Le cronache hanno di recente registrato l’ennesimo, terribile caso di una studentessa che ha deciso di togliersi la vita nel giorno di una laurea annunciata a parenti e amici, che in realtà non poteva essere conseguita perché la studentessa aveva taciuto fino all’ultimo di non aver superato gli esami necessari per l’ammissione alla sessione di laurea. Si tratta di una tragedia individuale da compiangere o della ennesima epifania di un problema sociale le cui determinanti potrebbero essere contrastate adottando una misura ragionevole? Nel post si avanza un proposta concreta in quest’ultima direzione.

Le cronache hanno registrato l’ennesimo, terribile caso di una studentessa che ha deciso di togliersi la vita nel giorno di una laurea annunciata a parenti e amici, che in realtà non poteva essere conseguita perché – parrebbe – la studentessa aveva taciuto fino all’ultimo di non aver superato gli esami necessari per l’ammissione alla sessione di laurea.

Il tragico episodio è solo l’ultimo di una sequenza ininterrotta di casi che si snoda con funerea regolarità statistica da anni. Compulsare le cronache rese disponibili dacché il web permette di effettuare ricerche mirate, restituisce – senza alcuna pretesa di esaustività e con il semplice utilizzo della stringa di ricerca “suicida il giorno della laurea” opportunamente definita da parametri temporali (2.4.1995-2.4.2018, per escludere la salienza mediatica dell’ultimo episodio balzato alle cronache) – un numero impressionante di drammi personali culminati nell’interruzione di una giovane vita. Studenti che hanno finito per soccombere alla propria incapacità di gestire le difficoltà incontrate nel corso degli studi, costruendosi una realtà parallela proiettata nella propria cerchia esistenziale e destinata ad implodere, con esiti devastanti, il giorno di una laurea annunciata, quale estrema conseguenza dell’ultimo rilancio di un bluff destinato fatalmente a infrangersi con la realtà.

Psicologi e altri addetti ai lavori hanno le competenze per esaminare a fondo il fenomeno e suggerire ricette a compasso allargato per contrastarlo. Molti atenei italiani hanno da tempo istituito servizi psicologici destinati ad aiutare gli studenti che incontrano difficoltà nel corso degli studi. Questi servizi potrebbero essere potenziati, preoccupandosi di offrire proattivamente e riservatamente le proprie competenze agli studenti il cui percorso manifesti anomalie significative. E si possono svolgere analisi critiche a più ampio spettro (1, 2, 3) per interrogarsi sulle determinanti sistemiche del tasso di suicidi fra gli studenti universitari.

Il fenomeno che si vuole qui prendere di petto è, però, una particolarità tutta italiana più circoscritta. Non muove dal tentativo di misurare il tasso globale di suicidi che si rileva in altre esperienze, come quella inglese o come quella statunitense, ove le determinanti del ripetersi di questi gesti estremi fra gli studenti universitari – nel corso della loro carriera universitaria – sembrano essere legate anche ad altri fattori, fra cui assume rilievo l’angoscia di non riuscire a ripagare i debiti contratti per dar seguito alla propria scelta di intraprendere gli studi.

Con questa precisazione, quella che si intende qui avanzare è una proposta radicale e per molti versi provocatoria. Lo scopo è eliminare in radice la possibilità che lo studente italiano possa mentire a se stesso (rilevazioni attesterebbero che uno studente su tre ha mentito almeno una volta ai propri genitori sullo sviluppo della sua carriera universitaria), prima che agli altri, costruendosi una narrazione fatta di un corso di studi brillantemente portato a termine, che possa poi esitare in gesti estremi come quelli che, lungi dall’essere fenomeni isolati, abbiamo visto essere una tragica costante, ormai misurabile su base statistica nell’università italiana.

La proposta radicale è questa: rendere pubblici, con una operazione che nel lessico della normativa sulla protezione dei dati personali si definisce “diffusione” [ovvero, “il dare conoscenza dei dati personali a soggetti indeterminati, in qualunque forma, anche mediante la loro messa a disposizione o consultazione”, come recitava l’art. 4, comma 1, lett. m), D.Lgs. 196/2003], i dati relativi al numero di esami superati da ogni numero di matricola cui corrisponda un iscritto presso un ateneo italiano.

