Secondo quanto riportato da diversi quotidiani il Consiglio dei Ministri avrebbe già discusso l’ipotesi dell’abolizione del valore legale dei titoli di studio universitari nel quadro dei provvedimenti di “liberalizzazione”. La proposta concreta scaturita da questa discussione sarebbe però modesta: il voto di laurea non sarebbe più un elemento determinante nei concorsi pubblici. Non meraviglia che lo slogan massimalista che invoca l’abolizione del valore legale dei titoli di studio come panacea per i mali dell’università abbia sortito effetti così modesti. E’ quel che può succedere quando anziché analizzare i problemi per trovarne le soluzioni si parte da astratti e miracolistici rimedi.
I guasti e gli sprechi prodotti dall’eccessivo valore legale dei titoli di studio universitari sono invece ben documentati da un articolo dell’economista Paola Potestio pubblicato sul sito www.ROARS.it. Risulta dai dati riportati in questo articolo che il tasso di occupazione dei laureati italiani di età compresa tra 20 e 24 anni è circa un terzo del tasso di occupazione dei laureati tedeschi e inglesi, e la metà del tasso di occupazione dei laureati francesi, della medesima fascia di età. Anche nella fascia dei laureati 25-29-enni le cose non vanno meglio per gli italiani: il tasso di occupazione in Italia, per questa fascia, è intorno al 54% mentre in Francia, in Germania e in Inghilterra il corrispondente tasso è intorno all’85%.
Cosa fanno quindi i giovani laureati italiani ad un’età in cui i loro coetanei laureati in altri paesi lavorano? La risposta è semplice: frequentano ancora le aule universitarie. In sostanza, mentre in Germania, Inghilterra e Francia, dopo il primo livello di laurea la stragrande maggioranza dei laureati entra nel mondo del lavoro, senza che l’assenza di un diploma superiore costituisca un ostacolo nella successiva carriera lavorativa, in Italia, invece, quasi tutti i laureati di primo livello sono spinti a conseguire la laurea di secondo livello, perché leggi e regolamenti sollecitati da corporazioni interessate stabiliscono precise limitazioni alle professioni e agli impieghi cui possono avere accesso i laureati di primo livello. Ad esempio, la laurea di primo livello non è mai sufficiente per entrare nella professione di insegnante di qualsiasi ordine e grado ed in generale nessun concorso pubblico per un ruolo di funzionario è aperto ai laureati di primo livello (anche se due circolari del Ministro della Funzione Pubblica avrebbero stabilito il contrario).
Per di più è rarissimo il caso in cui una laurea di secondo livello possa essere conseguita nei cinque anni formalmente necessari. Quasi l’80% dei laureati di primo livello consegue la laurea con almeno un anno di ritardo, ed il ritardo sale a due anni per quasi la metà dei laureati. In pratica, per la maggioranza dei laureati il percorso universitario complessivo dura almeno sette anni.
La riforma universitaria del 3+2 che si proponeva di abbreviare i tempi di ingresso dei laureati nel mondo del lavoro è quindi fallita e la prima causa del fallimento è l’attribuzione di un valore legale assoluto alla laurea di secondo livello. Fermo restando la necessità di correggere anche il fenomeno dei ritardi negli studi, il primo passo da compiere sul sentiero della abolizione del valore legale dei titoli di studio è quindi quello di attenuare il valore legale del titolo di secondo livello, prima di tutto nei concorsi pubblici e poi per l’ingresso nelle professioni che non sono regolate in ambito europeo.
Per citare Paola Potestio: “La rimozione di vincoli per l’accesso a una serie di professioni, in particolare nel settore pubblico, rafforzerebbe chiarezza e ruolo delle lauree triennali e favorirebbe una ripresa dei tassi di attività, o almeno ne frenerebbe il declino. In conclusione, un articolato piano di interventi è ormai un passaggio indispensabile per un qualche riallineamento della occupazione dei nostri giovani laureati agli standard europei.”
(Pubblicato su Il Riformista il 25.1.2012)
I punti principali di questo intervento mi trovano d’accordo. Infatti è ormai evidente a tutti coloro che hanno a che fare con l’università che il 3+2 è completamente fallito (salvo nelle professioni paramediche, ma per quelle è un 3 e basta). Anche la causa è evidente , non si ha possibilità di trovare lavoro con la laurea triennale e il proseguimento alla magistrale diventa l’ultima speranza (anche se attualmente frustrata).
Non capisco però cosa c’entri il valore legale del titolo di studio. Fra le cause di questo fallimento sono infatti individuati problemi di qualità di domanda di lavoro. Una domanda di lavoro che non prevede laureati triennali. Questo è il vincolo che andrebbe rimosso, anche se, in periodo di crisi, non credo che questo possa essere risolutivo, infatti non capisco perché si dovrebbe occupare un laureato triennale quando allo stesso prezzo si può assumere un laureato magistrale.
