Con la sentenza pubblicata in calce cala il sipario sul “caso Capano”, una vicenda balzata agli onori delle cronache nazionali attraverso un servizio delle Iene. Il caso metteva in gioco la possibilità che, pur in assenza di espresso divieto legislativo, a un professore, membro dell’organo collegiale che abbia indetto una procedura per la copertura di un posto presso l’organo deliberante, sia concesso, o non, di avanzare legittimamente la propria candidatura per la procedura così bandita. In primo grado, la risposta del TAR Toscana, interpellato dal ricorso del prof. Giliberto Capano, era stata nel segno di invalidare il regolamento col quale il Collegio Accademico e il Consiglio Direttivo della Scuola Normale di Pisa avevano sancito in modo espresso il divieto della partecipazione degli “interni” alle procedure bandite dell’organo accademico di cui questi ultimi avessero fatto parte al momento della delibera. La modifica regolamentare era intervenuta dopo che il professore – che, sebbene assente il giorno della fatidica delibera, risultava a tutti gli effetti membro del Collegio Accademico che aveva dato il via alla procedura per una chiamata diretta di un professore ordinario di chiara fama ai sensi dell’art 1, comma 9 della Legge 4 novembre 2005 n. 230 – aveva fatto domanda per partecipare alla procedura deliberata dal Collegio in sua assenza. Il Consiglio di Stato, con la sentenza qui pubblicata, ribalta il verdetto di primo grado e ribadisce la validità del regolamento del Collegio Accademico e del Consiglio direttivo e della conseguente esclusione sancita a carico del ricorrente. Il principio di diritto, di cui nel breve commento che segue si evidenzieranno meglio i non troppo convincenti passaggi argomentativi, può riassumersi così: “è legittimo il regolamento di ateneo che, nell’esercizio della sua autonomia accademica, sancisca a carico dei membri degli organi accademici deliberanti una procedura di selezione il divieto di partecipare a detta procedura. I giudici di Palazzo Spada rimettono così all’autonomia accademica la facoltà di sposare una interpretazione estensiva del divieto che la legge ordinaria contempla all’art. 18, comma 1, lett. b) della legge n.240 del 2010, il quale, come noto, si limita a statuire che “in ogni caso, ai procedimenti per la chiamata, di cui al presente articolo, non possono partecipare coloro che abbiano un grado di parentela o di affinità, fino al quarto grado compreso, con un professore appartenente al dipartimento o alla struttura che effettua la chiamata ovvero con il rettore, il direttore generale o un componente del consiglio di amministrazione dell’ateneo”.
Il “caso Capano” vede un professore componente a tutti gli effetti di un organo accademico (Collegio o Dipartimento) avanzare domanda per partecipare a un concorso bandito dall’organo del quale egli fa parte, ancorché quest’ultimo curi di risultare assente nella seduta nella quale la procedura viene deliberata per essere in seguito bandita dai competenti organi di ateneo.
La vicenda, invero particolare (perché mai un membro di un collegio avente diritto di voto su una delibera che concorre a bandire una procedura per una chiamata diretta dovrebbe mai avere interesse a partecipare a tale procedura?), si spiega con una circostanza altrettanto particolare.
Il prof. Capano, ordinario presso l’Università di Bologna, alla data della delibera del Collegio Accademico della Scuola Normale di Pisa (9 settembre 2016), alla pubblicazione del bando in questione (7 ottobre 2016) e alla presentazione della domanda di partecipazione (10 ottobre 2016) svolgeva in concreto la propria attività di docenza, nella medesima posizione messa a concorso presso tale Scuola, in forza di convenzione SSN/Unibo e, in tale veste, faceva parte del Collegio Accademico e rivestiva il ruolo di componente di diritto del Consiglio di Istituto di Scienze Umane e Sociali della Scuola, godendo di elettorato attivo nei rispettivi organi.