Sul piano effettuale, questo semplice accorgimento impedirebbe in radice l’occultamento di “verità nascoste” da parte degli studenti universitari, i quali siano tentati di utilizzare il proprio diritto alla protezione dei dati personali riguardante la progressione nel corso di studi per edificare, esame dopo esame (e bugia dopo bugia), una realtà virtuale suscettibile di esitare in tragedie come quelle che le cronache periodicamente restituiscono.

Nel 2012 il Garante della protezione dei dati personali ha avuto cura di precisare nel vademecum La privacy a scuola. Dai tablet alla pagella elettronica. Le regole da ricordare, pur se nella diversa prospettiva dei voti scolastici conseguiti da studenti della scuola dell’obbligo, che:

“i voti dei compiti in classe e delle interrogazioni, gli esiti degli scrutini o degli esami di Stato sono pubblici. Le informazioni sul rendimento scolastico sono soggette ad un regime di trasparenza e il regime della loro conoscibilità è stabilito dal Ministero dell’istruzione”.

Del resto, per quanto può rilevare nella questione qui evocata, l’interesse pubblico alla conoscenza diffusa e aperta degli esiti di un esame universitario è scolpito nel tutt’ora vigente Regio Decreto 4 giugno 1938, n.1269, che, al primo comma dell’art. 43 (recante “Approvazione del regolamento sugli studenti, i titoli accademici, gli esami di Stato e l’assistenza scolastica nelle università e negli istituti superiori”), statuisce che:

“Gli esami di profitto e gli esami di laurea o diploma sono pubblici”.

In attesa di rilevazioni statistiche ben più precise di quelle cui si è solo alluso in questa sede, il problema determinato da questa epidemia silenziosa di suicidi e il costo sociale delle vite stroncate dal fenomeno sembrano assumere proporzioni tali da rendere desiderabile – nel bilanciamento fra i pro e i contra legati alla scelta di rendere conoscibile la progressione nel cursus studiorum di ciascuno studente, o quantomeno di renderla verificabile da chi possa essere a conoscenza di un dato identificativo come un numero di matricola – adottare una misura legislativa che imponga alle università di pubblicare in via telematica i numeri di matricola dei propri iscritti, corredati dal riferimento al numero degli esami sostenuti con profitto da ciascuno di questi numeri di matricola, senza fornire altri dati più specifici.

Nell’effettuare scelte regolative destinate a contrastare il rischio, le agenzie amministrative statunitensi seguono da decenni una direttiva che impone di valutare il costo figurativo di ogni vita umana salvata dalla misura precauzionale di cui si propone l’introduzione. Questo costo oscilla a secondo delle agenzie, ma è stipulativamente determinato in una somma pari a diversi milioni di dollari (da 7 a 10, a seconda delle agenzie che ne fanno uso). Nei tribunali italiani, il valore risarcitorio che il dispositivo della responsabilità civile assegna a una vita ridotta in stato vegetativo per la quale sia riconosciuta una invalidità del 100% è, nel caso di una persona di 25 anni di età, pari a € 1.341.290,00 (con la massima personalizzazione concessa – Tabelle di Milano 2018). In caso di morte, qualcosa di più di € 331.000 è la somma massima destinata a compensare ciascun genitore per la perdita di un figlio. Qualcosa di più di € 144.000 è, invece, la somma massima riconoscibile a un fratello o a un nonno per la perdita del proprio congiunto.

Questa cifre vengono richiamate in modo volutamente provocatorio, solo per istituire i termini di un ideale confronto che un decisore pubblico sensibile ad una discutibile razionalità economica potrebbe decidere di ponderare per computare il costo sociale di una catena ininterrotta di suicidi che assume i contorni di una evidenza misurabile nel tempo. Per metterlo a confronto con il costo che la realizzazione di una tale misura imporrebbe alle università e ai singoli studenti, i quali, a misura implementata, sarebbero informati che, iscrivendosi all’università, chi fosse a conoscenza del numero di matricola assegnato loro potrebbe verificare lo stato di avanzamento effettivo nel corso di studi intrapreso. Fungendo così da deterrente per la tentazione di costruire pericolose narrazioni virtuali del proprio curriculum universitario.

