Pubblichiamo, così come le abbiamo ricevute, le repliche di Andrea Ichino e Daniele Terlizzese a Alessandro Figà Talamanca, Guido Mula e Paolo Palazzi, in quest’ordine. Per comodità del lettore, all’inizio di ogni replica riportiamo un sunto delle argomentazioni a cui gli autori rispondono, e i link agli articoli in questione.
1. Replica a Alessandro Figà Talamanca, Robin Hood al contrario? Una critica della proposta dell’aumento delle tasse universitarie
“…In queste condizioni c’è da chiedersi se valga la pena di riproporre ora un sistema di finanziamento degli studi universitari che è stato nei fatti (anche se non a parole) rifiutato per oltre venti anni dai governi che si sono succeduti. A questo punto potrebbe aver più senso ignorare la nuova proposta, e cercare di contrastare l’effetto “Robin Hood al contrario” aumentando le tasse universitarie per i più abbienti e utilizzando il ricavato per estendere, ad esempio, il beneficio delle borse di studio a tutti gli studenti classificati come “idonei”. Tuttavia il libro di Ichino e Terlizzese non si limita a proporre la offerta di prestiti agli studenti. Gli autori propongono infatti un modello di organizzazione degli studi universitari, di cui i prestiti sono un tassello necessario, il cui scopo è di introdurre condizioni di mercato nel sistema universitario conferendo un vero potere di scelta agli studenti. Non per nulla il titolo del libro è appunto “Facoltà di Scelta” . Si tratta, come cercherò di argomentare, di un modello che non rispecchia, la realtà del sistema di istruzione universitaria, ma che è tuttavia accattivante sul piano teorico e quindi suscettibile di influire, a mio parere in modo perverso, e potenzialmente dannoso, sulle politiche universitarie”.
Leggi il resto dell’articolo di Alessandro Figà Talamanca qui.
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Ringraziamo AFT Figà Talamanca AFT per l’attenzione che ha dedicato al nostro lavoro e proviamo a rispondere ai suoi rilievi critici.
Cominciamo con un mea culpa. Non conoscevamo il libro di Catalano, Mori, Silvestri e Todeschini e, data la somiglianza con le tesi che noi sosteniamo, si tratta di un’omissione di cui dobbiamo scusarci, con quegli autori e con i nostri lettori. Anche se non abbiamo mai preteso l’originalità della nostra proposta, che ha parentele strette e riconosciute con esperienze consolidate in numerosi altri Paesi, avremmo dovuto essere consapevoli che qualcosa di simile era già stato prospettato in Italia 20 anni fa, e addirittura sostenuto da autorevoli Ministri. Anche perché, come implicitamente suggerisce AFT, rappresenta una misura della difficoltà di realizzarla (su cui non ci siamo mai fatti soverchie illusioni). Non siamo però convinti che questa difficoltà, in sé, giustifichi la conclusione che “potrebbe avere più senso ignorare la nuova proposta”: spesso una buona idea è ignorata per anni e diventa realtà solo grazie alla cocciutaggine di qualche irriducibile “ottimista della volontà”; per fare solo un esempio (infinitamente più importante della nostra proposta), ci sono voluti più di 15 anni da quando in Italia si è cominciato a parlare di cinture di sicurezza nelle autovetture a quando usarle è stato reso obbligatorio.
Passiamo ora alle obiezioni di merito formulate da AFT (sono diverse, anche se spesso collegate tra loro, e inevitabilmente ci sarà un po’ di avanti e indietro; seguiremo comunque grossomodo l’ordine con cui lui le presenta; quando non indicato altrimenti, i pezzi virgolettati sono citazioni dal suo intervento; le enfasi eventuali sono nostre).
Partiamo dalla prima: la nostra concezione della formazione universitaria come investimento ci costringerebbe a vedere solo i suoi benefici monetari, a ridurre la scelta di frequentare l’università a un calcolo opportunistico basato solo sul reddito futuro che si potrà così ottenere. Secondo lui il nostro modello concettuale “presuppone che gli studi universitari servano principalmente, se non esclusivamente ad aumentare il reddito dei laureati, o che comunque le differenze di reddito tra laureati e non laureati costituiscano una misura dell’utilità degli studi compiuti.”
Non è così. Non pensiamo che lo scopo degli studi universitari sia solo di ottenere stipendi elevati. Scriviamo (nell’introduzione del libro): “Parlare di investimento non vuol dire necessariamente considerare solo i benefici monetari dell’istruzione. Non per nulla, lo stesso termine viene utilizzato anche in relazione ad altri valori di natura intangibile e difficilmente quantificabile: per esempio per indicare un investimento affettivo.” E ancora, nel capitolo 1: “…in aggiunta al rendimento monetario, ci sono altri benefici difficili da misurare ma non necessariamente meno importanti. Oltre ovviamente al piacere dell’istruirsi in sé e per sé, una maggiore cultura migliora la capacità di gestire la propria salute, l’alimentazione, le relazioni sociali, la partecipazione nella vita pubblica e civile e la capacità stessa di trarre godimento intellettuale o estetico da varie esperienze culturali. Una persona più istruita è una persona dotata di maggiori strumenti per vivere bene la propria vita.” Tutti questi benefici fanno parte, a pieno titolo, di ciò che uno studente può sperare di ottenere con la sua scelta. E quindi, per considerare l’esempio fatto da AFT di un maestro di scuola elementare, non crediamo ci sia nulla di strano, o di incompatibile con il nostro “modello”, che una persona decida di studiare per prepararsi a una carriera in cui guadagnerà poco, ma di cui apprezza altri aspetti (il rapporto con i ragazzi, la consapevolezza di svolgere un ruolo importante nel plasmarne le menti e la personalità, la ripartizione del tempo tra lavoro e tempo libero…), e che gli offre gli altri benefici di cui parliamo nel libro, sopra citati. Evidentemente, se delle persone liberamente scelgono di fare questa scelta, ritengono che il costo iniziale (che include il mancato guadagno per i cinque anni del corso di laurea, e non è affatto trascurabile) sia più che compensato dai benefici, monetari e non monetari, che otterranno nel futuro. A meno di non pensare che qualcuno le abbia obbligate, o di supporre che, sistematicamente, sovrastimino i benefici o sottostimino i costi. Noi preferiamo supporre che si tratta di scelte libere, consapevoli e mediamente ben informate.