Consapevole delle cause di incompatibilità indicate dalla lettera dell’art. 18, comma 1, lett. b) della legge n.240 del 2010, e verosimilmente non ignaro di come la giurisprudenza amministrativa avesse provveduto a estendere le incompatibilità positivamente nominate dalla legge Gelmini anche alla posizione del coniuge (sul rilievo che sarebbe irragionevole, anche in relazione al principio di imparzialità dell’azione amministrativa di cui all’art. 97 Cost., non reputare che la norma includa il caso del coniugio come situazione idonea a determinare la medesima incompatibilità censurata dalle parole del legislatore, se si considera che quest’ultima può derivare dall’affinità, vale a dire dal rapporto con i parenti del coniuge, come affermato da Cons. Stato, sez. VI, 4 marzo 2013, n. 1270, in conferma a TAR Abruzzo, 25 ottobre 2012, n. 703; ma v. sul punto il dubbio di legittimità costituzionale sollevato dal Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana con ord. 8 febbraio 2018, n. 76, che ha rimesso la questione innanzi alla Consulta affinché dica l’ultima parola sulla conformità a Costituzione di una interpretazione che estende il significato delle parole usate dal legislatore), il protagonista della vicenda confidava evidentemente sulla perdurante validità dell’antica massima “Ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit” e non esitava a formulare domanda di partecipazione alla procedura.
La domanda coglieva di sorpresa l’organo deliberante, che verosimilmente non ne accoglieva con particolare letizia la proposizione, se è vero che, con delibera del 22 dicembre 2016, la Scuola Normale si affrettava a modificare il proprio Regolamento di ateneo e che, con decreto del giorno seguente, veniva notificata al candidato l’esclusione dalla procedura, perché la novella del Regolamento aveva provveduto ad ampliare le cause di incompatibilità previste dalla legge, sancendo in modo espresso l’incandidabilità del direttore, del segretario generale, e dei professori appartenenti al collegio accademico e ai componenti del consiglio direttivo della Scuola.
In esito al ricorso avverso l’esclusione proposto innanzi al TAR Toscana dall’interessato si finiva così per controvertere sulla validità giuridica di una tesi evocata con una formula d’indubbia suggestione: quella del “parente zero”. Ovvero una interpretazione teleologicamente orientata della formula legislativa inserita nella legge Gelmini, costruita sul sillogismo che segue: se la legge ha voluto escludere i parenti, lo ha fatto per garantire che nella procedure concorsuali universitarie la selezione assicuri nel massimo grado il principio di trasparenza e buon andamento dell’azione amministrativa. Il contrasto al conflitto di interesse di cui la norma è espressione deve quindi essere perseguito in modo radicale ed estensivo, per essere ampliato in via interpretativa a tutte le situazioni suscettibili di vulnerare in premessa questo principio.
Dunque anche al coniuge, al civilmente unito, al convivente e anche e a fortiori – come nel caso Capano – a quanti concorrono a formare la volontà deliberante degli organi che attivano una procedura concorsuale. Costoro non possono – in base a questa visione di fondo – prendere parte alle procedure che concorrono a bandire, in virtù della loro (anche solo formale) appartenenza, quali soggetti dotati di elettorato attivo in seno a tali consessi, agli organi che nella loro composizione del caso, con la propria deliberazione, contribuiscono ad avviare una procedura di selezione pubblica (non possono quindi integrare la fattispecie le procedure bandite dai dipartimenti per posizioni alle cui deliberazioni non partecipano gli “interni”, i quali, pur membri del consesso, non hanno per regolamento diritto di voto sulla procedura deliberata).
Il TAR toscano offriva una interpretazione prudente e circospetta di una visione che finisce per affidare ai giudici – perché, diciamolo: questo è il vero punto nodale della questione – il potere di rendersi interpreti di una finalità che la legge non è riuscita a (o non ha voluto) catturare con le sue parole, quand’anche interpretate in base all’analogia, come si è fatto ritenendo (ma sul punto, come detto, si attende l’ultima parola dei giudici delle leggi) di porre sullo stesso piano il parente al coniuge.