Paternalismo legislativo? Forse. Anzi: di sicuro. Si tratta di una misura concepita per impedire che il sistema permetta allo studente di fare un cattivo uso della propria autonomia, avvalendosi di un assetto regolativo che impedisce oggi a chiunque di conoscere il reale stato di avanzamento degli studi universitari di uno studente, per costruirsi una via di fuga nell’irrealtà, il cui fardello psicologico costituisce il presupposto necessario di tragiche “soluzioni finali” come quelle che hanno indotto a svolgere questa riflessione.

Si possono certamente studiare correttivi a questa proposta, rifinendola nei molti dettagli che vanno analizzati e messi a punto. Si potrebbe prevedere, in linea con il paternalismo libertario propugnato da Cass Sunstein, un opt-out esplicito dello studente, prevedendo che all’atto dell’iscrizione e in qualsiasi momento successivo egli possa decidere di escludere il proprio numero di matricola da novero di quelli che sono resi consultabili, associati al dato relativo alla progressione nel corso degli studi. A quel punto, gli interventi mirati dei servizi psicologici e di assistenza allo studio di ateneo avrebbero un proxy molto utile per intervenire, anche proattivamente, incrociando i dati di progressione negli studi con la scelta palesata dallo studente, visto che i suicidi interessano persone che non solo non cercano aiuto, ma hanno la lucidità per recitare il copione che si sono assegnati fino alle estreme conseguenze.

Di certo il MIUR, consultando l’Autorità Garante dei dati di personali, è nella condizioni di prendere coscienza del fenomeno e di istituire, di concerto con gli atenei italiani, un tavolo di lavoro che metta a fuoco il fenomeno, cominciando dal monitorare (come si fa altrove) le esatte dimensioni quantitative del problema. Che nel frattempo resta aperto, con la non procrastinabile necessità di porvi rimedio con misure urgenti ed immediatamente efficaci.

Per non versare lacrime destinate a perdersi nella pioggia al ricorrere della prossima (e periodicamente attesa) tragedia destinata a funestare una gioiosa giornata di lauree.

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16 Commenti

  1. La possibilità dell’accesso alle informazioni da parte dei genitori è importante, ma presuppone una tutela del giovane dopo la maggiore età, che molti non reputano necessaria o, peggio, di palese disistima per il ragazzo e le sue possibilità di gestire i propri studi, con effetti devastanti nel rapporto familiare e dello studente con se stesso.
    I dati dimostrano che un certo numero di studenti hanno necessità di essere guidati ed aiutati, come lo sono molti ragazzi delle superiori. L’università dovrebbe elaborare forme di assistenza (psicologica) e favorire un rapporto diverso con i docenti, guide, non solo attori sul palco a lezione, giudici agli esami.
    Il malessere si deve curare ristabilendo relazioni certe, valori, ridando dignità ai percorsi individuali degli studenti.

  2. La cosa che mi scandalizza è l’ostinato riferimento del legislatore alla privacy per ogni cosa.
    L’università (anche privata) è un’istituzione pubblica, nel senso che è governata da regole dello Stato, soprattutto per quanto riguarda il rilascio del titolo della laurea.
    L’esito dell’esame di profitto viene erroneamente considerato un dato personale che non può essere diffuso se non con il consenso dell’interessato.
    Dico erroneamente, perché prima o poi lo vengono a sapere TUTTI se hai passato gli esami o no, nel senso che ogni singolo esame è preordinato al conseguimento di quello finale della laurea. Se uno si laurea o non si laurea lo sanno TUTTI. La seduta di laurea è aperta al pubblico, ci sono fotografi, parenti, ecc……; se sei presente e discuti ti laurei, se non sei presente perché non hai terminato gli esami non ti laurei (e lo vedono TUTTI). Purtroppo, il suicidio è dovuto proprio a questo: che non hai passato gli esami lo vengono a sapere TUTTI, non si può più nascondere. Ecco la riprova che non può essere considerato “sensibile”.
    Diversamente, di regola un vero e proprio dato personale “sensibile” può essere tenuto segreto in assoluto.