Altro tema potrebbe essere quello di limitare forzatamente l’accesso alle magistrali con un numero chiuso molto ristretto, ma questo è un altro problema.
Non capisco perché si debba impostare il discorso in questo modo.
Se vogliamo guardare gli effetti dal punto di vista degli esiti occupazionali, le indagini più accurate sono quelle che fa il Consorzio AlmaLaurea
http://www.almalaurea.it/
che in questi anni ha fornito valutazioni complessivamente positive, o comunque più positive di quelle progandate da certa vulgata. Ovvio che in questi ultimi 2-3 anni c’è il fattore “crisi economica” da considerare, ma come lo mettiamo in relazione con “la riforma”?
Se vogliamo guardare gli effetti dal punto di vista del successo “interno” negli studi, e dalla progettazione dell’offerta formativa, vanno distinti vari aspetti.
Intanto non si può chiedere la solita “autonomia accademica” e poi lamentarsi con le decisioni politico-legislative se tutti gli aspetti di competenza della corporazione docente sono stati trattati, nel complesso, in modo inadeguato.
E poi non si può dimenticare il fatto che in Italia le Università non possono selezionare i propri studenti: devono accettare quasi sempre tutti, per quasi tutti i corsi. Per contrario, si osservi l’efficacia/efficienza nei corsi di Medicina. Ma la bontà di qualsiasi riforma non può assumere il mero parametro “produttivistico”, che pure è aumentato.
E’ mancata poi una seria discussione sul pilastro dell’istruzione terziaria tecnico-professionale, su cui far dirigere una sostanziosa porzione di matricole. Anche qui, principalmente, a causa della corporazione accademica.
Sono d’accordo con Renzo. Non mi sentirei di affermare con leggerezza che il 3+2 è fallito. Alma Laurea dice cose parzialmente diverse.
Il problema dell’uscita dei laureati triennali nel mercato del lavoro non è legato al fallimento del 3+2; ma ad un mercato del lavoro bloccato, e ad una domanda di lavoro indirizzata a professioni per cui spesso anche la laurea triennale è overqualified. (btw: assumere un laureato quinquennale al posto di un triennale è una opzione errata per una impresa: rischia di assumere un lavoratore che diverrà presto demotivato e frustrato, quindi un cattivo lavoratore)
I dati di Paola Potestio sono impressionanti e non hanno eguali in nessun paese europeo. Ma il problema non è dal lato dell’offerta. Ed infatti le righe di Potestio citate da Figà Talamanca ricordano che un intervento sul fronte della qualificazione richiesta per l’accesso ad alcuni lavori pubblici potrebbero aiutare. Ma non risolvere il problema.
Il problema è che le comunità accademiche locali hanno usato il 3+2 con obiettivi facilmente prevedibili, ma di cui il legislatore non aveva tenuto conto: proliferazione di corsi di studio, curricula, indirizzi, denominazioni, frammentazione, e chi più ne ha più ne metta.
Ne sono seguiti interventi correttivi sotto forma di vincoli numerici spesso falsamente stringenti su requisiti minimi etc. che hanno ridotto un po’ i problemi.
Completamente d’accordo che alla base del fallimento del 3+2 sia da ritrovarsi nella qualità della domanda di lavoro, nel pubblico e nel privato.
Quello che non condivido è la critica che da più parti si fa alla “proliferazione di corsi di studio, curricula, indirizzi, denominazioni, frammentazione, e chi più ne ha più ne metta”. Ammesso e non concesso che ciò sia avvenuto in modo rilevante (i dati ministeriali sommano il numero dei corsi della triennale e della la magistrale e li confrontano con i precedenti numeri delle lauree quadriennali, sic!). Non vedo cosa ci sia di male nell’aumento della offerta formativa, il rettore della Sapienza Frati si è pubblicamente vantato di aver diminuito l’offerta formativa, io penso invece che dovrebbe vergognarsene.
Dietro la diminuzione dell’offerta formativa c’è solo l’obiettivo di ridurre il numero di docenti che porterà solamente (oltre all’invecchiamento a causa mi mancanza di sostituzioni dei pensionati) a un peggioramento dell’offerta formativa complessiva.
Non so se è corretto dire che è un fallimento del 3+2. Ogni riforma sarebbe forse fallita. Non è colpa del 3+2. Questo il mio primo punto.
Ribadisco che la proliferazione dei corsi di studio seguente al 3+2, ma nn generata da esso, bensì da una malgovernata autonomia locale, è probabilmente l’errore strategico più grande commesso dall’accademia italiana. Per aprirsi spazi locali si sono inventate cose inenarrabili. Che sono diventate uno dei cavalli di battaglia dei detrattori di professione del sistema universitario italiano. Ed è difficile dar loro torto sul punto specifico.
Per quanto riguarda il fallimento o meno si tratta di vedere se si debbano e possano rimuovere le cause (scarsa quantità e qualità della domanda), oppure rivedere la riforma. Io penso che la via più praticabile sia la seconda.