Questo il punto saliente del ragionamento seguito dal TAR Toscana per accogliere il ricorso del ricorrente e negare ingresso a questa teleologia interpretativa, alla quale si ribatteva circoscrivendo il senso dell’intervento legislativo formulato nella Gelmini all’obiettivo di contrastare solo il deprecabile fenomeno del familismo (espressione che, dopo la legge sulle unioni e convivenze attraverso le quali prendono consistenza le formazioni sociali nelle quali l’individuo può vivere la sua quotidianità esistenziale e relazionale, assume oggi un senso assai allargato):
Non è negabile che il componente dell’organo dell’ateneo versi – rispetto alla procedura di chiamata deliberata dallo stesso organo di appartenenza, ed alla quale intenda partecipare – in una situazione di potenziale conflitto di interessi. Tanto premesso, la ratio del divieto di partecipazione di cui al più volte citato art. 18 co. 1 lett. b) l. n. 240/2010 risiede nella volontà del legislatore di contrastare uno specifico fenomeno, quello del c.d. familismo universitario (Cons. Stato, n. 1270/2013, cit.); e si riflette nella formulazione testuale della disposizione, la quale identifica i destinatari del divieto in ragione dell’esistenza di un rapporto di parentela o affinità, che, per quanto detto, è altresì riferibile in via interpretativa al coniugio.
Sul piano lessicale, il divieto non può essere esteso al candidato, il quale sia egli stesso componente dell’organo che ha deliberato la chiamata. Anche volendo estendere al massimo della loro portata semantica le espressioni adoperate dal legislatore, altro è l’esistenza di un rapporto di parentela, o affinità, o coniugio, dal quale deriva l’incompatibilità, altro è la titolarità in proprio di interessi potenzialmente confliggenti con quelli dell’organo/ente cui si appartiene.
E, del resto, l’estensione non è possibile neppure sul piano teleologico.
Il “familismo” è una delle possibili forme che può assumere il conflitto di interessi, in presenza del quale sorge l’obbligo di astensione del pubblico dipendente oggi enunciato in termini generali dall’art. 6-bis della legge 7 agosto 1990, n. 241, ma da epoca ben più risalente conosciuto e disciplinato dall’ordinamento (si pensi all’art. 290 del R.D. 4 febbraio 1915, n. 290), al punto da integrare una delle tradizionali figure sintomatiche dell’eccesso di potere. Conferma se ne ha dall’art. 7 del d.P.R. 16 aprile 2013, n. 62, recante il codice di comportamento dei dipendenti pubblici, in forza del quale “Il dipendente si astiene dal partecipare all’adozione di decisioni o ad attività che possano coinvolgere interessi propri, ovvero di suoi parenti, affini entro il secondo grado, del coniuge o di conviventi, oppure di persone con le quali abbia rapporti di frequentazione abituale, ovvero, di soggetti od organizzazioni con cui egli o il coniuge abbia causa pendente o grave inimicizia o rapporti di credito o debito significativi, ovvero di soggetti od organizzazioni di cui sia tutore, curatore, procuratore o agente, ovvero di enti, associazioni anche non riconosciute, comitati, società o stabilimenti di cui sia amministratore o gerente o dirigente. Il dipendente si astiene in ogni altro caso in cui esistano gravi ragioni di convenienza”.
il legislatore del 2010 ha inteso rafforzare in termini formali assoluti e preclusivi la tutela avverso il sospetto che le decisioni degli organi deliberativi degli atenei italiani possano essere influenzate dalla volontà di favorire direttamente soggetti legati da vincoli familiari con i componenti degli organi, e indirettamente questi ultimi, non ritenendo sufficiente il mero obbligo di astensione dalle decisioni. Nel far questo, del tutto coerentemente il legislatore non ha dettato una disposizione dedicata, in ambito universitario, al contrasto del conflitto di interessi tout court, ma ha individuato un’ipotesi qualificata di conflitto di interessi, quella legata, appunto, all’esistenza del rapporto di parentela o affinità, giudicata meritevole di particolare attenzione e di cautele aggiuntive (è appena il caso di rammentare l’elevato livello di attenzione che l’opinione pubblica notoriamente ha riservato e riserva agli episodi di vero o presunto favoritismo familiare in ambiente universitario).