  3. In risposta Mariam:
    Qualcuno ha parlato di “paternalismo libertario”. Il tema è quello del bilanciamento fra gli effetti prodotti da una misura che incide sulla sfera del singolo e quelli che si producono a livello collettivo, in questo caso – ed è questa l’ipotesi dalla quale muove la proposta – impedendo che una spirale di bugie ininterrotte esiti nella perdita di una vita. Sapere che – a date condizioni – qualcuno può verificare lo stato reale della progressione negli studi introduce un elemento di responsabilizzazione in soggetti che – evidentemente – non sono in grado di gestire la propria autonomia. Siamo sicuri che il costo della misura proposta sia davvero “la palese disistima per il ragazzo e le sue possibilità di gestire i propri studi, con effetti devastanti nel rapporto familiare e dello studente con se stesso”? A misura adottata, il paternalismo libertario indurrebbe a riflettere su un opt out esplicito dello studente, che all’atto dell’iscrizione e in qualsiasi momento possa decidere di escludere il proprio numero di matricola da novero di quelli che consentono di accedere al dato relativo alla progressione nel corso degli studi. A quel punto, gli interventi mirati dei servizi psicologici di ateneo avrebbero un proxy molto utile per intervenire, anche proattivamente, incrociando i dati di progressione negli studi con la scelta palesata dallo studente, visto che i suicidi interessano persone che non solo non cercano aiuto, ma hanno la lucidità per recitare il copione che si sono assegnati fino alle estreme conseguenze. E resta nel frattempo l’invito al MIUR a studiare il fenomeno, monitorandone magnitudine e determinanti. Invocare la dignità sociale dello studente e attribuire le colpe al sistema temo serva solo ad attendere la prossima notizia funesta che sarà registrata dalle cronache.

  4. Il problema è, a mio parere, soltanto un aspetto di un malessere interno alle istituzioni scolastiche ed universitarie, che non tiene conto della necessità di accompagnare gli studenti, definiti da alcuni psicologici ancora adolescenti talvolta a trent’anni, verso una consapevole e matura gestione dei propri studi.
    Perciò, ritengo che figure, siano essi psicologici, o docenti-tutor, che seguano lo studente, possano servire ad evitare che si creino i presupposti per un rinvio della accettazione di un proprio fallimento negli studi, che sarebbe preludio o ad un cambiamento di studi o ad azioni di intervento per colmare lacune, acquisire corretto metodo di studio ecc.
    A me pare un atto di responsabilità dell’istituzione, che può anche decidere di affiancare a questo altri modi.
    Spero stavolta di essermi spiegata meglio.
    Ringrazio Umberto Izzo per la sua risposta.

  5. @Umberto Izzo:
    mi scusi, mi permetto di dissentire,
    ma secondo me il bilanciamento è tra la riservatezza dello studente e la salute fisica e mentale dello studente stesso.
    In particolare, come ho sopra scritto, l’università (anche privata) è un’istituzione pubblica, nel senso che è governata da regole dello Stato, soprattutto per quanto riguarda il rilascio del titolo della laurea.
    L’esito dell’esame di profitto viene erroneamente considerato un dato personale che non può essere diffuso se non con il consenso dell’interessato.
    Dico erroneamente, perché prima o poi lo vengono a sapere.
    Se uno si laurea o non si laurea lo sanno TUTTI.
    La seduta di laurea è aperta al PUBBLICO, ci sono fotografi, parenti, fiori, applausi, frasi come “in virtù dei poteri conferitemi dalla legge, La proclamo dottore in”, ecc……; se sei presente e discuti ti laurei, se non sei presente perché non hai terminato gli esami non ti laurei (e lo vedono TUTTI, anche se avevi detto che ti saresti laureato in quel giorno e in quell’aula).
    Un vero dato personale “sensibile” non viene mai scoperto in maniera inevitabile, ma solo per dolo o colpa del titolare del trattamento (oppure per consenso o colpa o volontà dell’interessato).
    Il suicidio, purtroppo, avviene proprio perché è impossibile tenere riservato un dato (l’esito dell’esame e di tutti quelli che seguono) che è PREORDINATO al raggiungimento di qualcosa di PUBBLICO, quale il titolo della laurea.
    La riservatezza in un contesto PUBBLICO come quello della seduta di LAUREA non può funzionare, benché il legislatore sia convinto del contrario, E I BUROCRATI eseguono per paura di essere rimproverati.

  6. @Umberto Izzo: aggiungo, correggendomi, che, a quanto ho capito, non siamo in disaccordo,
    volevo però precisare che il bilanciamento secondo me riguarda solo 2 aspetti del singolo (riservatezza e salute – mentale e fisica), non rilevando, a mio parere, la questione della collettività (anche se il diritto alla salute è anche “interesse della collettività”).

