ha capito Blaise Pascal, «Nei giorni di afflizione, la scienza delle cose esteriori non varrà a consolarmi dell’ignoranza della morale; ma la conoscenza di questa mi consolerà sempre dell’ignoranza del mondo esteriore». In questa “conoscenza della morale”, ovvero di ciò che è più proprio all’uomo, di ciò che oggi sintetizziamo con l’anglicismo di “humanities”, la filosofia ha sempre avuto un ruolo privilegiato, in quanto è nel suo patrimonio storico che sono ritroivabili le più significative indicazioni in merito. L’essere consapevoli della molteplicità delle strade imboccate, dei molteplici cammini che possono essere percorsi nel dare risposta a questi ricorrenti problemi, ci può insegnare il valore della comprensione, della tolleranza, dell’accettazione delle visioni altrui e quindi contribuire a forgiare il giusto atteggiamento per vivere in una società pluralista e multiculturale, in un mondo sempre più interconnesso e piccolo. Come ha detto il senatore pagano Simmaco rivolgendosi a Sant’Ambrogio da Milano e all’imperatore Valentiniano II, invocando la tolleranza verso la religione ellenistica, cioè quello che con senso dispregiativo fu definito “paganesimo”,
«contempliamo le stesse stelle, uno solo è il cielo che sta sopra di noi, è lo stesso il mondo che ci circonda: che cosa importano i diversi tipi di saggezza attraverso i quali ciascuno cerca la verità? Non si può arrivare a un mistero tanto grande attraverso un’unica via».

Ma c’è un ultimo aspetto che bisogna sottolineare, per dissipare l’idea che la filosofia sia una disciplina rivolta con lo sguardo al passato o che venga intesa come quel campo di continue controversie in cui non si riesce mai a cavare un ragno dal buco o – come vien spesso espresso in ore stultorum – quella “cosa con la quale e senza la quale il mondo resta tale e quale”. Tutti oggi si riempiono la bocca col sostenere che la nostra è ormai una “società della conoscenza”, anche coloro che di essa conoscono solo il nome. Ma forse pochi sanno che la filosofia è stata centrale per l’edificazione dei suoi concetti cardini e in particolare per dare impulso a quel “knowledge management” che è ritenuto il motore della sua economia. E infatti uno dei suoi elementi centrali – l’idea del know-how e quindi degli “skills”, di quelle competenze che oggi ovunque si dice debbano essere alla base dell’educazione (spesso dimenticando, purtroppo che senza il know-that, cioè una solida conoscenza disciplinare, le competenze si trasformano in mero addestramento tecnico) – è nato in ambito filosofico, nell’idea di “tacit knowledge” che è stata proposta prima in modo embrionale dall’epistemologo e scienziato polacco Ludwik Fleck e quindi in modo consapevole a sistematico da Michael Polanyi e Thomas Kuhn. Ebbene, questo concetto è stato ripreso da Ikujiro Nonaka, attualmente considerato il guru del moderno management economico basato sulla conoscenza; ma insieme a lui anche da molti altri che qui non è il caso di citare. E cosa fa Nonaka per formare il “wise leader”? Piuttosto che raccomandare una preparazione specialistica in economia, business, statistica ed econometria, così come fanno anche in Italia celebrate università i cui economisti, da essa formati, non azzeccano un’analisi economica, Nonaka (con Irotaka Takeuchi) insiste sul valore della formazione nelle scienze umane e tra queste mette al primo posto la filosofia:
«Infine, il giudizio può essere coltivato diventando ben versati nelle arti liberali, come la filosofia, la storia, la letteratura e le belle arti. Il management è un’arte liberale […]; liberale perché si occupa dei fondamenti della conoscenza, della cognizione del sé, della saggezza e della leadership; arte perché riguarda anche la pratica e l’applicazione. Per seguire ciò che predichiamo, qualche anno fa abbiamo lanciato a Tokyo un programma per dirigenti di alto livello il cui programma principale è costituito da Aristotele, Machiavelli, Heidegger e altri classici».
In fondo è questo un modo per rispondere alla famosa “domanda della Regina”, posta nel novembre 2008 da Elisabetta agli accademici della London School of Economics (che comprende molti Nobel dell’economia), sul perché nessuno avesse previsto l’arrivo della “orribile” crisi finanziaria globale che ha sconvolto il mondo. Solo il 22 luglio del 2009 la Regina ha ricevuto una lettera dai professori Tim Besley e Peter Hennessy, della quale la stampa inglese ha dato ampia pubblicità, in cui si cercava di dare una spiegazione della mancata previsione. Tuttavia, subito dopo, dieci importanti economisti inglesi (tra i quali tre membri dell’Accademia delle Scienze Sociali, un ex membro dell’antitrust inglese e il capo degli economisti della Greater London Authority) hanno risposto a questa lettera puntando il dito sulle «lacune nella formazione o nella cultura degli economisti» e sul fatto che «in anni recenti l’economia s’è virtualmente trasformata in una branca di matematica applicata, distaccata dal mondo reale degli eventi e delle istituzioni», col pericolo – denunziato anche da una Commissione della American Economic Association – di creare, con la formazione fornita attualmente, troppi “idiot savants” «ricchi di competenze tecniche ma ingenui sulle questioni economiche reali». Insomma,
«la preferenza per la tecnica matematica rispetto alla sostanza del mondo reale ha distolto molti economisti dal guardare alla vitale totalità. Essa non riesce a riflettere sulla deriva verso la specializzazione in aree ristrette di indagine, a scapito di qualsiasi visione sintetica. Ad esempio, non considera la tipica mancanza della psicologia, della filosofia o della storia economica dall’attuale formazione degli economisti in istituzioni prestigiose. A scarseggiare è stata una saggezza professionale informata da una ricca conoscenza della psicologia, delle strutture istituzionali e dei precedenti storici. […] Riteniamo che la formazione ristretta degli economisti – che si concentra sulle tecniche matematiche e sulla costruzione di modelli formali empiricamente incontrollati – sia stata una delle ragioni principali di questo fallimento della nostra professione».
Questa è una esigenza che negli ultimi anni si è avvertita sempre più e che contrasta con l’eccessiva insistenza, ora tipicamente italiana, sugli “skills” e su un tipo di addestramento sempre più standardizzato e ristretto in ambiti specialistici e settoriali, che inibisce la creatività e quel fecondo scambio di linguaggi, esperienze, visioni del mondo e sensibilità che porta al pensiero divergente e quindi alla possibilità di inventare il nuovo. Forse nell’universale riconoscimento di Sergio Marchionne come grande imprenditore – indipendentemente dal giudizio politico che del suo operato si voglia dare – non è senza significato il fatto che si sia laureato in filosofia, con una tesi su Heidegger, così come è avvenuto per altri manager e come viene auspicato da Nonaka. I nostri politici e leader economici dovrebbero forse essere un po’ più attenti a queste circostanze e domandarsi se l’attuale arretratezza della cultura imprenditoriale italiana, la sua sempre più accentuata scarsa propensione alla innovazione e alla creatività – che in passato ha caratterizzato quel che si è definito il “genio italico” – non sia anche dovuta al progressivo decadimento della cultura umanistica e all’eccessivo insistere su una professionalizzazione troppo prematura, cieca e priva di prospettive.
aiuto!! spero proprio che questa robba rimanga confinata al rituale di premiazione delle olimpiadi della filosofia (sic!) E’ proprio il contrario del sapere filosofico. ma tant’è, lo spirito dei tempi impone questa costituzione del Capitale Umano!