Dall’affermazione che i maestri elementari “in termini monetari non trarranno nessun beneficio dall’istruzione universitaria” (affermazione che, come abbiamo argomentato, non è in contrasto con l’interpretare come un investimento la decisione di acquisire quell’istruzione), AFT fa poi derivare l’implicazione “che il finanziamento degli studi universitari dei futuri maestri sia molto più conveniente per lo Stato, e che almeno questa convenienza dia luogo ad un beneficio sociale”. Chiarisce quest’affermazione sostenendo che tali benefici sono infatti “associati alla posizione monopsonica (la posizione di unico compratore) goduta dalla società di riferimento nei riguardi di molte professioni e impieghi che richiedono una formazione universitaria”. Sostanzialmente AFT dice: i maestri elementari non sceglierebbero quella professione se dovessero pagare una quota maggiore del costo della laurea, poiché i loro stipendi futuri non sarebbero sufficienti a compensarlo; lo Stato li vuole impiegare, ed è l’unico che li vuole impiegare; volendoli impiegare, si garantisce che ci sia un’offerta di maestri elementari finanziando i loro studi; ed essendo l’unico che li impiegherà, sa che questo finanziamento gli “rientrerà” quando li farà lavorare con un basso salario (AFT non esplicita il suo ragionamento esattamente in questo modo, ma questo ci sembra sia il senso di quello che sostiene; e troviamo conferma di questo in una nota, in cui scrive, con riferimento alla formazione dei militari di carriera e dei sacerdoti: “Lo Stato nel primo caso, e la Chiesa nel secondo, si comportano razionalmente nel finanziare interamente (comprese cioè le spese di vitto e alloggio) la formazione di queste figure professionali proprio perché sono gli unici “compratori” dei loro servizi.” )
Questo ragionamento ci sembra che non funzioni. In primo luogo, come abbiamo già scritto, ci sono altri elementi (non monetari) che verosimilmente giustificano la decisione di laurearsi (per restare nell’esempio) in scienze della formazione primaria, e quindi non è ovvio che se lo studente dovesse sostenere una parte maggiore del costo rinuncerebbe. In secondo luogo, il fatto che lo Stato sia l’unico “compratore” non garantisce che tutti coloro che cominciano quel corso di laurea finiscano per fare i maestri elementari: una parte rilevante non completerà gli studi, un’altra parte sceglierà una professione diversa. Quindi non è vero che pagare gli studi è il modo più razionale di fornire l’incentivo, perché una parte rilevante di quello che si spende va perso: ben più efficiente sarebbe aumentare gli stipendi dei maestri elementari perché i soldi sarebbero spesi solo per coloro che effettivamente lo Stato riuscirebbe a impiegare (cosa che, per inciso, crediamo sia comunque desiderabile! In altre sedi abbiamo scritto riguardo a come si possano aumentare gli stipendi degli insegnanti, ispirandoci ad esperienze internazionali: ad esempio con scuole autonome e in competizione tra loro; ma anche ottimi sistemi centralizzati di istruzione hanno dimostrato di poter raggiungere stesso scopo).
AFT riconosce che l’aumento degli stipendi sarebbe un’alternativa al finanziamento degli studi (senza però notare che è un’alternativa più efficiente), ma si preoccupa di effetti imitativi da parte di altri comparti del pubblico impiego. Ci sembra che, se lo volesse, lo Stato potrebbe tranquillamente gestire questo tipo di difficoltà, come accade nelle aziende del settore privato.
In terzo luogo, la teoria economica ci insegna che posizioni di monopsonio (speculari rispetto a quelle di monopolio) sono fonte di inefficienza, e non è possibile metterle alla base di un presunto “beneficio sociale”: la posizione di monopsonio fornisce al compratore (di lavoro) una rendita, a danno dei lavoratori; per restare nell’esempio specifico, porta alla compressione estrema del compenso dei maestri elementari. Non si può quindi parlare di un beneficio sociale, ma è una ridistribuzione di reddito tra maestri e Stato. E siamo quindi in radicale disaccordo con l’idea, caldeggiata da AFT, di abbandonare un concetto preciso come quello di esternalità a favore di quello, intenzionalmente più vago, di “beneficio pubblico”. Per noi si tratta sostanzialmente di sinonimi, ma se per distinguerli si arriva a dire che il beneficio sociale include (a differenza dell’esternalità) la rendita di monopsonio goduta dallo Stato, ci sembra si faccia solo confusione.
Questo è strettamente collegato a un altro dei temi sollevati da AFT. A suo parere, il nostro riferimento al concetto di esternalità ci costringerebbe “ad adottare un modello che necessariamente ignora una parte della realtà…la chiarezza concettuale comporta una perdita, in termini di aderenza del modello alla realtà osservata”; per concludere che “il concetto di esternalità esclude, per definizione, tutti i valori che non siano quelli del “mercato”.
Qui l’economista ha un piccolo sussulto. È vero infatti il contrario. Per definizione, l’esternalità riguarda attività per cui il mercato non funziona adeguatamente: la si invoca esattamente quando si pensa che il mercato non basti. Al di là delle precisazioni dottrinarie (che, ci rendiamo conto, sono poco appassionanti), il concetto di esternalità ci sembra fornisca un adeguato metro di giudizio per valutare se una certa attività vada o meno sussidiata. Purché lo si capisca e lo si usi nel modo appropriato. Abbiamo notato che spesso c’è la tendenza a identificare i benefici immateriali e non monetari nell’istruzione superiore (e non abbiamo dubbio alcuno che ce ne siano tanti) con le esternalità (o i benefici sociali): queste si determinano quando il comportamento individuale di alcuni genera per la collettività benefici (o danni) di cui essi, basando le proprie scelte solo sul tornaconto personale, non tengono conto; ci sono in questi casi dei benefici che non verrebbero generati a sufficienza dalle scelte individuali (o dei danni che sarebbero generati in eccesso). Tuttavia molti dei benefici che abbiamo in precedenza indicato sono qualcosa di cui gode il singolo che acquisisce quell’istruzione. In questi casi, egli ha quindi tutti gli incentivi per acquisirla: non è necessario incrementarli ulteriormente, sovvenzionando il costo dell’istruzione superiore. Un sussidio sarebbe invece giustificato quando le scelte individuali generassero benefici “esterni” (in aggiunta a quelli che generano per il singolo), poiché di questi il singolo non terrebbe conto e finirebbe per scegliere un livello di attività insufficiente (rimandiamo all’ introduzione e al capitolo 1 del nostro libro per una spiegazione più estesa con esempi concreti).
Un altro argomento che AFT porta per sostenere che ci sarebbe un beneficio sociale non riconducibile a esternalità ma legato alla posizione monopsonistica della “società” è quello della formazione degli scienziati e degli ingegneri: osserva che il sistema delle università americane di ricerca “finanzia completamente l’istruzione volta al conseguimento del Ph.D. nelle scienze e nell’ingegneria”; da questo deduce che la società, “che in questo caso è rappresentata dal complesso delle grandi università di ricerca”, valuta il beneficio privato associato a quelle professioni insufficiente a produrre l’incentivo a intraprenderle e sceglie, essendo in “una posizione quasi monopsonica”, di finanziare i loro studi invece di pagarli di più.
Come abbiamo già detto, questo ragionamento non ci convince. Ma qui vogliamo fare altre osservazioni. La prima è che la nostra proposta non riguarda il dottorato di ricerca: quando si arriva a quel livello, entrano in gioco considerazioni diverse (per esempio il ruolo di promozionale svolto dai dottorandi per la loro alma mater), e comunque si tratta di una realtà quantitativamente limitata. La seconda è che non ci risulta che il Ph.D. nelle scienze “dure” o in ingegneria sia gratuito (le tuition fees annuali al Massachusetts Institute of Technology sono, per il Ph.D., nell’ordine dei 45000 dollari; non abbiamo fatto un’analisi sistematica, e forse l’MIT è l’unica eccezione alla regola indicata da AFT, ma sarebbe utile sapere quale sia la fonte su cui basa la sua affermazione). La terza è che non ci risulta che scienziati e ingegneri, in America, guadagnino poco (anche qui, quali sono le statistiche che AFT ha in mente?).