Quanto alla proliferazione quantitativa (se è avvenuta non è stata rilevante) è mia convinzione che non sia un problema, ma l’aspetto qualitativo è un’altra cosa e non credo sia dovuto al 3+2. Dove si sono inventati corsi “inenarrabili” probabilmente si facevano lauree quadriennali “inenarrabili”, non credo che la riforma sia la causa di imbarbarimento o impazzimento dei docenti.
La riforma del 3+2 è fallita? Non intendevo un fallimento totale. Mille volte meglio il 3+2 fallito del fallimentare sistema che precedeva la riforma. Tuttavia non siamo riusciti a disegnare un sistema in cui la grande maggioranza dei laureati si possa fermare al primo livello senza per questo rinunciare alle mete più ambiziose di carriera. La responsabilità di questo fallimento, parziale, non è solo dei docenti che non hanno saputo disegnare percorsi didattici triennali adeguati, ma soprattutto di chi (ordini professionali, amministrazioni pubbliche, governo e parlamento) ha imposto la necessità di una laurea quinquennale per professioni ed impieghi pr i quali nei paesi con i quali ci confrontiamo è sufficiente una laurea più breve. La strada giusta è quella proposta dal Ministro Profumo nel Consiglio dei Ministri del 27 gennaio, e dal Consiglio rifiutata: un intervento di attenuazione delle lauree magistrali non a ciclo unico.
“La strada giusta è quella proposta dal Ministro Profumo nel Consiglio dei Ministri del 27 gennaio, e dal Consiglio rifiutata: un intervento di attenuazione delle lauree magistrali non a ciclo unico.”
Che cosa vuol dire? Diminuire il numero di lauree magistrali? Con quali criteri? Mettere il numero chiuso? Quali meccanismi di selezione, con quali tempi, con quali criteri?
È mia opinione che la strada giusta non possa né debba partire dall’università, ma dalla struttura qualitativa e quantitativa della domanda di lavoro (pubblica e privata).
Certo è più difficile, ci si deve scontrare con poteri forti e corporazioni, ma evitare il problema è solo mettere fumo negli occhi.
Cosa vuol dire decidere in un Consiglio dei Ministri, in astratto, che le competenze necessarie ai profili lavorativi della PA o delle Professioni hanno le proprietà formali L1, … , L5 della Laurea
http://www.quadrodeititoli.it/descrittore.aspx?IDL=1&descr=173
anzichè quelli LM1, … , LM5 della Laurea Magistrale?
http://www.quadrodeititoli.it/descrittore.aspx?IDL=1&descr=174
Dove sono gli studi, le ricerche?
Lo Stato del Michigan aveva fatto una volta una analisi della corrispondenza titolo di studio (tipo, livello) —> profilo funzionale
http://www.mi.gov/documents/CollegeDegreeList_13347_7.pdf
per l’uso di cui stiamo parlando.
Da noi una cosa del genere era stata prevista/programmata nel ’90, vogliamo ripartire da qui?
Nel Michigan per insegnare nella scuola elementare è necessario avere 13 anni di scuola preuniersitaria e cinque di università? Non ho mai vissuto nel Michigan, ma se ricordo bene, in California per insegnare nella scuola secondaria bastava che il Bachelor degree fosse complementato (anche al suo stesso interno) da insegnamenti di “education” che fornissero le cosiddette “teaching credentials”.
E in Italia quando si è deciso di allungare di sei anni il percorso didattico necessario per partecipare ad un concorso per un posto di maestro elementare sono stati fatti particolari studi e ricerche, o piuttosto non si è ascoltata la “lobby” dei pedagogisti che stavano perdendo lo spazio vitale nelle facoltà di magistero? E il consiglio dei ministri non dovrebbe intervenire sulle ripetute violazioni di circolari ministeriali che stabiliscono che di norma la laurea (triennale) è sufficiente per partecipare ai concorsi pubblici per posizioni non dirigenziali?
Ma infatti io non sto chiedendo l’assenza di interventi, bensì che questi interventi non siano “ideologici”.
Non sarà in un Consiglio dei Ministri che si potrà discutere di quali siano i profili lavorativi per i quali servono competenze guadagnate con Lauree o con Lauree Magistrali, e quali (tutte, poche, una particolare). Al massimo il CdM potrà e dovrà fornire valore giuridico ad una istruttoria tecnica dettagliata, per inserirla nell’ordinamento e farla valere in tutta la Pubblica Amministrazione dalle Alpi al Lilibeo.
il 3+2 è sostanzialmente fallito perchè il “2” è stato semplicemente un allungamento della carriera universitaria e non una reale specializzazione!! Chiamare “specialistica” una laurea che riprende sostanzialmente i contenuti della triennale evidenzia l’inconsistenza della riforma!! Basterebbe a mio avviso un anno facoltativo di “specialistica” che approfondisca un determinato campo di interesse dello studente (es. diritto del lavoro per un laureato in giurisprudenza)utile anche ai fini di una prossima professione o eventuale lavoro!!