Sono Massimo, ero uno storico dell’integrazione europea, ho 39 anni e ho deciso di smettere con l’Università. Se partecipassi a un gruppo di auto-aiuto questo pezzo inizierebbe così. Ma non è un gruppo d’auto-aiuto, è solo la mia storia e quelle che seguono sono alcune riflessioni sul mio percorso accademico che ho deciso di mettere nero su bianco. Forse sì, anche a scopo “terapeutico”, per me stesso, certamente, ma magari non solo. Magari può tornare utile anche ad altri/e che hanno affrontato, affrontano o affronteranno le medesime difficoltà e si troveranno davanti agli stessi bivi; o quantomeno per chiudere questa esperienza senza finire per essere una sorta di meteora. Quando lasci questo lavoro, per l’Accademia smetti di esistere, sei una persona di cui è difficile parlare, o peggio, rimangono solo le “narrazioni” di chi è rimasto: “Sai, non aveva più voglia di fare questo lavoro…”, oppure “era preso da altro”, e ancora, “non ha avuto pazienza”. Sei come una lucetta lampeggiante in un vecchio film con Bud Spencer e Terence Hill (Nati con la camicia – la fissa per le fonti rimane!): “Ehi capo, hanno ucciso il nostro agente a l’Avana”. Una lucetta che prima c’era e ora non c’è più.
Ciao sono Massimo, ero uno storico dell’integrazione europea, ho 39 anni e ho deciso di smettere con l’Università. Se partecipassi a un gruppo di auto-aiuto questo pezzo inizierebbe così. Ma non è un gruppo d’auto-aiuto, è solo la mia storia e quelle che seguono sono alcune riflessioni sul mio percorso accademico che ho deciso di mettere nero su bianco. Forse sì, anche a scopo “terapeutico”, per me stesso, certamente, ma magari non solo. Magari può tornare utile anche ad altri/e che hanno affrontato, affrontano o affronteranno le medesime difficoltà e si troveranno davanti agli stessi bivi; o quantomeno per chiudere questa esperienza senza finire per essere una sorta di meteora. Quando lasci questo lavoro, per l’Accademia smetti di esistere, sei una persona di cui è difficile parlare, o peggio, rimangono solo le “narrazioni” di chi è rimasto: “Sai, non aveva più voglia di fare questo lavoro…”, oppure “era preso da altro”, e ancora, “non ha avuto pazienza”. Sei come una lucetta lampeggiante in un vecchio film con Bud Spencer e Terence Hill (Nati con la camicia – la fissa per le fonti rimane!): “Ehi capo, hanno ucciso il nostro agente a l’Avana”. Una lucetta che prima c’era e ora non c’è più. Prima di smettere di lampeggiare, dunque, mi piace l’idea di buttar giù un po’ di pensieri, senza uno scopo o un ordine preciso. Da prendere così come sono, con imprecisioni, leggerezze e semplificazioni! È la mia storia e la racconto come voglio.
Chi sono? Iniziai a studiare la storia dell’integrazione europea all’Università e capii che mi sarebbe piaciuto studiare e fare ricerca: fu un vero e proprio colpo di fulmine. Dopo il dottorato – che trovai quasi per fortuna dopo averne rifiutato uno senza borsa che mi sarebbe costato troppo – ho quindi iniziato a “farmi le ossa”: un periodo di ricerca all’estero, le collaborazioni, l’assegno di ricerca, i contratti d’insegnamento – tutti step necessari sia a garantirti le risorse necessarie “per campare”, sia ad articolare un percorso accademico attraverso il quale provare a “entrare”, a diventare professore. Ho scritto due monografie, più di venticinque tra saggi, articoli in riviste in italiano e in inglese e partecipato a parecchi convegni-seminari-lezioni nazionali e internazionali portando così in giro per l’Italia, l’Europa e negli Stati Uniti, insieme al mio, anche il nome dell’Università per la quale lavoravo – se interessa l’elenco quasi aggiornato di ciò che ho fatto si trova qui. Ho anche scritto “dalla A alla Z” un progetto che ha fatto vincere una cattedra Jean Monnet.