AFT riconosce che la nostra proposta potrebbe essere riarticolata, per tener conto dei benefici sociali imputabili ad alcune discipline, ma ritiene che ciò genererebbe un sistema troppo complicato, e comunque aperto all’obiezione che “una volta imboccata la strada di distribuire i costi degli studi universitari su chi ne usufruisce non sappiamo più dove fermarci”. Non ci è chiaro perché: ciascun corso di laurea ha (o dovrebbe avere) una contabilità abbastanza chiara dei suoi costi, e quello è ciò che deve essere in linea di principio coperto da chi lo frequenta. Vogliamo sovvenzionarne alcuni perché li riteniamo più utili per la società? Benissimo. Vogliamo differenziare il costo coperto in funzione dei redditi familiari, o del genere dello studente? Benissimo. Sono tutte correzioni che si possono introdurre, rispetto alla ripartizione iniziale, in modo trasparente ed esplicito (sono possibilità che nel libro indichiamo più volte; nel fare le simulazioni non ne teniamo però conto, solo perché il loro scopo è di valutare la sostenibilità finanziaria della proposta, e per quella rileva il valore medio).
La nostra idea è che acquisire un’istruzione superiore è un investimento che vale la pena fare se genera rendimenti complessivi superiori ai costi. I rendimenti (così come i costi) possono essere sia monetari sia non monetari, sia privati sia sociali. In alcuni casi la differenza tra rendimenti e costi (usiamo il termine differenza in senso lato, poiché non è detto che le varie dimensioni siano facilmente riconducibili a un’unica scala) potrà essere maggiore, ma questo non implica che solo quelli siano gli investimenti che è opportuno intraprendere, né che siano quelli che bisogna intraprendere per primi o con maggiore intensità. Potrebbero esserci dei casi in cui una certa professione genera benefici privati futuri che sono inferiori ai costi che si devono sopportare per conseguire la necessaria qualificazione. In questi casi, ci sono due possibilità: o ci sono dei benefici sociali, in aggiunta a quelli che il singolo percepisce, e che considerati insieme a questi ultimi più che compensano i costi, oppure non è così. In quest’ultimo caso si tratta, secondo noi, di investimenti che non sarebbe opportuno fare. Nel primo caso, invece, non avremmo niente in contrario a forme di sussidio.
Uno dei nostri argomenti, però, è che chi ha provato a misurare empiricamente la presenza di questi benefici sociali, aggiuntivi rispetto a quelli privati, ha trovato poco o nulla. Ne facciamo dunque una questione empirica, non una di principio. E proprio perché consideriamo con la necessaria dose di scetticismo l’attendibilità delle stime empiriche (specialmente in una materia come questa, in cui le informazioni sono poche e l’oggetto di analisi è complesso e sfuggente), la nostra posizione è molto cauta: non proponiamo di ridurre l’ammontare di finanziamento pubblico che già oggi va all’università, ma solo di reperire risorse addizionali facendole pagare (attraverso il prestito) a coloro che beneficeranno in futuro della formazione superiore.
AFT affronta poi un altro aspetto della nostra proposta: l’idea che la facoltà di scelta degli studenti serva da stimolo al miglioramento dell’università e quindi vada a premiare i corsi e gli atenei migliori. Riporta in proposito dei passaggi di un articolo di Ken Arrow, da noi stessi citato, in cui si ricorda l’asimmetria informativa intrinseca al rapporto degli studenti (e delle loro famiglie) con l’università, e il rischio che università motivate dalla massimizzazione del profitto finiscano per abbassare i propri standard qualitativi e vadano alla rincorsa di mode effimere. Sono certamente rischi che è bene tenere presente. E inducono a ritenere che, soprattutto grazie a una adeguata fornitura di informazioni alle famiglie e agli studenti sugli effetti delle diverse scelte possibili, sia possibile mettere i soggetti interessati nelle condizione di scegliere bene e di premiare solo le buone università. Ma, in ogni caso, la nostra proposta non è di andare verso università for profit (l’esperienza di queste ultime negli USA è decisamente negativa; per chiarezza, si tratta di una quota molto piccola delle università: le grandi e famose università private americane non sono for profit). Pensare che la scelta degli studenti eserciti uno stimolo sugli atenei non è equivalente a richiedere che l’università massimizzi il profitto: è perfettamente compatibile con un sistema in cui gli standard sono quelli della comunità scientifica e le università (pubbliche o private che siano) si limitano a coprire i costi e non sono motivate dal profitto. E infatti, lo stesso Arrow conclude il suo articolo così:
(1) Entry should not depend on parents’ social position or wealth or accidents of dress or accent.
(2) In the long run, the University graduates themselves must pay the full costs of their education, through some scheme similar to that I have suggested before. (lo schema descritto da Arrow è una variante di quello da noi proposto: “Let the government advance the financial support needed to go to university, with the expectation that the student will pay it back with interest over the period in which they earn money. The amount any one student pays depends on his or her income, perhaps proportionately…The most practical way of securing the repayment is simply to increase the income tax rate slightly for those who have used public funds for their university education. Students will not have a fixed debt but one which falls most strongly on those to whom repayment is no hardship”)
(3) The university graduates must develop an ethos of social stewardship. Their superior natural talents, enhanced by the university, have to be thought of as held in trust for the average and especially for the disadvantaged. This is first and foremost a matter of values to be held by the graduates, although there may be more specific requirements to be prescribed by society.
AFT obietta poi che nella nostra proposta le scelte degli studenti andrebbero a premiare gli atenei che eccellono nella ricerca, ma non è scontato che bravi ricercatori siano bravi insegnanti “per la prima laurea” (e anzi potrebbe essere vero il contrario). Siamo d’accordo con la seconda parte dell’affermazione (peraltro, come anche AFT sottolinea, c’è una differenza con l’insegnamento al livello di dottorato, dove avere bravi ricercatori come insegnanti è essenziale), ma non con la prima parte: perché gli studenti di prima laurea, adeguatamente informati, non dovrebbero desiderare di avere dei bravi insegnanti, oltre a corsi più efficaci e ben strutturati? Gli stessi esempi che lui cita, di Liberal Art Colleges che eccellono nell’insegnamento pur non svolgendo ricerca, e sono richiestissimi (e spesso molto cari), dimostrano che gli studenti sanno scegliere quello di cui hanno bisogno. E comunque la nostra esperienza (anche se in questo caso non abbiamo dati oggettivi) è che buona didattica e attenzione almeno passiva alla ricerca siano positivamente correlati in modo sensibile.