Questa è l’intenzione che traspare e si coglie dal testo di legge, e che rende palese la ragione per la quale la norma non si occupa affatto della differente ipotesi del conflitto coinvolgente interessi propri del componente dell’organo deliberativo dell’ateneo. In relazione a quest’ultima, perciò, l’interpretazione estensiva propugnata dall’amministrazione non si giustifica, non essendo verosimile che il legislatore, pur volendo includere nel divieto di partecipazione anche i soggetti portatori di un conflitto di interessi in proprio (non derivante da legami familiari), abbia però omesso di menzionarli.
Specularmente, se fosse vero che il divieto di partecipazione alle procedure di chiamata non richiede il rapporto familiare cui la norma fa espressamente riferimento, allora esso dovrebbe reputarsi esteso alla generalità delle fattispecie di conflitto di interessi, in evidente distonia con la formulazione dell’art. 18 co. 1 lett. b), ancorché interpretato estensivamente.
Né il risultato al quale perviene l’impugnato provvedimento di esclusione è sostenibile sul piano dell’analogia, la quale è impedita dalla mancanza dell’eadem ratio tra la posizione del ricorrente e la fattispecie dalla quale la legge fa discendere il divieto di partecipazione: l’una e l’altra sottintendono una situazione di conflitto di interessi, ma quello che il legislatore ha voluto munire di una sanzione aggiuntiva è il solo conflitto qualificato dal rapporto familiare (la ratio della norma risiede, lo si ripete, nel contrasto specifico al familismo, non al conflitto di interessi “generico”).
Per di più, sottolineando un profilo che in effetti salta agli occhi ripercorrendo la cronologia della vicenda in esame, i giudici dell’amministrazione toscani non avevano omesso di stigmatizzare la singolare dinamica applicativa retroattiva impressa dalla Scuola Normale alla modifica regolamentare assurta ad atto presupposto dell’esclusione del candidato Capano, sul rilievo che:
Tali modifiche, nella parte in cui prevedono espressamente l’incandidabilità di direttore, segretario generale e componenti del collegio accademico e del consiglio direttivo, sono state dichiarate applicabili anche alle procedure già in corso, risultandone con ciò violata la regola generale dell’irretroattività dell’azione amministrativa, espressione del principio di legalità e dell’esigenza di certezza dei rapporti giuridici, che, in specie per gli atti a contenuto normativo, trova fondamento positivo nell’art. 11 delle preleggi. L’irretroattività assume un rilievo preminente quale garanzia rispetto all’adozione di provvedimenti limitativi della sfera giuridica del privato, impedendo all’amministrazione di incidere unilateralmente e con effetto ex ante sulle situazioni soggettive individuali (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 3 marzo 2016, n. 882; id., sez. V, 30 giugno 2011, n. 3920).
L’opposta conclusione cui perviene il CdS nella vicenda in esame non prende posizione su questo (per la verità non secondario) profilo critico della vicenda in esame. E, anzi, poggia l’architrave del proprio ragionamento ermeneutico sul rilievo assegnato al potere regolamentare degli organi di ateneo, cui, in nome dell’art. 33 Cost., sembrerebbe conferita (o confermata, a seconda dei punti di vista assunti scrutinando le spesso calpestate fondamenta costituzionali dell’autonomia accademica) la facoltà di specificare ciò che le parole della legge Gelmini non dicono, in nome di un’assiologia a tinte forti, che viene sì inferita dal sistema, ma che, per essere resa cogente e risultare dirimente nell’economia del caso specifico, come in quello dei casi a venire, sembra necessitare – stando al ragionamento che i consiglieri di Palazzo Spada scandiscono nella loro motivazione – di una specificazione regolamentare figlia di una reviviscenza (che in questo caso i giudici sono lieti di avvalorare) del principio dell’autonomia accademica.
