1. Professori per concorso e la possibilità di farne a meno

 

Che per diventare professore nelle università italiane si debba superare un concorso è una regola che ha le sue ragioni, ma anche le sue eccezioni. In un articolo di pochi anni addietro pubblicato dal Giornale di diritto amministrativo (n. 1/2009), ad esempio, veniva stigmatizzata la (invero assolutamente atipica) possibilità di diventare professore ordinario attraverso il passaggio per un’alta scuola di formazione pubblica (nei cui ruoli si veniva nominati con decreto del Ministro delle finanze), ai cui docenti era stata eccezionalmente consentita una “equiparazione”, da spendere presso università italiane benevolenti. Ordinari senza essere mai stati valutati come tali, per nomina ministeriale, ma presto chiamati da qualche ateneo italiano in virtù di criteri di eccellenza variabilmente interpretati.

Diverso è il discorso di colleghi stranieri, professori “di chiara fama” che in un’ottica di circolazione della scienza, o più modestamente del personale delle istituzioni scientifiche tra atenei, anche di paesi diversi, meritano di essere inquadrati come professori nelle università italiane disposte a chiamarli, senza passare per le forche caudine di un concorso italiano o, d’altra parte, dover ricorrere a strani escamotage a perdere scritti da mani anonime in qualche sub-emendamento di decreti omnibus. Un’esigenza, questa, cui si affianca quella, altrettanto meritoria, di consentire il “rientro dei cervelli”: ecco, quindi, sancito dalla riforma “Moratti” (art. 1, comma 9, l. 230 del 2005 [http://www.camera.it/parlam/leggi/05230l.htm]) l’istituto della chiamata diretta (attraverso il coinvolgimento del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca e del CUN) di studiosi stranieri, o italiani impegnati all’estero, che abbiano conseguito all’estero una idoneità accademica di pari livello ovvero che, sulla base dei medesimi requisiti, abbiano già svolto per chiamata diretta autorizzata dal Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca un periodo di docenza nelle università italiane”.

Che poi la tradizione italiana dell’interpretazione del concetto di “chiara fama” sia, in altri campi, alquanto controversa (è il caso degli Istituti italiani di cultura) è un altro discorso: la novità è che anche il concetto di “rientro dei cervelli” si presta, come vedremo, ad essere dilatato e stravolto…

 

2. Il “merito” nelle università e le chiamate dirette

 

Il meccanismo della “chiamata diretta” si articola, si complica, ed inizia a porre significativi problemi (e merita, quindi, una certa attenzione) a partire dalla sua modifica nel 2009 (con il d.l. 10 novembre 2008, convertito con modifiche dalla legge 9 gennaio 2009, n.1 [http://www.camera.it/parlam/leggi/09001l.htm], guarda caso proprio il decreto per “la valorizzazione del merito e la qualità del sistema universitario”) e quindi, soprattutto, in seguito ai ritocchi operati dalla legge 240 del 2010 [http://www.camera.it/parlam/leggi/10240l.htm] (art. 29, comma 7). Ne discende un “congegno” complicato e confuso, che richiede di essere analizzato, ma del quale appaiono ora chiari effetti e potenzialità, come dimostra il fatto (lamentato dal CUN in una recente mozione [http://www.cun.it/media/115142/mo_2012_01_25.pdf] del  gennaio 2012) “che gli Atenei stanno inoltrando ai competenti uffici del Ministero un ampio e crescente numero di proposte di chiamata diretta (ad oggi ne sono pervenute più di 80), stimolati in questo anche dalle regole finanziarie incluse nella gestione del Fondo di Finanziamento Ordinario, e che tale numero evidenzia come l’istituto della chiamata diretta stia assumendo un peso di assoluto rilievo nel quadro delle procedure di reclutamento, sino a configurarsi come un secondo canale, caratterizzato però  da relativa indeterminatezza di procedure”.

Ecco, se usciamo dai meandri di commi e leggi di conversione, disposizioni “transitorie” solo a parole, la questione risulta interessante: quasi inosservato, un secondo canale di reclutamento, favorito in termini finanziari, si è andato ad affiancare a quello ordinario, proprio nel momento in cui quest’ultimo è inceppato, in attesa di criteri e bandi che possano riattivarlo.

