La scomparsa di Silvio Berlusconi ci spinge a interrogarci su ciò che è accaduto nel nostro paese in questo lungo trentennio, oggettivamente segnato da un pesante arretramento, sul piano civile, culturale e democratico. Da presidente di una fondazione che ha tra le sue missioni la ricerca nel campo della storia del movimento operaio, oltre che economica e sociale e della formazione sindacale, penso sia nostro compito contribuire alla costruzione di un giudizio complessivo su quello che molti già definiscono il trentennio inglorioso, volutamente contrapposto ai trenta gloriosi, gli anni che dopo la seconda guerra mondiale hanno portato a gran parte delle conquiste sociali e civili, che in questa sede per ragioni di spazio non posso affrontare. Ciò che conta è che progressivamente arretriamo.
Non ho mai pensato che la responsabilità di tutto ciò che è accaduto in questi lunghi anni di crisi fosse esclusivamente sua e degli esecutivi da lui guidati. Molti governi di vario colore, in una fase storica che ha visto una ridefinizione dei rapporti di forza tra capitale e lavoro a vantaggio del primo, hanno contribuito all’arretramento oggettivo sul piano dei diritti del lavoro e dei diritti sociali. Pensiamo Jobs Act renziano, che è riuscito dove non era riuscito Berlusconi. Oppure all’intervento del governo Monti sulle pensioni. Così come mai ho pensato che le vicende giudiziarie potessero rappresentare la cifra sostanziale per leggere la sua stagione politica, uno degli errori strategici dell’antiberlusconismo.
Trovo a maggior ragione sorprendente il racconto di questi giorni (reso ancora più grottesco dagli attacchi scomposti al rettore dell’Università per stranieri di Siena, Tomaso Montanari, per aver compiuto la scelta di disobbedienza civile di non ammainare la bandiera nazionale in segno di lutto, che tanti altri avrebbero dovuto imitare), teso a farne una sorta di eroe popolare, perché Berlusconi non può essere considerato come il Napoleone del 5 maggio manzoniano: il giudizio della storia è già dato.
Come la morte di Margaret Thatcher, anche quella di Silvio Berlusconi rappresenta una occasione di riflessione dopo il commiato e la sorprendente celebrazione di questi giorni, da cui emerge il tentativo di dipingere il cavaliere come artefice di cambiamenti epocali, quasi tutti positivi, e in tanti ambiti della vita nazionale. E come la lady di ferro, si tratta di una figura che invece non solo si è rivelata profondamente e storicamente divisiva, ma ha posto gravi problemi di etica pubblica. Tuttavia, ci si dice che di fronte alla sua storia intensa ci si debba inchinare con rispetto, come ad esempio ha tentato malamente di fare l’arcivescovo Delpini nel corso della sua controversa omelia, che ha ferito molti cattolici autentici. Ecco, io penso che questo approccio sia sbagliato profondamente, perché già offusca il giudizio storico. Valeva per la signora Thatcher e vale oggi per Berlusconi. Rinvio alle parole dell’economista Nicholas Kaldor sulla sua politica economica in un mirabile discorso del 1981 divenuto poi pamphlet dal titolo: “The Economics of the Primitive”, nel quale leggiamo che
“ritenere che la spesa pubblica debba essere tagliata al fine di equilibrare il bilancio, tesi così appassionatamente perseguita dalla premier, e dai suoi immediati sodali, deriva da una concezione antropomorfica dell’economia. Le religioni primitive sono antropomorfiche. Credono in divinità che forgiano l’aspetto fisico e il carattere degli umani. L’economia della prima ministra è antropomorfica dal momento che ella ritiene di poter applicare all’economia nazionale gli stessi principi e le stesse regole di comportamento che sono state percepite come appropriate per un singolo individuo o per una famiglia: paga ciò che è dovuto; amministra le tue spese adattandole a quanto guadagni; evita di vivere oltre i tuoi mezzi; evita di fare debiti. Si tratta di concetti che si adattano alla prudente condotta individuale ma si rivelano vere e proprie assurdità se applicate all’economia nazionale”
(trad. mia, https://digital.library.lse.ac.uk/objects/lse:rap747dir/read/single#page/14/mode/2up).