L’ultima osservazione critica di AFT riguarda la nostra concezione “elitaria” dell’università. Lui obietta, in termini fattuali, che il sistema italiano non è elitario, e un tipico ateneo italiano svolge le funzioni che negli Stati Uniti si possono trovare in tre diverse istituzioni, a gradi crescenti di selettività: i Community Colleges, le State Universities e le grandi università di ricerca. Quello che AFT scrive è vero, o almeno lo è nel disegno astratto del sistema (l’equivalente delle grandi università di ricerca, da noi, è un po’ difficile scorgerlo; e non ci sembra che in pratica ci sia una differenziazione dell’insegnamento che tenga conto delle capacità e delle potenzialità di segmenti diversi degli studenti). Ma forse c’è un’incomprensione sul termine elite. AFT sembra riferirlo a quel 10% di studenti che accede alle grandi università di ricerca. Noi ne diamo un’interpretazione più estesa, che verosimilmente include tutti gli studenti che, negli USA, vanno alle State Universities (di Community Colleges ce ne sono di due tipi: quelli da 2 anni, che sono delle scuole professionali post-secondaria, che nel nostro sistema non ci sono, e quelli da 4 anni, che rappresentano, in larga misura, un meccanismo di autoselezione in cui lo studente, con un costo basso, impara se è realmente portato allo studio universitario, e in tal caso passa a un college vero e proprio, oppure abbandona gli studi per cominciare a lavorare). Quindi per noi anche il sistema attuale italiano è di elite (e ancor più dovrebbe esserlo con l’introduzione rigorosa del numero chiuso).
Il punto, forse banale ma apparentemente non da tutti condiviso, è che non sia pensabile un’università seria per tutti gli studenti che escono dal liceo. E ci sembra che su questo concordi anche AFT: lui scrive che la formazione dei giovani che dovranno andare all’università non può essere chiesta alla scuola secondaria, che porta alla maturità il 70% dei giovani, con ciò implicitamente riconoscendo che la frazione di quelli che dovrebbero proseguire è sostanzialmente inferiore. Altra questione è invece quella se sia opportuno avere una maggiore differenziazione (per esempio tra università di insegnamento e università di ricerca, o comunque con il riconoscimento nei fatti di una gerarchia qualitativa), ma queste sono cose che attengono al disegno complessivo del sistema (che AFT, curiosamente, prende per immodificabile. Perché?). La nostra proposta non pretende di ripensare quel disegno, cerca solo di iniettarvi gradualmente e sperimentalmente degli enzimi di possibile miglioramento.
2. Replica a Guido Mula: Considerazioni sul saggio di Andrea Ichino e Daniele Terlizzese a proposito dei prestiti Income Contingent
La soluzione per il finanziamento del diritto costituzionale allo studio, del finanziamento costituzionale a ricerca e formazione non può trovarsi nello scaricare sui singoli che studiano l’onere maggiore della propria formazione.
Trasferire una logica di mercato nella cultura e trasformare quindi i sistemi di formazione come le università in aziende che devono produrre reddito è impostare il discorso, a mio avviso, in modo profondamente sbagliato. Non è questo lo scopo per il quale le Università esistono. Trasformarle in qualcosa che deve produrre direttamente dal punto di vista economico non può che portare, a mio avviso, a perdere di vista le sue missioni fondamentali e imprescindibili: formare persone ai massimi livelli e spostare più in là i limiti della conoscenza in tutti i campi grazie alla ricerca. La soluzione va trovata rivedendo le priorità e le strategia di spesa, smettendo di considerare cultura, formazione e ricerca dei costi quando non portano immediatamente a guadagni elevati di singoli o gruppi.
Leggi il resto dell’articolo di Guido Mula qui:
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Proviamo a rispondere alle critiche che Guido Mula formula nei confronti della nostra proposta (che peraltro è stata meglio articolata e spiegata, rispetto al saggio del novembre 2011 a cui lui fa riferimento, in un libro recentemente pubblicato da Rizzoli, Facoltà di scelta).
La sua prima osservazione (ripresa più volte) è che la nostra proposta sarebbe basata “sull’idea che una carriera universitaria, per essere considerata di successo, deve portare a stipendi elevati”. Abbiamo già risposto a Mula su questo punto (a seguito di un suo commento a un nostro intervento su Scienza in Rete), e rinviamo a quello che abbiamo scritto in quella sede.
Mula ricorda, correttamente, che il tipo di prestito da noi proposto è “income contingent”; ne dà però una definizione parziale, poiché lo identifica con un prestito in cui il rimborso avviene a partire da un livello minimo di stipendio (15000 euro). La caratteristica fondamentale del prestito income contingent è però un’altra: il rimborso è proporzionale al reddito al di sopra della soglia minima (nella nostra proposta il coefficiente di proporzionalità è il 10%); per un reddito annuo di 16000 euro il rimborso annuo è di circa 8 euro al mese; per un reddito di 20000 euro il rimborso è di 42 euro al mese. La proporzionalità al reddito (sopra la soglia minima) fa sì che il rimborso sia maggiore in quei periodi in cui è meno oneroso, e sia invece piccolo (o nullo) quando sarebbe più difficile sopportarlo.
Mula cita il rapporto dell’OCSE a confutazione della nostra affermazione (basata su studi empirici non nostri) che i benefici della laurea siano sostanzialmente privati. La citazione l’avevano già fatta Francesca Coin e Francesco Sylos Labini, ma si basa su un fraintendimento dei calcoli dell’OCSE; riportiamo la risposta che abbiamo già dato a Coin e Sylos Labini (su Scienza in Rete): “…l’OCSE calcola il beneficio per il settore pubblico, che non è la stessa cosa del beneficio collettivo o sociale che dir si voglia, come: “… additional tax and social contribution receipts associated with higher earnings and savings on transfers, i.e. housing benefits and social assistance that the public sector does not have to pay because of higher levels of earnings.” (Vedi pag. 172 di OCSE Education at a glance). Si tratta cioè di un calcolo che prende in considerazione solo le retribuzioni lorde dei laureati, aggiuntive rispetto a quelle dei diplomati (da cui derivano le maggiori imposte e contributi pagati), e non fa menzione di “effetti esterni” sul resto della collettività. Peraltro, questo spiega come mai l’OCSE stimi un beneficio pubblico derivante dalle donne laureate pari a circa la metà di quello derivante dai laureati maschi (un apparente paradosso rilevato da uno dei lettori di ROARS, che si chiede come sia possibile che le donne laureate diano un contributo sociale che è la metà di quello degli uomini). È la metà perché le retribuzioni lorde delle donne sono parecchio inferiori.”
Mula ricorda che, nella nostra ipotesi, il debito accumulato da uno studente in 5 anni, alla fine della laurea magistrale, sarebbe di circa 80000 euro, e scrive che “Non si possono infatti convincere le persone a indebitarsi per una tale somma con ragionamenti sofisticati, tanto più…se si considera la bassa soglia reddituale proposta per l’avvio della restituzione del prestito [15000 euro].” Nel libro riportiamo i dati (tratti dall’indagine sulle forze di lavoro dell’Istat) dei redditi dei giovani laureati, negli anni più recenti; si tratta di redditi annui lordi compresi tra i 17 e i 20 mila euro circa; questo vuol dire che il rimborso dei giovani laureati, fino a quando i loro redditi restano su questo livello, sarebbe tra i 20 e i 40 euro circa al mese (e sarebbe nullo per redditi fino a 15000 ero). È insostenibile? Nessun giovane oggi sarebbe disposto a ricevere 80000 euro per studiare dove vuole pur di evitare questo livello di rimborso? Ci interesserebbe conoscere le opinioni dei diretti interessati. Ciò detto, è possibile che la soglia da noi scelta sia troppo bassa, e può essere istruttivo simulare valori differenti.
