I compagni di banco dei nostri figli, finché minorenni, sono tutelati da un permesso di soggiorno per motivi familiari. Al compimento del diciottesimo anno, gli italiani senza cittadinanza divengono stranieri in patria. Queste persone si trovano di fronte una serie di difficoltà burocratiche enormi se decidono di continuare gli studi universitari. Chiedendo ai nostri (pochi) studenti universitari italiani senza cittadinanza ho ascoltato delle storie molto toccanti. Le persone giovani e preparate rappresentano una grande ricchezza per tutto il nostro paese. Chi ha capacità andrebbe incoraggiato con ogni mezzo possibile nell’intraprendere un percorso di studi universitario, magari favorendolo con borse di studio. Pensare di risparmiare sull’educazione e lasciarsi scappare degli italiani sui quali si sono investite tante risorse equivale a non cambiare mai l’olio della macchina perché “costa tanto”. Un risparmio nel breve periodo, almeno finché non si rompe il motore.

“Trasformare i sudditi in cittadini è miracolo che solo la scuola può compiere.” (Piero Calamandrei)

Un aspetto all’interno della proposta di legge sullo ius soli (“diritto legato al territorio”) è lo ius culturae (“diritto legato all’istruzione”), cioè equiparare i figli di cittadini stranieri minorenni che hanno concluso con successo almeno un ciclo scolastico in Italia ai loro coetanei.

Se tale provvedimento non fosse approvato, a parte il non riconoscimento di alcuni diritti fondamentali, continueremmo ad infliggerci un danno a livello culturale ed economico

A questo proposito dovrebbe levarsi un coro unanime a favore dello Ius Culturae, soprattutto da parte delle istituzioni accademiche. È sorprendente che l’università trovi risalto mediatico nelle sparute miserie degli abusi di potere e non piuttosto nel dibattito culturale intorno a leggi come questa. È bene precisare che non stiamo parlando di regalare la cittadinanza a chiunque arrivi in Italia. Si tratta piuttosto di un provvedimento per valorizzare chi in Italia è cresciuto ed è parte integrante di questa società, avendo frequentato il luogo che è per eccellenza il sinonimo di condivisione ed inclusione, cioè la scuola. Mentre l’inclusione scolastica è una realtà fino alle superiori, frequentare l’università è un percorso ad ostacoli per dei ragazzi capaci e meritevoli. I compagni di banco dei nostri figli, finché minorenni, sono tutelati da un permesso di soggiorno per motivi familiari. Al compimento del diciottesimo anno, gli italiani senza cittadinanza divengono stranieri in patria. Queste persone si trovano di fronte una serie di difficoltà burocratiche enormi. Ad esempio, è possibile ottenere un permesso di soggiorno di cinque anni, ma solo dimostrando di avere un impiego fisso. Gli studenti dovrebbero lavorare e studiare allo stesso tempo, con il risultato che tendono a escludere proprio quelle facoltà che richiedono un impegno maggiore e presentano anche delle prospettive di impiego migliore. Qualcuno, poi, arriva a pagarsi di tasca propria i contributi di un impiego fittizio pur di potersi dedicare allo studio. Chiedendo ai nostri (pochi) studenti universitari italiani senza cittadinanza ho ascoltato delle storie molto toccanti. Ci si potrebbe interrogare in modo volutamente provocatorio sul perché allora investire risorse in queste persone garantendogli un’istruzione, se tanto al compimento della maggiore età dobbiamo regalare questa ricchezza ad altri stati. Quando, tra mille difficoltà, alcuni di loro dimostreranno di essere capaci in alcuni ambiti, daremo loro un foglio di via? E soprattutto via da dove, da quella che è per loro casa?

Le persone giovani e preparate rappresentano una grande ricchezza per tutto il nostro paese. Chi ha capacità andrebbe incoraggiato con ogni mezzo possibile nell’intraprendere un percorso di studi universitario, magari favorendolo con borse di studio. Anche se l’università ha un prezzo per la collettività, i benefici pubblici di un laureato in Italia sono stimati dall’OCSE in 3,7 volte i costi pubblici. Chi ha una visione “aziendalistica” della formazione superiore dovrebbe essere il primo a rendersi conto che l’investimento in istruzione è il migliore possibile per il nostro Paese. Non a caso, gli stati più avanzati, Germania in testa, durante il periodo della crisi hanno aumentato gli investimenti pubblici nel settore ricerca e istruzione, proprio per sopperire al minor sostegno dei privati. I primi a scendere in piazza contro le politiche di tagli dalla cosiddetta “riforma Gelmini” in poi sarebbero dovuti essere proprio i vertici di Confindustria considerando i danni incredibili che le politiche di tagli all’istruzione hanno causato allo sviluppo del nostro paese. Pensare di risparmiare sull’educazione e lasciarsi scappare degli italiani sui quali si sono investite tante risorse equivale a non cambiare mai l’olio della macchina perché “costa tanto”. Questo potrebbe apparire un risparmio nel breve periodo, ma lo è affatto se si considera il conto per sistemare il motore.

Sono state commesse grandi stupidaggini seguendo i pifferai magici che proponevano soluzioni stregonesche per ricerca e istruzione, tipo l’obbligatorietà dell’alternanza scuola-lavoro senza aver prima studiato dei percorsi formativi adeguati. Sarebbe davvero sciocco ora perseverare nelle sciocchezze e lasciarsi scappare la grande ricchezza che offrono gli italiani senza cittadinanza. Come sarebbe imperdonabile lasciare fuori dall’università questi ragazzi a causa di una legge anacronistica.

Post originariamente pubblicato su “IlFattoQuotidiano”.

Questo post è stato scritto in collaborazione con Marco D’Abramo, docente universitario. Gli autori ringraziano Desantila Halimi, studentessa di Chimica presso Sapienza, per aver corretto la grammatica.

 

 

 

 

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3 Commenti

  1. Io sinceramente mi preoccupo più del fatto che schiere di laureati e dottorati brillanti italiani debbano emigrare all’estero per trovare un posto di lavoro all’altezza.
    se riuscissimo a sfruttare bene le risorse che formiamo, ci sarebbe poi anche molto spazio per aiutare le persone in difficoltà, gli immigrati…

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