 

3. L’attuale disciplina e le categorie interessate

 

Alla luce dei diversi interventi di modifica, la chiamata diretta risulta prevista relativamente a due ipotesi solo a prima vista assimilabili: a) la chiamata come professori ordinari di studiosi “di chiara fama”; b) la chiamata, come professori ordinari, associati o ricercatori di soggetti che abbiano variamente svolto attività all’estero o siano stati coinvolti in progetti comunitari e non “di grande rilevanza” (una categoria, quest’ultima, confusa, cui dovremo dedicare una qualche attenzione). Da notare, in particolare, che le ultime modifiche (operate dalla legge 240) nell’assoggettare le due (distinte) ipotesi alla medesima procedura, hanno non solo esteso il campo di applicazione dell’istituto delle chiamate dirette, ma ridotto lo spazio di manovra del CUN nella seconda ipotesi, dal momento che la legge “attribuisce al CUN  il solo potere di nomina di una commissione composta da tre professori ordinari appartenenti al settore scientifico-disciplinare interessato” (come evidenziato dallo stesso CUN nella mozione [http://www.cun.it/media/115142/mo_2012_01_25.pdf] già richiamata).

L’una e l’altra ipotesi (professori di “chiara fama” e non) sono, dunque, ora assoggettate allo stesso regime, infatti per procedere a queste chiamate dirette “le università formulano specifiche proposte al Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca il quale concede o rifiuta il nulla osta alla nomina, previo parere di una commissione, nominata dal Consiglio universitario nazionale, composta da tre professori ordinari appartenenti al settore scientifico-disciplinare in riferimento al quale è proposta la chiamata”.

 

4. Chiamate dirette sì, ma da dove?

 

Il primo, rilevante problema, è dato ora dal fatto che le categorie, diverse da quelle dei “professori di chiara fama” (anche se, evidentemente, trattandosi di ipotesi assoggettate al medesimo regime alcune distinzioni finiscono per sfumare) cui risulta astrattamente possibile applicare una normativa inizialmente sorta per favorire in primo luogo il “rientro dei cervelli” (e, più complessivamente, la loro circolazione a livello europeo ed internazionale) risultano non solo ampie, ma vaghe, quasi indeterminate: infatti, ai sensi della legge, le università possono procedere alla copertura di posti di professore ordinario e associato e di ricercatore mediante chiamata diretta di tre sub-categorie di studiosi:

[a] studiosi “stabilmente impegnati all’estero in attività di ricerca o insegnamento a livello universitario da almeno un triennio, che ricoprono una posizione accademica equipollente in istituzioni universitarie o di ricerca estere” (una fattispecie che mira a favorire la circolazione di docenti e ricercatori tra paesi diversi, oltre che il rientro “diretto” di studiosi formatisi in Italia che hanno poi hanno proseguito all’estero la loro carriera accademica);

[b] studiosi “che abbiano già svolto per chiamata diretta autorizzata dal Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca nell’ambito del programma di rientro dei cervelli un periodo di almeno tre anni di ricerca e di docenza nelle università italiane e conseguito risultati scientifici congrui rispetto al posto per il quale ne viene proposta la chiamata” (qui chiaramente l’obiettivo è quello di “stabilizzare” la posizione degli studiosi già coinvolti nei programmi di “rientro dei cervelli”);

[c] studiosi “che siano risultati vincitori nell’ambito di specifici programmi di ricerca di alta qualificazione, identificati con decreto del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, sentiti l’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca e il Consiglio universitario nazionale, finanziati dall’Unione europea o dal Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca”. Un’ipotesi, questa, introdotta dalla legge “Gelmini” e specificata da un decreto [http://attiministeriali.miur.it/anno-2011/luglio/dm-01072011.aspx] del 1 luglio 2011, che identifica appunto i programmi la partecipazione ai quali legittima il ricorso all’istituto della chiamata diretta. Un’ipotesi sulla quale è bene soffermarci: nell’indeterminatezza della norma, è di fatto al citato decreto ministeriale [http://attiministeriali.miur.it/anno-2011/luglio/dm-01072011.aspx] che è affidato il compito di circoscrivere, e specificare, il campo di applicazione di questa forma atipica di “rientro” di cervelli potenzialmente mai usciti dal territorio nazionale, altrimenti valida sia per reclutare che per “promuovere” professori e ricercatori coinvolti in progetti di “alta qualificazione”. Rientrano, dunque, in questo regime i progetti FIRB Ideas e Futuro in ricerca (dove in particolare i responsabili dei progetti possono essere considerati equivalenti a ricercatori a tempo determinato), ma soprattutto alcuni progetti comunitari (Cooperazione ed Idee), dove i coordinatori dei progetti possono essere considerati equivalenti a professori associati (ed in specifiche ipotesi anche ad ordinari).

