Intervento di Francesco Sylos Labini alla presentazione del libro di M. Cuccurullo, Le ali spezzate della ricerca. L’Italia e il Mezzogiorno nell’Europa della conoscenza (La scuola di Pitagora editrice). Napoli, 24 gennaio 2013, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici.

Uno degli aspetti che viene trattato nel libro di Milena Cuccurullo riguarda le “esternalità” della formazione universitaria. Si tratta di una questione che ha origine da una discussione con alcuni economisti, i quali propongono di aumentare le tasse universitarie e di far pagare l’università agli utenti, ovvero gli studenti, e non allo Stato perché, secondo loro, la formazione universitaria va a vantaggio del singolo e non della comunità. Questi economisti e i loro colleghi avrebbero dimostrato che non c’è una esternalità della preparazione universitaria, cioè essa non avrebbe alcuna ricaduta sulla società. Di conseguenza, perché una persona che non va all’Università dovrebbe pagare per essa attraverso la tassazione generale? Questi economisti non vedono nessuna ragione. Essi sostengono che, poiché la formazione va a vantaggio del singolo studente universitario – il quale farà il medico, il professionista, l’avvocato, e dunque guadagnerà –, quest’ultimo dovrà pagarsi l’Università indebitandosi e, quando guadagnerà, restituirà il debito che avrà accumulato. Leggendo il libro di Milena Cuccurullo, invece, si legge che cos’è l’esternalità della formazione, quel bene sicuramente un po’ effimero, difficilmente quantificabile, che si chiama cultura.

Il problema è che in Italia non si vuol riconoscere che la ricerca è un bene pubblico e soprattutto che è un investimento che deve fare lo Stato, per due ragioni molto semplici. La prima è che solamente lo Stato possiede le risorse per finanziarie la ricerca di base. La ricerca di base è una bestia strana, che a volte va in direzioni assurde e a volte in direzioni importanti. Nel libro di Milena Cuccurullo si parla, per esempio, di uno strano fenomeno che ho un po’ studiato, quello di credere che si possa creare l’eccellenza  a tavolino. L’idea che muove questa operazione è che, essendo le risorse scarse, bisogna creare l’istituto eccellente che farà progetti eccellenti. Chi pensa in questo modo non ha idea di che cosa sia la ricerca. Harvard, Princeton, Berkeley, Yale, Boston, che sono i riferimenti di chi parla di queste cose, cioè le Top University del mondo, non sono certo cattedrali nel deserto, ma si sono formate attraverso una storia molto particolare che è difficile ricreare dall’oggi al domani in Italia. Esse esistono perché il sistema di istruzione americano è fatto di tanti sistemi, quello delle Top University, quello federale, quello delle università statali, ovvero un network di istituzioni che fanno sì che l’eccellenza venga prodotta. Non si tratta, quindi, di un sistema basato su una decisione top down, ma di un sistema bottom up, perché così funziona la ricerca.

Un esempio concreto: quattro o cinque anni fa, il premio Nobel per la fisica è stato conferito a due ricercatori russi che hanno scoperto un nuovo materiale, il grafene, fatto di sottili strati con proprietà importantissime, e in pochi anni c’è stata un’esplosione di ricerche in quel campo. Ecco, in questo caso, se qualcuno avesse voluto finanziare a tavolino “le eccellenze”, non avrebbe mai finanziato quei due ricercatori, perché all’epoca in cui lavoravano a quelle ricerche non ne conoscevano gli sviluppi, erano normali scienziati che facevano normali ricerche. Quindi, bisogna dare la possibilità a tanti scienziati di fare il proprio lavoro e aver fiducia che da quel lavoro verrà fuori qualcosa, se i conti sono tenuti con un minimo di razionalità.

Questo è il problema dell’Italia di oggi. I ricercatori assunti nelle università e negli enti di ricerca non sono più messi in condizione di lavorare, perché i finanziamenti fondamentali alla ricerca di base sono stati tagliati e quelli rimasti, sia a livello nazionale sia a livello europeo, vengono assegnati a pochi gruppi. Questa non è una casualità, è la scelta politica che è stata fatta negli ultimi dieci anni, quella di lasciar morire la gran parte del sistema e concentrare le risorse su poche istituzioni e pochi gruppi. Secondo me, questa è una scelta fallimentare fatta da persone che non sanno cosa sia la ricerca scientifica.