Così il Consiglio di Stato:
Il caso di specie non pone un problema di interpretazione analogica o estensiva del divieto legale di cui all’art.18, comma 1, lett.b) l. n.240 del 2010, poiché nel giudizio si controverte in ordine alla posizione d’incompatibilità personale e non per il tramite di un rapporto familiare. (…) ha portata dirimente il rilievo, prima ancora di natura assiologica che giuridica, della ratio sottesa all’art 18 comma 1 lett b) della legge 240 del 2010 alla luce della disciplina regolamentare dell’Ateneo che della c.d. lex specialis della procedura selettiva in esame [sic].
L’esclusione dalla partecipazione ai procedimenti per la chiamata dei professori di prima e seconda fascia di “coloro che abbiano un grado di parentela o di affinità, fino al quarto grado compreso con un professore appartenente al dipartimento o alla struttura che effettua la chiamata, ovvero con il rettore, il direttore generale o un componente del consiglio di amministrazione dell’ateneo” altro non è che un importante corollario del principio assiologico su cui riposa la norma, ravvisabile nell’esigenza di evitare condizionamenti dell’organo della struttura che effettua la selezione.
La lettera della disposizione stigmatizza una delle condotte che più spesso inficiano il corretto svolgimento della procedura, ovvero la partecipazione di candidati legati da vincoli familiari ai componenti della struttura di appartenenza proprio al fine di prevenire il rischio di (una potenziale) compromissione dell’imparzialità che governa la decisione.
Lo scopo perseguito intero [sic] risulterebbe frustrato qualora si ammettesse la partecipazione al concorso del membro stesso della struttura: di fatto, ad absurdum, l’ipotetica (massima) compromissione dell’imparzialità non troverebbe alcuna preventiva sanzione.
In questo contesto assiologico e giuridico va restituito un ruolo specifico al regolamento dell’ateneo – la cui potestà, va sottolineato, discende dall’autonomia universitaria garantita dall’articolo 33 della Costituzione – il quale, per l’appunto, ha positivamente in via ricognitiva colmato lo spazio sull’incompatibilità ad personam lasciato aperto dalla normativa statale richiamata.
Se le cose stanno così, e prescindendo dall’esito infelice che questa motivazione imprime alla domanda del prof. Capano, la vicenda ci consegna una decisione che, nella sua capacità di porsi quale linea direttiva ordinante per la generalità dei casi futuri, solleva perplessità di non poco momento.
Punto primo. La sentenza afferma che per potersi dare l’interpretazione “assiologicamente orientata”, per la quale pure i supremi giudici dell’amministrazione mostrano di parteggiare, lasciando intendere di ritenerla immanente al sistema, questa immanenza al sistema da sola non basta. Essa, infatti, si può esplicare e può assumere forma giuridicamente vincolante solo nella misura in cui l’ateneo interessato da un futuro “caso Capano” abbia provveduto con propria disposizione regolamentare (che negli scenari a venire sarebbe auspicabile fosse presa prima di ogni delibera nella quale tale incompatibilità fosse rilevata) a “colmare positivamente in via ricognitiva lo spazio sull’incompatibilità ad personam lasciato aperto dalla normativa statale”.
Punto secondo. Si tratta di una facoltà o di un obbligo? L’espresso richiamo dell’autonomia accademica – se tale, almeno, essa viene considerata, senza lacerare le parole che servono ad esprimerla – lascerebbe propendere per il riconoscimento, tanto implicito quanto non controvertibile, della circostanza che ciascun consesso accademico italiano, possa, proprio perché sovrano detentore della sua autonomia, stabilire di specificare con proprio regolamento di procedura se “un parente zero” sia in grado di prendere legittimamente parte alla procedura che egli contribuisce a bandire.