Per quanto il quadro delineato dal decreto appaia tutto sommato circoscritto, restano una serie di problemi di tipo attuativo ed interpretativo, oltre ad una pericolosa lacuna procedurale.

Quanto ai dubbi, il CUN ne evidenzia almeno sei [http://www.cun.it/media/115142/mo_2012_01_25.pdf], a partire dalla fattispecie in cui il programma di ricerca indicato non è chiaramente riconducibile, per arrivare a quella per cui “la chiamata si configura come progressione di carriera di personale docente che è già nei ruoli dell’Università configurando in tal modo  un canale alternativo all’abilitazione nazionale di recente introduzione”.

 

5. Problemi procedurali non meramente formali

 

Al lettore che ha avuto la pazienza di seguirci sin qui apparirà chiaro che le diverse ipotesi si prestano inevitabilmente ad una qualche incertezza interpretativa: come definire le posizioni accademiche equipollenti, ad esempio, o la “stabilità” nell’impegno all’estero, e così via… il che rimanda, in termini generali, ad un problema di competenza a valutare le richieste dell’ateneo e quindi a circoscrivere il campo di applicazione della norma, e definire criteri e regole interpretative uniformi.

E’ proprio qui che risiede il problema principale di questo meccanismo: un problema organizzativo e procedurale, ma tutt’altro che formale.

A chi compete dunque l’istruttoria, ovvero valutare se ci si trovi in presenza dei presupposti previsti dalla normativa per l’applicazione dell’istituto della chiamata diretta: al Ministero, al Cun o alle sole commissioni? Il soggetto meglio deputato ad operare questo vaglio di “valutabilità” della proposta appare il CUN, a garanzia di uniformità di interpretazione ed al fine di assicurare standard minimi, ma la questione al momento (ed in assenza una migliore regolamentazione di queste procedure) appare rimessa essenzialmente alle commissioni, che quindi si trovano a disporre non solo di una discrezionalità straordinariamente ampia (a fronte dei criteri e parametri di valutazione, stringenti, che si vanno a prevedere per le procedure ordinarie di abilitazione) ma anche a significativi margini di arbitraggio nell’interpretazione (volta per volta, dunque,  variabile) dell’applicabilità dell’istituto.

A leggere la mozione del CUN, si coglie uno spunto interessante, che è anche il segnale di un disagio: il comitato universitario, costretto dalla normativa, effettuerà sì la nomina delle commissioni, ma “con riserva” (con conseguente esplicitazione dei motivi di questa “riserva”). Ma a chi è rivolta, questa riserva, e chi ne dovrà tenere conto? Il Ministero o, più verosimilmente, la stessa commissione? E con quale rilievo? Torniamo, dunque, al problema di fondo: l’incertezza che discende da un sistema di regole vago e confuso nel quale le domande (i dubbi degli interpreti certo, ma anche le richieste delle università che tentano di “forzare” questa via) si moltiplicano.

 

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2 Commenti

  1. Complimenti per l’articolo, completo e ricco di informazioni. Un ulteriore aspetto della chiamata diretta di studiosi stabilmente all’estero è che un ateneo potrebbe decidere di assumere per chiamata diretta un professore di una università estera senza imporgli di lasciare la cattedra. La legislazione italiana è lacunosa in proposito. Nel mio ateneo c’è un professore in servizio come associato a tempo pieno che è anche full professor in un ateneo straniero, non avendo mai richiesto nessuna autorizzazione per lo svolgimento del doppio incarico. Si è ora attivato per la promozione a ordinario per chiamata diretta, col beneficio del cofinanziamento del MIUR. Tali comportamenti sono da censurare o da incentivare? Sinceramente non saprei rispondere, ma vorrei almeno che tali situazioni fossero regolamentate.

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