    • Lieto di sapere da lei che alla fine ha scoperto che non siamo in disaccordo. Che la laurea sia pubblica lo prevede il Regio Decreto che si legge nell’articolo. Temo, però, che lei faccia un po’ di confusione riguardo al dato sensibile e alle condizioni normative che disciplinano la sua circolazione. In ogni caso, il dato relativo al mero numero di esami superati da un iscritto all’università non è un dato sensibile, ma un dato personale ordinario. Una norma di legge, riconoscendo l’utilità sociale legata alla conoscibilità (peraltro – nella mia proposta – filtrata dalla necessità di conoscere il numero di matricola dello studente, per cui parlerei di diffusione controllata) del dato, può prevedere la misura, garantendo allo studente l’opt out, ovvero una richiesta tesa a escludere il proprio numero di matricola da questo regime di conoscibilità controllata. A quel punto i servizi psicologici e di supporto didattico dell’ateneo avrebbero un utile indicazione per orientare la propria azione assistenziale su studenti che mostrino di essere in grave ritardo con gli esami e che abbiano effettuato l’opt out.

  7. Con il dovuto rispetto, questa proposta mi sembra come quella di obbligare tutti i bagnanti ad indossare un giubbotto salvagente allacciato, viste le statistiche che dimostrano che una piccola ma significativa percentuale di persone che vanno in spiaggia commette suicidio per auto-annegamento.
    Proposta semplice per proposta semplice: imporre la decadenza dagli studi in caso di fuori corso per il 70% degli esami di ciascun anno accademico. Per ogni anno del corso di studi.
    Le tragedie come quella di Napoli arrivano dopo anni e anni di finzioni e bugie. Se fosse pubblicamente noto che dopo un anno senza esami si ha la carriera universitaria cancellata, sicuramente ci sarebbe qualche litigio famigliare in più, ma la probabilità di tragedie estreme, quelle che covano per 5,6 o 7 anni, si ridurrebbe.
    Ancora oggi molti laureati di primo livello arrivano alla laurea con 4 o 5 anni di fuori corso. Tutto bene per quelli che non commettono gesti estremi?
    Per fortuna solo uno su 100.000 si suicida, ma molti di più hanno il proprio percorso di vita sociale e professionale devastato da questo soggiorno inconcludente nell’università, fino ad una età in cui anche le altre alternative lavorative sono diventate impraticabili.
    Allora si lasci stare il paternalismo il parlare con i genitori, si butti fuori dall’università lo studente che è fuori corso per gli esami di primo anno. Con la disoccupazione giovanile italiana non tutto andrà bene, ma almeno l’università smetterà di essere palestra di fallimenti personali totali, che in qualche occasione, si risolvono in tragedie mortali.

    • Temo che – rapportata al problema che l’articolo intendeva affrontare e alla metafora introduttiva che lei propone – la sua controproposta equivalga ad imporre ad ogni bagnante la presenza di un bagnino che lo segue e lo riporta a terra se mostra di non nuotare bene. Scinderei ad ogni modo il problema affrontato nell’articolo dal problema degli studenti di lungo corso. Contro il quale ogni grido di guerra deve fare i conti con un tema molto complesso.

    • Mi consenta di chiudere con una breve controreplica. Le crisi sociali, famigliari e personali, che derivano dal fallimento negli studi universitari, sono strettamente legate alla lunghezza del “tentativo” di studio universitario. Pur ragionando in termini statistici, è chiaro che gli sbocchi più tragici si hanno sempre alla fine di lunghi anni di difficoltà, emarginazioni, bugie. Come lo stesso titolo dell’articolo dimostra. Quindi nessuna pretesa di aver tirato fuori dal cappello la soluzione, ma sicuramente fuori corso e disagio psicologico e sociale sono collegati. Qualcun altro saprà sicuramente proporre soluzioni migliori della mia.

  8. Crea molta sofferenza leggere queste notizie. Non è risolvibile rendendo possibile l’accesso ai genitori, ma facendo seguire chi ha problemi ad inserirsi all’università. Lo credo veramente. Non è facile sopravvivere in questo mondo. Non lo è anche per gli studenti.

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