Il secondo motivo per cui lo Stato deve finanziare la ricerca di base è che l’investimento in ricerca richiede tempi lunghi. Questo, purtroppo, è un problema intrinseco con cui ci troviamo a fare i conti sempre, a prescindere dal governo, perché la politica ha tempi scala completamente diversi da quelli della ricerca. Inoltre, in Italia non c’è interesse da parte del mondo imprenditoriale e, quindi, la ricerca viene lasciata allo sbando. La frase pronunciata da Berlusconi, «Perché dovremmo pagare uno scienziato quando facciamo le scarpe più belle del mondo? », è una frase illustrativa di una certa maniera di ragionare. Anche l’on. Possa, presidente della Commissione Cultura del Senato, ha detto esattamente la stessa cosa: «Noi siamo un paese di serie B e non possiamo permetterci di fare la ricerca che fanno i paesi di serie A». E Luigi Zingales ha detto che in Italia, vista la qualità dell’università e della ricerca, non possiamo puntare sulla ricerca perché non siamo capaci; dobbiamo puntare sul turismo perché ci sono un miliardo e mezzo di cinesi e un miliardo e mezzo di indiani che non vedono l’ora di fare le vacanze in Italia. Questa è un’assurdità perché presuppone che la massima ambizione del nostro paese sarebbe quella quallo di fare i camerieri. E’ una assurdità anche da un punto di vista economico soltanto una piccola frazione della popolazione cinese o della popolazione indiana è abbastanza ricca da pensare di venire a fare le vacanze in Italia.

Come si esce da questa impasse? La “riforma Gelmini” non è stata scritta dall’on. Gelmini, ma è stata scritta in Confindustria con l’appoggio di esponenti molto visbili dell’università Bocconi, come Francesco Giavazzi, che si sono esposte in prima linea in supporto di questa riforma. Questo è l’ambiente che ha partorito la riforma con lo scopo di ridimensionare l’università e la ricerca pubblica del 20-25%, per passare da 60 mila a 40 mila docenti universitari e indirizzare la ricerca verso linee che essi pensano siano utili alla sedicente impresa italiana. Si vogliono utilizzare gli enti di ricerca come uno strumento, perché le imprese non fanno ricerca. Se si leggessero le classifiche internazionali sull’investimento in innovazione tecnologica e numero di ricercatori delle industrie italiane con la stessa attenzione con cui si leggono quelle tanto sbandierate sull’Università, si noterebbe che l’Italia è sempre ultima in tutte le classifiche OCSE. Quindi, si prende un pezzo di università e un pezzo degli enti di ricerca e gli si fa fare quel lavoro che le imprese italiane non sanno fare e non hanno nessuna intenzione di pagare. Si tratta di un tentativo di assoggettamento della ricerca al potere politico e politico-imprenditoriale che non si è mai visto, almeno dal Dopoguerra a oggi.

Come contrastare questa deriva? Vorrei citare uno studio di un economista e un fisico, Hidalgo e Hausmann, che hanno analizzato i paesi vincenti nella competizione globale. Ogni paese genera una serie di prodotti, ciascuno dei quali ha un certo peso tecnologico: se un paese produce carriole è un conto, se produce personal computer e carriole è un altro conto. La prima informazione interessante che ci forniscono Hidalgo e Hausmann è che i paesi produttori di tecnologia avanzata producono anche le cose più elementari, cioè chi produce personal computer produce anche carriole, ma non è vero il contrario. Questo succede grazie al ruolo dell’università e di una società sana, perché non è solo l’università a generare sviluppo, ma è anche il sistema sanitario, il sistema giudiziario e tutta una serie di fattori che immettono conoscenze nella società. Che cos’è, dunque, una scoperta? È una piccola conoscenza che, però, riesce a legare insieme varie conoscenze preesistenti. Se faccio una scoperta nel deserto del Sahara non serve a niente, perché attorno a me c’è il vuoto; se invece la mia scoperta incontra una società che ha un certo sviluppo il piccolo progresso che io ho fatto può diventare una cosa importante, un po’ come quando dalle lettere riesco a formare parole nuove, che valgono più delle lettere prese singolarmente. Questo è il ruolo dell’università e per questo università e ricerca sono così centrali.

 

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