Mula critica le nostre affermazioni riguardo alle “percentuali del finanziamento degli atenei dedicate a stipendi” sostenendo che esse trascurino il fatto che “quelle percentuali sono influenzate notevolmente dalla repentina riduzione dei finanziamenti alle università degli ultimi anni, riduzione che ha fatto scattare gli allarmi sulle percentuali di spesa per stipendi e costi per il personale invariati.” Anche prima di queste recenti riduzioni, le percentuali dei bilanci degli atenei (così come di altri ambiti della pubblica amministrazione) destinate a salari e stipendi erano molto elevate. Ciò perché in Italia la spesa per istruzione è stata soprattutto pianificata come uno strumento di politica del lavoro, non come una spesa nell’interesse degli studenti, a cui non servono tanti docenti, ma buoni docenti (e personale amministrativo). In ogni caso ciò che preoccupa è proprio che, nel contesto di tagli lineari operati dal Governo Berlusconi, le uniche voci praticamente non toccate (e lo stesso Mula lo riconosce implicitamente) sono il numero dei dipendenti e le loro retribuzioni. Come mai, secondo Mula? Perché si è preferito tagliare su tutto il resto e non anche su docenti e personale amministrativo, tra i quali è plausibile che qualcuno non meriti pienamente il posto e la retribuzione?
Mula è comunque il primo, tra le varie persone che ci hanno criticato, a essersi preso la briga di guardare alle nostre simulazioni. Di questo lo ringraziamo: entrare nel merito dei parametri da noi assunti, anche per criticarne il valore e proporre alternative, ci sembra sia il contributo più fattivo alla discussione. Qualcuno ci accusa di manipolare i dati per sostenere delle tesi ideologiche. Non ci sembra di meritare questa accusa; noi proviamo ad analizzare i dati disponibili per dare sostegno alle nostre affermazioni; e i dati che usiamo sono a disposizione di tutti per criticarci. Non pensiamo di essere esenti da errori, ma cerchiamo di fare con coscienza il meglio che possiamo per rendere le nostre affermazioni coerenti con i dati. Così procede il dibattito scientifico sulle migliori riviste internazionali a cui sottomettiamo i nostri articoli, e Mula finalmente fa quello ci si dovrebbe aspettare da un dibatto scientifico serio, senza sconti, ma pur sempre civile e pacato.
Crediamo però che ci siano delle incomprensioni (forse perché nel nostro saggio del novembre 2011 le nostre spiegazioni erano molto più sommarie di quelle contenute nel libro). Mula sostiene che i livelli di reddito da noi considerati in uno dei due scenari siano “già al 75mo percentile (secondo le tabelle utilizzate nel saggio)”. L’affermazione è un po’ criptica, ma leggendo nel saggio più esteso capiamo che Mula fa un confronto tra il reddito della popolazione italiana e quello ipotizzato per i laureati nella nostra simulazione e conclude (in un modo che, almeno in base alla nostra rapida lettura, non è indicato) che solo laureati il cui reddito sia almeno pari a quello del 75mo percentile della distribuzione dei redditi italiani sarebbero in grado di rimborsare per intero il prestito. A parte la difficoltà di confrontare dati medi totali (che sono quelli a cui Mula fa riferimento) con profili per età del reddito (che sono quelli che rilevano per i nostri conti), per valutare la sostenibilità della proposta non sono i redditi medi che contano, ma quelli dei laureati: e questi sono i dati che noi utilizziamo (si ricordi che i laureati sono una frazione modesta della popolazione, e quindi i loro redditi possono essere nettamente superiori a quelli dei non laureati senza che questo modifichi di molto il valore medio).
Più rilevante è quindi l’altra affermazione che Mula fa in proposito: i redditi necessari a rimborsare interamente il prestito sarebbero “ben al di sopra del massimo di retribuzione di un professore ordinario a fine carriera” (valore che, nel suo contributo più esteso, mette a 124000 euro lordi). Quest’affermazione, però, semplicemente non è vera: nella nostra simulazione un laureato con il reddito mediano è già in grado di rimborsare per intero il finanziamento (in effetti lo sarebbe anche un laureato con un reddito inferiore; ma non andiamo a cercare il laureato “marginale”, cioè quello che ce la farebbe appena), e quel reddito mediano a fine carriera è di circa 80000 euro, il 65% del valore citato da Mula; è inferiore anche al reddito a fine carriera di un professore associato (indicato da Mula in 91000 euro). Non abbiamo il profilo temporale del reddito di un ricercatore universitario, ma se in prima approssimazione lo mettiamo pari a quello del laureato mediano fino al raggiungimento della soglia indicata da Mula (65000 euro a fine carriera) e lo manteniamo fermo su questo valore, anche questo ipotetico profilo di reddito sarebbe in grado di rimborsare per intero il finanziamento ricevuto.
È comunque vero che una parte dei laureati non sarebbe in grado di ripagare per intero il finanziamento: questo lo dicono anche le nostre simulazioni. Mula sostiene che questa parte è molto maggiore di quello che noi calcoliamo. A sostegno della sua affermazione porta degli esempi, che abbiamo appena confutato; ma non si può ragionare per esempi, bisogna fare una valutazione sistematica. Nel nostro scenario pessimista, che si basa su un’indagine rappresentativa della popolazione italiana, il 15% del prestito non verrebbe rimborsato: la metà di coloro che hanno preso il finanziamento finirebbe per rimborsarne solo il 70%. Questi laureati, siano essi docenti di scuola superiore o altri che non guadagnassero abbastanza (almeno nelle attuali condizioni del mercato del lavoro, perché sarebbe auspicabile che i migliori docenti di scuola secondaria superiore venissero pagati molto di più; in altre sedi abbiamo scritto riguardo a come questo si possa fare), avrebbero ricevuto (per la parte non rimborsata) un borsa a fondo perduto. Non è forse questo che Mula e Roars vogliono? La nostra proposta si tramuta automaticamente nella loro nei casi in cui il laureato non riesca a ripagare.
Inoltre, nelle nostre intenzioni, la proposta dovrebbe essere sperimentata inizialmente su alcuni corsi di laurea e in alcuni atenei più suscettibili di un rapido miglioramento. Se la proposta funzionasse potrebbe essere gradualmente estesa, se non funzionasse sarebbe abbandonata. Soltanto quei corsi di laurea che costruissero davvero un’offerta di eccellenza, e i cui laureati fossero in grado di ottenere retribuzioni adeguate, riuscirebbero ad attrarre studenti disposti a pagare maggiori tasse universitarie (e ad accettare il finanziamento iniziale). Gli altri continuerebbero come adesso. Con la possibilità addizionale di ricevere una parte delle maggiori risorse raccolte dai corsi più innovativi, se la società (o l’ateneo) ritenesse che si tratti di lauree meritevoli di un sussidio. Non dovrebbe quindi succedere, con la nostra proposta, che i futuri insegnanti di scuola si trovino a dover pagare tasse universitarie che non fossero giustificate dai redditi che saranno in grado di guadagnare.