Punto terzo e conclusivo. Così stando le cose – e così sembrerebbe che stiano, rileggendo più volte la scarna motivazione adottata a Palazzo Spada – vien fatto di domandarsi se la scelta di rimettere il principio costituzionale di trasparenza e buon andamento dell’amministrazione alle virtù (per definizione elastiche e differenziate) dell’autonomia accademica sia una scelta sensata, oltre che davvero conforme a Costituzione.
Non resta che auspicarsi che, nel dire l’ultima parola sulla estensione al coniugio delle parole con le quali la legge Gelmini ha inteso contrastare il fenomeno del “familismo amorale” dell’Università italiana, la Corte Costituzionale, nella decisione che si attende, contribuisca a chiarire e a definire i paletti entro i quali collocare il senso di una decisione che per ora rimette ai singoli atenei la scelta di sancire che il professore universitario acquisisca consapevolezza di essere parente di se stesso.
Insomma: se Capano piange, il Consiglio di Stato forse non ha motivo di ridere.
La “sentenza Capano” pone un ulteriore problema, mi sembra. L’estensore argomenta che “La lettera della disposizione stigmatizza una delle condotte che più spesso inficiano il corretto svolgimento della procedura, ovvero la partecipazione di candidati legati da vincoli familiari ai componenti della struttura di appartenenza proprio al fine di prevenire il rischio di (una potenziale) compromissione dell’imparzialità che governa la decisione”. E subito dopo: “lo scopo perseguito intero risulterebbe frustrato qualora si ammettesse la partecipazione al concorso del membro stesso della struttura: di fatto, ad absurdum, l’ipotetica (massima) compromissione dell’imparzialità non troverebbe alcuna preventiva sanzione”.
Questo ragionamento porterebbe ad includere nell’estensione del divieto tutti i “professori appartenenti al Dipartimento che effettua la chiamata” e quindi ogni concorso di I fascia vinto da un associato del Dipartimento potrebbe essere oggetto di ricorso da parte di candidati di altri Dipartimenti o Atenei. Non è vero infatti, come viene detto in un passaggio dell’articolo, che i professori associati non partecipano alle deliberazioni del Dipartimento sulle chiamate, perché la legge prevede che non partecipino SOLO alla chiamata finale, ma all’atto dell’approvazione della proposta partecipa tutto il Dipartimento…
Qualche ulteriore riflessione è pubblicata su http://www.ateneoedintorni.it/2019/02/02/divieto-partecipazione-cds/
Il commento pubblicato a corredo della frettolosa sentenza Capano si è limitato ad affermare:
Il lettore invece ipotizza che la portata giuridica della sentenza possa essere intesa nel senso di farle dire che sarebbe incandidabile l’interno che comunque appartenga al consesso, anche se privo del potere di incidere col proprio voto sulla delibera di approvazione del bando, e anche se costui si sia trovato ad approvare quello che è un atto presupposto del bando, come una delibera sui fabbisogni o sulla programmazione di un dipartimento.
Facciamo chiarezza.
La sentenza di cui si sta parlando rimette all’autonomia regolamentare dei singoli atenei, espressione dell’autonomia accademica che si è voluta tirare in ballo per supportare l’esito che si voleva evidentemente imprimere al caso Capano, la scelta in ordine al se accogliere questa “visione allargata” della incandidabilità legislativamente scandita dalla legge Gelmini, con la conseguenza di facoltizzare (proprio in nome della autonomia accademica) tutti i dipartimenti italiani ad ignorare l’esempio che la Scuola Normale ha voluto seguire in esito a quello che la cronologia dei fatti processuali di cui al caso in discorso potrebbe ragionevolmente lasciare ipotizzare sia stata la (singolare) adozione di un atto avente portata generale piegata all’obiettivo di colpire, con effetti retroattivi, una candidatura evidentemente non gradita.