Parole ancora più chiare furono pronunciate dal grande regista Ken Loach nell’occasione del suo funerale:
“Margaret Thatcher was the most divisive and destructive Prime Minister of modern times. Mass Unemployment, factory closures, communities destroyed – this is her legacy. She was a fighter and her enemy was the British working class”
(trad. mia, “Margaret Thatcher è stata il primo ministro più controverso e distruttivo dei tempi moderni. La disoccupazione di massa, la chiusura di fabbriche, le comunità distrutte: questa è la sua eredità. Era una combattente e il suo nemico era la classe operaia inglese”). Le analogie non si fermano qui, ovviamente, dal momento che Berlusconi è stato interprete a modo suo acceleratore e originale costruttore di un’egemonia culturale neoliberista, individualista, in sostanza antisolidaristica che ha segnato per molti versi questo trentennio. Come?
Innanzitutto, la costruzione dell’immaginario popolare attraverso l’uso spregiudicato della televisione privata e l’abbattimento della conoscenza come fattore critico e motore del conflitto sociale. Fin dagli anni Ottanta, le tv private di proprietà di Berlusconi hanno creato l’humus culturale e strategico che ha forgiato intere generazioni, con un fine immediatamente evidente: la competizione con le reti del servizio pubblico doveva avvenire sul piano dell’infotainment, ovvero dell’intrattenimento leggero, dell’abitudine a certo linguaggio, dell’immagine delle donne piegata ad un uso mercantile del corpo, della tv come veicolo di pubblicità, e non viceversa. Nel corso degli anni, e a partire dal 1992 quando anche la tv privata dovette dotarsi di redazioni giornalistiche, questa cultura della “leggerezza” e della pubblicità si è fatta egemone, spingendo anche la Rai a fare altrettanto. La costruzione dell’immaginario popolare guidato dalle tv Mediaset ha poi determinato la spinta culturale di massa verso la vittoria alle politiche del 27 marzo del 1994 (non è stata solo frutto degli accordi elettorali separati con la Lega al nord e il Msi al sud…).
Oggi lo conferma anche Occhetto: la sinistra, nel 1994, non aveva compreso la portata di quella operazione culturale durata un decennio, e dinanzi allo scenario di una vittoria dei progressisti che avrebbero introdotto nuove norme (europee) più restrittive sulla proprietà dei media e sul conflitto di interessi, Berlusconi decise di “scendere in campo”, non certo per effetto di una visione ideale del Paese, ma di una malintesa e astuta definizione di libertà (“Casa delle libertà” si chiamava la prima esperienza politica del nuovo cartello elettorale), secondo la quale ciò che non è esplicitamente vietato dalle leggi è lecito. Ne fu la dimostrazione la sconfitta delle forze di sinistra nel referendum sulle televisioni del 1995, con slogan del tipo “vietato vietare”, “i comunisti negano la proprietà privata”, ecc. Ma ne fu la dimostrazione anche quel tentativo di mettere le mani sulla Rai, andato in porto più tardi con la presidenza Moratti. L’omologazione della Rai alla costruzione dell’immaginario popolare Mediaset fu cosa fatta (tanto che si parlò di RaiSet). Oltre l’85% del pubblico televisivo assisteva a un’offerta culturale ormai omologata, che pesò sulla formazione intellettuale delle generazioni successive.
C’era inoltre un messaggio ai giovani in quella omologazione culturale: ogni fine giustifica ogni mezzo, e se vuoi diventare ricco e famoso, evita di perder tempo a studiare, diventa imprenditore di te stesso, competi. Era la nascita della dottrina individualistica, più volte rilanciata dalla pubblicità di Publitalia (i seminari ad hoc per allevare giovani a scalare ascensori sociali ormai bloccati, semplicemente aderendo a quel pensiero dominante, come si aderisce a una setta). In questo senso, emergeva una versione tutta italiana del modello culturale già dominante nel mondo anglosassone, quello thatcheriano e reganiano appunto, fin dalla prima metà degli anni ’80, ovvero quello dell’impresa e dell’imprenditore come unico referente sociale su cui modellare ogni altra istituzione.