Mula si chiede poi che cosa giustifichi la nostra scelta di considerare in uno dei due scenari tre diversi profili di reddito e nell’altro solo due. Il nostro saggio del novembre 2011 è forse poco chiaro su questo; più esplicito e, speriamo, più chiaro è il nostro libro, da cui riportiamo alcuni passi.
“ [Valutare le conseguenze della nostra proposta] richiede una stima attendibile di quel che accadrebbe alla distribuzione dei redditi dei laureati nell’arco della loro vita, una volta che la nostra proposta venisse adottata. La nostra ipotesi è che, grazie alle maggiori risorse e sotto lo stimolo della domanda esercitata dagli studenti, gli atenei diventino migliori e i loro studenti di conseguenza siano più preparati e meglio attrezzati per ottenere un lavoro ben retribuito. Ma, e qui sta la difficoltà, i dati disponibili riguardano necessariamente il passato, e non è detto che siano informativi per la nuova situazione che si verrebbe a determinare adottando la nostra proposta. Possiamo però fare un paio di ragionevoli e utili approssimazioni. La prima la otteniamo guardando ai redditi dei laureati di università italiane che, già oggi, assicurano un buon inserimento nel mondo del lavoro […]. Questi dati ci possono dare una prima idea di quello che potrebbe succedere: in sostanza, scegliamo tra le informazioni riferite al passato quelle che rispondono di più alle condizioni, nuove, che la nostra proposta genererebbe […]. Naturalmente potrebbe darsi — e questa è in effetti la nostra speranza — che la situazione sia ancora migliore: dopotutto, gli studenti che avrebbero accesso ai prestiti nella nostra proposta, essendo selezionati sulla base di criteri qualitativi stringenti, potrebbero essere migliori degli studenti medi dell’università che abbiamo considerato […]. E tuttavia non possiamo escludere che, al contrario, il meccanismo concorrenziale da noi immaginato risulti poco efficace […]; se così fosse, l’offerta di forza lavoro più qualificata non basterebbe a migliorare la situazione in modo significativo, e i redditi dei laureati italiani rimarrebbero simili a quelli attualmente osservati nel nostro Paese, così come per esempio descritti dall’indagine della Banca d’Italia sui Bilanci delle Famiglie Italiane (IBFI). Questo ci porta a considerare una seconda approssimazione dei redditi futuri dei laureati conseguenti alla nostra proposta: la otteniamo guardando ai redditi dei laureati di una ipotetica “Università Media”, rilevati nell’indagine anzidetta, escludendone però la “coda inferiore”; il motivo di questo “troncamento” è che della nostra proposta usufruirebbero studenti selezionati secondo un criterio di merito abbastanza stringente e quindi, in media, i loro redditi sarebbero meglio rappresentati escludendo dalla distribuzione le osservazioni corrispondenti ai redditi più bassi. L’ipotesi che gli studenti con voti di maturità più elevati siano quelli con prospettive di reddito più favorevoli trova conferma nei dati. Abbiamo utilizzato quelli dell’Indagine Isfol-Plus, che contiene informazioni sui voti conseguiti al diploma di scuola superiore e sui redditi da lavoro. Considerando, per esempio, i dati per l’anno 2007, riferiti a circa 8.000 lavoratori dipendenti a tempo pieno (uomini e donne), a parità di età e regione di residenza i diplomati con il massimo dei voti guadagnano circa il 10 per cento in più dei loro colleghi con voti inferiori. Allargando la selezione a coloro che hanno conseguito più di 90 alla maturità (più di 55 per i diplomati del vecchio ordinamento) il vantaggio retributivo scende leggermente, al 6,5 per cento, rimanendo comunque significativo.”
Il passo riportato risponde anche a un’altra delle critiche di Mula: egli ritiene non giustificato assumere che una migliore formazione al liceo (misurata dal voto di maturità) porti a maggiori redditi: certo, ci sono tante eccezioni che vengono in mente a ciascuno di noi, ma se guardiamo a un campione sufficientemente grande, l’ipotesi trova conferma empirica. Ciò detto, il criterio di selezione del merito da noi scelto è molto approssimativo e siamo sicuri che si possa fare di meglio. Mula colora la sua critica di alcune valutazioni morali: ci attribuisce l’idea di considerare un fallito quel laureato che non guadagni abbastanza, o che scelga una professione poco retribuita. Non è quello che pensiamo; e siamo perfettamente d’accordo che ci possano essere aspetti di alcune professioni che costituiscano una gratificazione più che sufficiente a compensare una eventuale bassa remunerazione (perché altrimenti qualcuno le sceglierebbe?). Ma questo non è per nulla incompatibile con l’idea che il professionista ben pagato restituisca alla società una parte del costo da essa sostenuto per formarlo; e quelle risorse potranno essere usate per coprire il costo di chi sceglie una professione meno remunerativa, ma che la società considera meritevole di sostegno.
3. Replica a Paolo Palazzi: Ancora sulle proposte di Ichino e Terlizzese
C’è un ultimo problema da risolvere: in questo breve scritto ho dovuto usare (anche se in modo forzatamente parsimonioso) 20 volte il termine ipotizzare (le prossime due volte sono escluse dal conteggio). Un po’ troppe anche per un economista con impostazione neo-classica, e allora consiglierei a I e T di non partire dalle ipotesi ma dalla realtà, e soprattutto li inviterei a non fare proposte, come quelle da loro illustrate, che tendano ad adattare la realtà alle ipotesi.
Leggi il resto dell’articolo di Paolo Palazzi qui
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Nel ragionamento di Paolo Palazzi c’è implicita una ventunesima ipotesi: ipotizziamo che si stia parlando della proposta di Ichino e Terlizzese. Peccato che Palazzi dimentichi di applicare a se stesso l’esortazione con cui conclude il suo articolo: evitare di adattare la realtà alle ipotesi.
Non facciamo l’ipotesi che le esternalità nell’istruzione terziaria siano assenti: in realtà il nostro apriori è che ci siano, ma vogliamo capire quanto siano rilevanti. Ne facciamo perciò una questione empirica: chi ha provato a misurare effettivamente la presenza di benefici sociali per l’istruzione terziaria, aggiuntivi rispetto a quelli privati, ha trovato poco o nulla. E proprio perché consideriamo con la necessaria dose di scetticismo l’attendibilità delle stime empiriche (specialmente in una materia come questa, in cui le informazioni sono poche e l’oggetto di analisi è complesso e sfuggente), la nostra posizione è molto cauta: non proponiamo di ridurre l’ammontare di finanziamento pubblico che già oggi va all’università, ma solo di reperire risorse addizionali facendole pagare a coloro che beneficeranno in futuro della formazione superiore. Non proponiamo che il costo dell’istruzione universitaria sia coperto solo dalle tasse universitarie. Proponiamo invece che chi frequenta l’università contribuisca di più, rispetto alla situazione attuale, a finanziarla. È certamente legittimo essere in disaccordo con questa proposta, ma è necessario criticarla per quello che è, non prendersela con qualcos’altro.