Allo stato, pertanto, in difetto di un regolamento di ateneo vigente al momento del bando, che si preoccupi di dire ciò che il regolamento della Normale ha invece inteso dire, in linea generale non sarebbe dato riscontrare alcuna incandidabilità suscettibile di essere sancita in danno dell’interno ccandidatosi a una procedura bandita dal suo stesso dipartimento che abbia la ventura di essere investito da un ricorso.
Ma occorre guardare oltre questa prima conclusione, che pure allo stato appare incontrovertibile, almeno nella misura in cui si legga attentamente la sentenza di cui si parla.
Per far questo occorre sposare fino in fondo l’argomento teleologico che il CdS ha voluto, come si dice nell’articolo, ipostatizzare.
La logica teleologica del CdS va guidata dalla logica teleologica, e dunque sostanziale, propria di ogni conflitto di interessi. Per la quale, se un futuro candidato non ha diritto di voto sulla delibera del bando, perché il regolamento figlio dell’autonomia accademica non glielo consente, costui non può sostanzialmente incidere su quella deliberazione e, dunque, non può versare in conflitto di interesse.
L’argomento che paventa l’incandidabilità del componente di un consesso che abbia avuto in sorte di deliberare un atto presupposto del bando, ovvero una delibera sui fabbisogni o sulla pianificazione del reclutamento, estenderebbe oltre ogni ragionevole misura il profilo sostanziale del conflitto di interesse implicato dalla giusta preoccupazione di tutelare il valore della imparzialità e della rispondenza a buona amministrazione della scelta meritocratica che viene operata quando l’amministrazione bandisce una selezione.
È il bando che definisce i contorni di questa valutazione tecnica, che verrebbe ad essere esposta al rischio di subire gli effetti e di essere intaccata dall’esistenza dell’ipotetico conflitto di interesse. Non le delibere di spesa o di pianificazione, i quali identificano piuttosto atti che si pongono quali presupposti amministrativi di natura contabile o strategica del bando stesso, il contenuto dei quali non è in grado di vulnerare il principio di buona amministrazione che deve guidare la scelta tecnica da operarsi alla luce del bando – che a tal fine diventa la lex specialis del concorso – fra i candidati più meritevoli.
La si può pensare come si vuole, tante quante solo le vie concesse all’interpretazione che non è mai una scienza esatta. Ma un dato è ragionevolmente certo. Le considerazioni del lettore e queste ulteriori riflessioni costituiscono un motivo in più per toccare con mano quanto poco convincente sia stato l’epilogo giudiziario della vicenda Capano. E quanto meglio sarebbe stato se i presupposti fattuali di questa vicenda non avessero mai avuto modo di venire ad esistenza per propiziare questo poco soddisfacente e pericoloso epilogo.
Per il prof. Capano.
E per tutta l’accademia italiana.
Ad ogni modo, quando si interviene sul sito di ROARS, sarebbe bene che – proprio come si fa nelle riviste scientifiche – si dichiarassero in modo chiaro gli eventuali conflitti di interesse o molto meglio, e più semplicemente, il legittimo interesse personale nutrito nella definizione del tema oggetto del dibattito nel quale il proprio intervento viene a collocarsi.
Caro collega Umberto Izzo, niente da dire sul Tuo primo commento, sono d’accordo.
Il secondo è invece decisamente fuori luogo. Il mio commento riporta il link ad un mio articolo in cui si commenta la “sentenza Capano” scrivendo fin dalle prime righe che un caso simile è occorso a me ed è attualmente al vaglio del Giudice Amministrativo. Quindi, non viene nascosto niente (perché non c’è niente da nascondere): il “mio” link è parte del commento e riporta fin dalle prime righe il riferimento alla vicenda che mi riguarda. Pertanto evita di dire cosa “sarebbe bene” fare.
