Tra i conflitti sociali i più tristi sono le guerre fra poveri, in cui le vittime di poteri lontani e incontrollati si scannano tra loro anziché indirizzare la propria forza e il proprio rancore verso chi ha la reale responsabilità della loro infelice condizione.

Purtroppo quando si è, anche involontariamente, coinvolti in questo genere di scontri è molto difficile mantenere l’equilibrio e la pacatezza che occorrerebbero per cercare di superare la fase conflittuale e portare la discussione su un piano razionale e possibilmente costruttivo.

Tra coloro che oggi osservano, con più che comprensibile interesse anche personale, ciò che sta avvenendo nel mondo universitario, è assai forte la tentazione di identificare, come soggetti contrapposti e portatori di motivazioni tra loro non conciliabili, un “partito conservatore” costituito da quanti sono già inseriti nel sistema in posizioni ben  tutelate, se non addirittura in ruoli di potere (i “baroni” ei  loro più o meno convinti affiliati) e un “partito riformatore” , animato da motivazioni anche profondamente differenti, ma accomunato dall’urgenza di riattivare i meccanismi del reclutamento, a partire dalle abilitazioni, ed esteso dal Lumpenproletariat dei precari ad horas fino ai massimi vertici politici e tecnici del Ministero.

Punte di diamante di questi opposti schieramenti sarebbero, secondo alcuni commentatori, il vetusto CUN e la neonata ANVUR, con il Consiglio impegnato a ostacolare ogni tentativo riformatore, e in particolare a criticare in modo distruttivo ogni proposta di “criteri e parametri” per la valutazione, mentre l’Agenzia si sta facendo carico di elaborare e raffinare strumenti capaci di ridurre in modo sostanziale l’arbitrio finora imperante nei meccanismi di reclutamento accademico, innalzando nel contempo il livello qualitativo medio (o mediano) della docenza.

Questa rappresentazione della situazione presente è a mio avviso a dir poco caricaturale, e non solo per il banale motivo che i due organismi sopra menzionati stanno semplicemente e doverosamente svolgendo il proprio compito istituzionale, al meglio delle proprie capacità, nella più chiara e netta distinzione dei ruoli, e ci sarebbe piuttosto da stupirsi e da preoccuparsi se chi ha il compito di formulare pareri e proposte non si esprimesse e non proponesse.

Ma a me sembra che l’errore più grave stia nel non riconoscere che i due ipotetici “partiti” di cui sopra, nella misura i cui esistono realmente, sono del tutto trasversali, in quanto la linea di faglia non è quella che separa i “garantiti” dai “precari”, ma quella che divide chi aspira a un’Università moderna, in grado di rispondere al bisogno di innovazione del nostro Paese, del suo sistema produttivo e del suo apparato amministrativo da chi invece, avendo probabilmente in mente un diverso modello di sviluppo economico e sociale, considera ogni investimento in formazione  e ricerca uno “spreco” e cerca strumenti di controllo, incluso un certo tipo di “valutazione”, con la finalità quasi esclusiva di “contenere la spesa”.

Non vorrei in questa sede entrare nel merito delle proposte specifiche e delle complesse problematiche legate al tema della valutazione della qualità scientifica individuale e collettiva; chi fosse interessato alle mie opinioni su questi argomenti troverà in rete i miei contributi in materia.

Qui  mi preme soltanto sottolineare due punti: in primo luogo il fatto che esistono numerosi studi scientifici internazionali (del tutto indipendenti dalle nostre vertenze locali) sull’attendibilità e sull’efficacia dei criteri bibliometrici di valutazione dei prodotti della ricerca, e che le loro risultanze sono così poco incoraggianti da suggerire, se non altro, l’inopportunità di tradurre in provvedimenti con forza di legge criteri di natura quantitativa che dovrebbero sempre essere temperati dalla consapevolezza dei limiti oggettivi del loro significato.

In secondo luogo vorrei rilevare che, sempre a livello internazionale, oggi non siamo all’anno zero della valutazione, e che quindi la mia osservazione precedente non ha come corollario il giustamente temuto immobilismo, ma il suggerimento di operare in Italia come si opera in Europa, seguendo procedure certamente perfettibili ma comunque già in qualche modo collaudate, come  ad esempio quelle utilizzate per il RAE britannico, o alternativamente  adottando le metodologie dell’AERES francese (non conosco a sufficienza le situazioni tedesca o spagnola, ma se anche da quelle c’è qualcosa da imparare ben vengano altre indicazioni).

Un ultimo, ma non marginale rilievo riguarda le cause ultime del ritardo nell’emanazione dell’insieme dei decreti necessari al decollo delle procedure di abilitazione. Conoscendo per ormai lunga esperienza i meccanismi che presiedono alla formulazione e alla pubblicazione dei decreti  ministeriali, sono in grado di asserire con ampia facoltà di prova che sia ANVUR che CUN hanno sempre risposto alle richieste giunte dal Ministero nel più breve tempo compatibile con la stesura di documenti tecnici (parlo di settimane, non di mesi), talvolta addirittura anticipando le domande, proprio per la largamente condivisa consapevolezza dell’urgenza di rendere operativa la riforma, indipendentemente da ogni giudizio di merito sulla stessa.

E posso anche serenamente affermare che, in materia universitaria, nessun parere difforme ha mai impedito al legislatore, né oggi né nelle legislature passate, di prendere decisioni di cui era convinto o di cui comunque ravvisava l’opportunità politica.

Chi ha strali da lanciare tenti, per favore, di indirizzarli verso bersagli che meritano davvero di essere colpiti.

Paolo Rossi

6 Novembre 2011

 

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