La nostra proposta non prevede “prestiti agevolati alle categorie meno abbienti”. Il finanziamento previsto nella nostra proposta (molto diverso da un prestito normalmente inteso, perché comporta un rimborso che si adatta al reddito futuro; questo è un aspetto che a noi sembra molto importante, ma nessuno di coloro che ci critica lo mette in evidenza: forse si teme che possa piacere?) non è agevolato: ciascuno rimborsa alla fine il valore attuale di quello che ha ricevuto, con un tasso reale del 2%, tranne nei casi in cui il reddito nell’arco dell’intera vita lavorativa non fosse sufficiente; per compensare questi casi è previsto un fondo di garanzia, che è alimentato, volontariamente, dagli atenei che decidono di aderire alla proposta. Chi presta riceve quindi un rendimento reale del 2%, privo di rischio, che è comparabile con quello di investimenti alternativi: non c’è nessuna agevolazione. Nella nostra proposta il prestito non viene dallo Stato (perché volevamo evitare effetti contabili sul debito pubblico), ma anche se fosse lo Stato a prestare si tratterebbe di un investimento adeguatamente remunerato. Non è quindi vero, al contrario di quello che sostiene Palazzi, che si tratta di un intervento oneroso per lo Stato.
È vero invece che la nostra proposta prevede “graduazione delle tasse universitarie a scopi ridistribuivi”; ma di nuovo non è vero che si tratti di un intervento oneroso per lo Stato. Innanzitutto, le tasse universitarie sono un introito per lo Stato (più esattamente, per l’università), non un onere. Inoltre, per definizione (non per ipotesi!) un intervento redistributivo non comporta oneri per la collettività nel suo insieme (salvo quelli amministrativi per gestirlo), perché si tratta di prendere da qualcuno per darlo a qualcun altro.
Non proponiamo di fissare le tasse universitarie in relazione al merito. Non abbiamo nessun bisogno della “perfetta conoscenza della distribuzione del merito” che Palazzi ritiene sarebbe necessaria. Un criterio di merito è presente nella nostra proposta per l’accesso al finanziamento. In linea di principio preferiremmo non introdurre alcun requisito a priori per l’accesso al finanziamento; proprio perché non proponiamo un finanziamento agevolato, però, ci dobbiamo preoccupare della probabilità che il finanziamento venga rimborsato. Qui facciamo effettivamente un’ipotesi: che gli studenti con un voto di maturità sufficientemente elevato, e che mantengano una buona media durante l’università, diano maggiori garanzie sulla loro capacità di rimborsare il finanziamento. Sappiamo che si tratta di un’ipotesi forte, e ciascuno ha in mente esempi di persone svogliate al liceo che poi hanno fatto splendide carriere. Abbiamo però guardato i dati (usando l’indagine Isfol-Plus) e troviamo che in media non si tratta di un’ipotesi infondata (i dettagli sono nel libro, pag. 104). Comunque, se e quando avremo dei test standardizzati all’uscita dalle superiori, la selezione un po’ grezza che ora proponiamo potrà essere resa più accurata.
In ogni caso, con le risorse che la nostra proposta genera, focalizzandosi sugli studenti migliori (per quanto sia possibile idenficarli con gli strumenti a disposizione) , nulla vieta (e lo diciamo esplicitamente) di sovvenzionare altri studenti che non abbiano accesso a redditi futuri pari a quelli di coloro che potranno restituire il prestito ricevuto. La solidarietà rischia di essere una pia intenzione se prima non si è in grado di produrre la torta che poi deve essere redistribuita.
Come cantavano Cochi e Renato: non era Varazze, non era Savona, non era nemmeno quella volta lì. Quando Palazzi vorrà parlare davvero della nostra proposta, saremo sempre interessati a farlo.
Non ho i dati per verificare se sia vero che, sulla popolazione dei laureati, il “reddito mediano a fine carriera è di circa 80000 euro”. Ciò mi sembra tuttavia, francamente, assai improbabile. Ciò perché quella cifra annua è più o meno il reddito lordo di un ordinario in classe cinque, e sia l’attuale politica di (non) assunzioni in tarda età sia il presente (e probabilmente perdurante) blocco dei meccanismi di incremento salariale renderanno in prospettiva questo più o meno un valore massimo, non certo un valore mediano.
Se poi fosse vero che il valore mediano, sull’intera popolazione dei laureati, fosse quello, be’ allora i professori universitari sarebbero assai sfortunati dal punto di vista economico. Commento tuttavia che ho il mio campione personale, certamente non significativo, tuttavia NESSUNO dei miei N colleghi di università, laureati in fisica e spesso in posizioni di responsabilità, ha quel reddito e ne è anzi nella maggior parte dei casi assai distante.
http://www.lavoce.info/finanziamenti-universita-pubblica/
http://www.lavoce.info/se-i-poveri-pagano-luniversita-ai-poveri/
In due delle risposte di Ichino e Terlizzese appare questo argomento: “Uno dei nostri argomenti, però, è che chi ha provato a misurare empiricamente la presenza di questi benefici sociali (dell’istruzione superiore), aggiuntivi rispetto a quelli privati, ha trovato poco o nulla. Ne facciamo dunque una questione empirica, non una di principio. E proprio perché consideriamo con la necessaria dose di scetticismo l’attendibilità delle stime empiriche (specialmente in una materia come questa, in cui le informazioni sono poche e l’oggetto di analisi è complesso e sfuggente), la nostra posizione è molto cauta: non proponiamo di ridurre l’ammontare di finanziamento pubblico che già oggi va all’università, ma solo di reperire risorse addizionali facendole pagare (attraverso il prestito) a coloro che beneficeranno in futuro della formazione superiore.”
L’argomento, contenuto nella risposta ad Alessandro Figa’ Talamanca viene ripetuto nella risposta a Paolo Palazzi in questa forma: “Non facciamo l’ipotesi che le esternalità nell’istruzione terziaria siano assenti: in realtà il nostro apriori è che ci siano, ma vogliamo capire quanto siano rilevanti. Ne facciamo perciò una questione empirica: chi ha provato a misurare effettivamente la presenza di benefici sociali per l’istruzione terziaria, aggiuntivi rispetto a quelli privati, ha trovato poco o nulla. E proprio perché consideriamo con la necessaria dose di scetticismo l’attendibilità delle stime empiriche (specialmente in una materia come questa, in cui le informazioni sono poche e l’oggetto di analisi è complesso e sfuggente), la nostra posizione è molto cauta: non proponiamo di ridurre l’ammontare di finanziamento pubblico che già oggi va all’università, ma solo di reperire risorse addizionali facendole pagare a coloro che beneficeranno in futuro della formazione superiore.” In realta’ questo argomento e’ ripetuto anche nella risposta a Guido Mula, laddove Ichino e Terlizzese scrivono “Mula cita il rapporto dell’OCSE a confutazione della nostra affermazione (basata su studi empirici non nostri) che i benefici della laurea siano sostanzialmente privati. La citazione l’avevano già fatta Francesca Coin e Francesco Sylos Labini, ma si basa su un fraintendimento dei calcoli dell’OCSE; riportiamo la risposta che abbiamo già dato a Coin e Sylos Labini (su Scienza in Rete): “…l’OCSE calcola il beneficio per il settore pubblico, che non è la stessa cosa del beneficio collettivo o sociale che dir si voglia, come: “… additional tax and social contribution receipts associated with higher earnings and savings on transfers, i.e. housing benefits and social assistance that the public sector does not have to pay because of higher levels of earnings.” (Vedi pag. 172 di OCSE Education at a glance). Si tratta cioè di un calcolo che prende in considerazione solo le retribuzioni lorde dei laureati, aggiuntive rispetto a quelle dei diplomati (da cui derivano le maggiori imposte e contributi pagati), e non fa menzione di “effetti esterni” sul resto della collettività. Peraltro, questo spiega come mai l’OCSE stimi un beneficio pubblico derivante dalle donne laureate pari a circa la metà di quello derivante dai laureati maschi (un apparente paradosso rilevato da uno dei lettori di ROARS, che si chiede come sia possibile che le donne laureate diano un contributo sociale che è la metà di quello degli uomini). È la metà perché le retribuzioni lorde delle donne sono parecchio inferiori.””