A che serve la scuola o l’università, date queste condizioni? Nell’epopea berlusconiana di questi giorni mancano alcuni elementi chiave della sua attività di governo: le sue iniziative su previdenza e lavoro e soprattutto gli interventi per tagliare risorse per le strutture pubbliche della conoscenza. L’accoppiata Moratti-Tremonti ne fu artefice rigorosa ed efficace. Qual era il messaggio? “La cultura di massa la facciamo noi attraverso i media” (e anche una certa etica individualistica del lavoro, che avrebbe minacciato le organizzazioni sindacali), non c’è bisogno della scuola pubblica o dell’università per andare avanti nella vita, e mettiamo fine a quella generazione di professori che vorrebbero allevare gli studenti al pensiero critico, e alla libertà. “Affamare la bestia”, disse Tremonti con lo slogan mutuato dal reganismo (affermazione che oggi nega, anche se la confermò al Giornale il 18 gennaio del 2010 – – dopo una lunga intervista del giorno precedente al Sole24ore ) per giustificare ideologicamente i tagli alla scuola, alla ricerca, all’università durante la grande crisi iniziata nel 2008 mentre i nostri partner e competitori come la Germania e la Francia aumentavano gli investimenti in questi settori strategici. Un errore colossale che pagheremo per sempre, un errore storico, proprio mentre serviva un investimento strategico in educazione scienza e tecnologia, assumendo l’ambiente come come vincolo e fattore trainante. Occorreva allora e occorre oggi far crescere i livelli complessivi di istruzione e la capacità di essere cittadini consapevoli (come ci insegna la Costituzione) ma allo stesso tempo guidare una necessaria profonda trasformazione del modello produttivo, della nostra specializzazione produttiva collocandoci su filiere a più alto valore aggiunto.
Ma non basta, ai tagli si unì anche la convinzione che scuola e università dovessero rispettare traiettorie strutturalmente classiste e si affermò l’idea che le autonomie dovessero competere tra di loro in un’ottica di mercato. Insomma, nell’era del berlusconismo trionfante dopo il 2001, il messaggio divenne ancora più chiaro: individualismo come forma di vita collettiva, competizione in ogni livello dell’esistenza (e chi non ce la fa si arrangi), la creazione dell’ideologia del manager ricco e potente come modello di potere e successo, il privato come destino, la povertà come colpa. Insomma, il berlusconismo è insieme un’ideologia culturale di massa e una ideologia dell’impresa privata (senza “lacci e lacciuoli da parte dello Stato”, come amava affermare l’allora presidente del Consiglio). Il liberismo individualista di massa s’era già fatto strada attraverso la rieducazione televisiva mentre l’ideologia della privatizzazione dello Stato andava costruendosi negli anni dei suoi governi.
E poi c’è la gestione dell’ordine pubblico durante il G8 di Genova e l’orrenda mattanza a cui abbiamo assistito e a cui molti di noi sono sfuggiti solo per un caso.
In conclusione imputare a Berlusconi e alla sua guida politica l’attuale condizione del nostro paese è parziale. E come abbiamo detto più volte sono enormi le responsabilità del centro sinistra nelle sue varie articolazioni, sia quando era chiamato a fare opposizione che quando fu al governo. Anzi, a volte, soprattutto al governo del Paese, il centrosinistra si è rivelato perfino subalterno all’ideologia che avrebbe dovuto combattere. La condizione delle lavoratrici e dei lavoratori è su questo punto un indicatore oggettivo. La precarietà, i bassi salari, lo stato della scuola, del welfare e della sanità ci dicono che per un lungo trentennio i diritti costituzionali sono stati profondamente messi in discussione dopo una stagione di avanzamenti guidata da grandi lotte sociali e democratiche, e da organizzazioni sindacali forti e coese. Unità e coesione sindacali che Berlusconi ha cercato sempre di minare, isolando di volta in volta la Cgil ma suscitando anche una grande risposta di popolo come dimostra la straordinaria iniziativa al Circo Massimo con milioni di persone.
Ecco se imputare tutto al Berlusconismo è un errore lo è altrettanto non riconoscerne il ruolo e il peso in questa lunga stagione in cui la cultura democratica e costituzionale ha fatto molti passi indietro.
Chi ci guarda da fuori, vede nitidamente tutte le contraddizioni dell’uomo e delle sue vicende, umane e politiche. Nel nostro dibattito pubblico ciò viene purtroppo rimosso in tante testate e si procede ad una sorta di beatificazione mediatica inutile quanto lo è stata la criminalizzazione della persona. Ecco, valutiamo assieme questi anni per ciò che sono stati, per evitare di commettere gli stessi errori, per evitare le retoriche di potere e dei potenti e soprattutto per guardare ai bisogni reali di milioni di persone, di lavoratrici e lavoratori, di famiglie, di ragazze e ragazzi la cui esistenza oggi è davvero resa difficile e insostenibile dalle tante disuguaglianze e dalle povertà originate da quei trenta anni ingloriosi. Soprattutto torniamo a pensare a ciò che serve davvero al nostro paese a partire non solo dalla difesa della nostra costituzione ma dalla sua integrale applicazione, questo sarebbe un programma ottimo per evitare altri trenta anni ingloriosi al pari di questi.
(Una versione ridotta di questo articolo è stata pubblicata su Avvenire)