In ogni caso, non c’è da parte mia nessun conflitto di interesse. La sentenza Capano dice che la Normale di Pisa avrebbe agito correttamente in quanto l’esclusione del collega è stata operata sulla base di un Regolamento, mentre nel “mio” caso non c’è nessun Regolamento in tal senso (nemmeno in senso retroattivo, come nel caso pisano). Quindi le vicende sono del tutto diverse ed è arbitrario qualunque tentativo di renderle comparabili.
L’unica cosa che rimane è che, come correttamente noti, l’epilogo giudiziario della vicenda Capano è davvero poco convincente…
Il link presente nel Tuo intervento, se ne si legge il denso approdo con estrema attenzione, permette in effetti di capire che sei coinvolto in prima persona nella problematica, è vero. Dirlo subito e chiaramente nel Tuo intervento poteva essere più opportuno, non puoi aspettarti che ci si legga tutti i collegamenti linkati a un articolo prima di comprendere quanto si dice in un intervento. In ogni caso sono felice di puntualizzare, a scanso di ogni equivoco, che non ho mai ipotizzato che la Tua vicenda e quella di Capano fossero equiparabili.
Mio modesto e breve parere, la legge Gelmini è incostituzionale in questo come in molti altri punti. Ammesso che il “familismo” universitario esista veramente, i modi per contrastarlo sono o sarebbero altri.
Quindi Einstein che avesse la moglie in un dipartimento non potrebbe partecipare ad un bando?
Rigiriamo la questione: perchè la moglie/marito di un/una parlamentare puo’ candidarsi alle elezioni? Magari nella stessa lista del coniuge, lista magari nemmeno presentata dal congruo numero di elettori, ma semplicemente imposta da un segretario di partito. Magari senza nemmeno una delibera collegiale?
Dal che le conclusioni sono due. Perchè sempre due pesi e due misure? E perchè dobbiamo seppellire sempre la testa sotto la sabbia di fronte a queste assurdità?
Articolo arguto, ma il problema del “parente zero” non sta nella fantasia dell’interpretazione, bensí era un assurdo prevedibile creato dalla legge. Il matrimonio può prevedere la comunione dei beni, ma il parente zero è certamente in stato di comunione dei beni con sé stesso.
Ricordo bene un’accesa discussione nella commissione statuto unimi, in cui inopinatamente mi trovai a sostenere la posizione dei professori ordinari e (se non ricordo male) sostenni quella che resta l’attuale formulazione: “La formulazione delle richieste di posti di docenti di ruolo, ove se ne indichi la tipologia e la fascia ai fini della copertura, è riservata ai componenti del ruolo corrispondente e di quello o di quelli superiori.”
http://www.unimi.it/ateneo/normativa/3052.htm#par3116
Non so come sia stata applicata questa norma ma il tentativo è chiaro. Era evidente che fosse necessario tracciare il limite da qualche parte, proprio perché altrimenti si potrebbe spostare ancora oltre, per esempio si potrebbero escludere ricercatori e associati dalle delibere sui piani di sviluppo scientifico o sul “bilancio” del dipartimento, e cosí via.
C’è da chiedersi semmai come abbia fatto la SNS a non prevedere un caso simile e a non trattarlo preventivamente o prevenirlo. La stortura del caso specifico è che il docente era “in prestito” all’organo in questione. Ha avuto la possibilità di rifiutare o non richiedere l’inserimento in tale organo, oppure vi è stato inserito coattivamente?
Quanto è stato fatto a UniMi è esattamente quello che ciascun ateneo dovrebbe curare di fare, se non l’ha già fatto, non foss’altro che per una cautela volta a prevenire inutili contenziosi nello stato nebuloso in cui ci lascia il CdS. Altrove, in questa linea di commenti, si è però evidenziato come, anche nel caso in cui l’interno partecipi alla delibera di spesa o copertura, questo non debba implicare – proprio sul piano teleologico – un conflitto di interesse nel senso sostanziale richiesto per garantire integrità all’art. 97 Cost.