Puo’ essere un modesto contributo alla discussione capire meglio che cosa intendano Ichino e Terlizzese, almeno nella mia interpretazione. Partiamo da un recente libro divulgativo di Ha-Joon Chang, “23 cose che non ti hanno mai detto sul capitalismo”, tradotto in italiano per i tipi de Il Saggiatore. La diciassettesima cosa e’ l’impatto dell’istruzione (non solo superiore) sulla crescita economica. Vediamo alcune citazioni tratte dal libro. “Ci sono scarsissime prove che piu’ istruzione renda un paese piu’ ricco”. “Molta della conoscenza acquisita tramite l’istruzione in realta’ non e’ determinante per l’aumento della produttivita’, …”. “Anche quando si tratta di educazione universitaria, che si suppone ancora piu’ importante in un’economia della conoscenza, non c’e’ un rapporto automatico tra sapere e crescita economica”. “La quantita’ di conoscenza collegata alla produttivita’ che un lavoratore medio deve possedere
per molti lavori e’ diminuita, specialmente nei paesi ricchi”. E infine, il punto fondamentale e’ il seguente: “L’istruzione e’ preziosa, ma il suo valore principale non risiede nel far aumentare la produttivita’, bensi’ nella sua capacita’ di aiutarci a sviluppare il nostro potenziale e quindi di avere una vita piu’ piena e indipendente”. Quindi, si potrebbe concludere, chi non sarebbe disposto a pagare per il vantaggio esclusivamente personale di avere una vita piu’ piena e indipendente (oltre a un reddito piu’ alto)? In altre parole, seguendo questa linea di pensiero verso un pendio scivoloso, l’istruzione e, in particolare, l’istruzione superiore puo’ essere considerata un lusso personale che non porta alcun beneficio alla societa’. E si noti che queste affermazioni trovano effettivamente supporto empirico in alcuni studi. Ha-Joon Chang ne cita almeno due. Uno e’ l’articolo di Lant Pritchett “Where has all education gone?” di cui si trovano on-line varie versioni. Per esempio una versione aggiornata al 2000 e’ disponibile a questo link:
http://www.hks.harvard.edu/fs/lpritch/Education%20-%20docs/ED%20-%20Econ%20Growth,%20impact/where%20has%20all%20the%20education%20gone.pdf
o al SSRN:
http://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=569239
mentre una versione pubblicata nel 2001 si trova qua:
http://wber.oxfordjournals.org/content/15/3/367.abstract
Un altro riferimento citato da Ha-Joon Chang e’ il libro di Alison Wolf, Does Education Matter? Myths about education and economic growth. Penguin 2002. Di questo libro si trovano brani su Google Books e
a questo link:
http://www.milkeninstitute.org/publications/review/2002_12/49_72mr16.pdf
In verita’ Ichino e Terlizzese sono molto piu’ prudenti di Ha-Joon Chang e altri autori. Infatti ribadiscono che le informazioni sono poche e l’oggetto di analisi e’ complesso e sfuggente. Per questo motivo, avrei preferito essere piu’ prudente e svolgere ulteriori studi di economia positiva sul tema, senza dubbio interessante, prima di presentare un’eventuale proposta normativa. Tuttavia, questa e’ una mia preferenza.
Cordiali saluti
Enrico Scalas
Mi sono andato a leggere, per curiosità, l’articolo di Alison Wolf linkato, e sono allibito dal livello di superficialita’ che vi trabocca. P.es., lo sa l’autrice che oltre al differenziale di salario e occupazione, il livello di istruzione e’ fortemente correlato, in infiniti lavori statistici, a un sacco di altre cose, dagli incidenti alle morti violente, dai comportamenti alimentari a quelli elettorali (questo per l’Italia e’ particolarmente interessante)? E che le statistiche sui tipi di lavoro che cita alla fine sono semplicemente irrilevanti, perche’ chiunque metta il naso fuori del suo studio vede benissimo che le capacità che sono richieste oggi a un impiegato, a un venditore, al meccanico di un’autofficina e anche alle badanti sono imparagonabili a quelle di vent’anni fa?
E’ ideologia (di destra) allo stato puro, senza nessun fondamento serio.
In realtà Ha-Joon Chang non è affatto di destra. Credo che lui menzioni quella letteratura soltanto a testimonianza del fatto che c’è controversia sul punto. Questo serve per introdurre la sua tesi che per difendere il valore dell’educazione si dovrebbe guardare non al beneficio economico ma a quello morale. Una società con un’istruzione diffusa e di buona qualità dovrebbe essere più accogliente per una forma democratica di governo.
Mi e’ stato fatto notare che il mio precedente commento alle repliche di Ichino e Terlizzese non e’ di agevole lettura per via delle troppe citazioni. Riassumo i punti principali. Esiste una letteratura empirica che cerca di mostrare come l’istruzione non sia correlata alla crescita economica. Vari economisti danno ormai questo punto per acquisito (per esempio Ha-Joon Chang). Ichino e Terlizzese non sembra appartengano all’insieme di tali economisti. Il tema della correlazione tra istruzione e crescita e’ senza dubbio interessante. Si presterebbe a ulteriori studi di economia positiva. In attesa di capire meglio le cose, secondo me, sarebbe preferibile evitare proposte normative i cui effetti non sono prevedibili/controllabili.
Cordiali saluti
Enrico Scalas
Su questo sono d’accordo.
Aggiungo che la questione è di carattere normativo, non empirico. Anche ammesso che la correlazione non ci fosse, o non ci fosse in tutti i mondi possibili (che a me pare l’ipotesi più sensata), potremmo comunque avere ottime ragioni per desiderare una società con un buon livello di istruzione e quindi destinare a tale scopo le risorse necessarie.
Volevo segnalare che MARTEDI’ 12 MARZO alle ore 11:00, presso la sala Parravano del Dipartimento di Chimica dell’Università “Sapienza” di Roma, Andrea Ichino e Daniele Terlizzese presenteranno il loro libro “Facoltà di Scelta” a cui seguirà un dibattito pubblico sulle tasse universitarie. Capisco che la redazione di ROARS ha sempre avuto posizioni molto lontane da quelle di Andrea Ichino, (per non dire antitetiche) tuttavia visto il notevole dibattito generato su questo sito, ritengo che un incontro “dal Vivo” possa essere di mutuo beneficio per i presenti.
Chiunque volesse partecipare sia all’incontro che intervenire al dibattito anche con posizioni critiche è il benvenuto.
L’incontro è anche segnalato fra gli incontri di Roars..