Ma non voglio parlare di questo. Come scrivevo sopra, nei giorni scorsi ho finalmente trovato la forza di portare a conclusione un percorso travagliato nel quale mi dibattevo almeno da un paio d’anni – ma le cui origini risalgono a diverso tempo prima, dalla fine stessa del dottorato, direi oggi – e che ho cercato costantemente di rinviare nella speranza che qualcosa cambiasse. La svolta, il gol al novantesimo. Ma la svolta non c’è stata, niente zona Cesarini. E quindi l’improrogabilità della scelta: restare o andar via? Non so se ho davvero preso la strada meno battuta, come nella celebre poesia di Frost cui tanto tengo, ma ho deciso.
Tengo subito a precisare che quanto scrivo non vuole essere un modo, un po’ vigliacco, di togliersi qualche sassolino a giochi fatti; né una stanca lamentela del sistema universitario italiano, già sentita mille molte, frutto della “delusione”, della rabbia e delle tante emozioni negative – con le quali comunque mi sono dovuto confrontare e che devo ancora vivere fino in fondo. Infatti, quando si prova a entrare nel mondo accademico italiano, le sue regole, scritte e (soprattutto) non scritte, si conoscono, si sanno. Non si può dire “io non lo sapevo”, “è stata una congiura”. Si accetta liberamente e consapevolmente di giocare: si spera magari che quelle “storie” sentite, raccontate, viste, riguardino altri…perché noi lo meritiamo, perché chi ce la mette tutta…prima o poi…, perché il merito alla lunga viene fuori. È pur vero che è un sistema che ti seduce attraverso mille tentazioni (contratti, convegni, lezioni, pubblicazioni, ecc.) alimentando le tue speranze. Ma sai a cosa vai incontro, anche se non in modo pienamente consapevole – specie all’inizio.
Ma il tempo passa e quando la speranza inizia a intaccarsi, allora pensi: in fondo basta “ingoiare” ancora un po’. E quindi appelli, seminari, lezioni gratuite grazie ai quali l’ordinario di turno appalta parte delle ore che dovrebbe fare direttamente perché per questo, tra l’altro, viene pagato. Lui/lei, non tu. Sicuramente ti formano, ti aiutano a capire come impostare e affinare il lavoro, a trovare un tuo stile, come si gestisce un laureando, ecc. Ma senza risorse è un semplice, come si potrebbe chiamare?, “tirocinio accademico non retribuito”? Stage? Lo fai perché fa parte delle regole del gioco e pensi ti possa far guadagnare punti. Ma non siamo nelle graduatorie per la scuola pubblica: i punti non contano.
La prima cosa che mi viene in mente, abbastanza banale lo so, è che la costante e drastica riduzione del finanziamento dell’Università italiana, unita alla maggiore chiusura del reclutamento (ricercatori a, b…z per non parlare del fantastico mondo dell’abilitazione scientifica nazionale dove può capire che i commissari abbiano meno titoli degli aspiranti abilitanti) ha fatto sì che i professori (ordinari) abbiano visto accrescere in modo esponenziale il loro già enorme potere. Sono come l’imperatore nel Colosseo: pollice su, pollice giù. Tu puoi andare avanti, tu no. Pochi soldi, pochissimi posti. Certo, si può sempre acquistare un biglietto per partecipare alle “lotterie” tipo la vicenda SIR, ma, appunto, siamo pienamente nel mondo dei gratta e vinci. Ritenta, sarai più fortunato. Riforme sempre sbandierate al fine di premiare il merito e come mezzo di rottura dei rapporti di stampo feudali che si sono instaurati negli atenei. Riforme che però hanno penalizzato solo i non strutturati – come quei casi in cui dopo un certo numero di anni in cui hai goduto di contratti di insegnamento non ne puoi avere più: una misura tesa a contrastare il precariato ma che, di fatto, lo incentiva. Cornuti e mazziati.
Quello del merito è un ritornello stucchevole perché, come già detto, pochi soldi e pochi posti fanno sì che ci sia una lotta tremenda tra chi è dentro e chi è fuori e, ancor peggio, una lotta tra ultimi – quanti piccoli “baroni in erba” ci sono tra i precari! Di fatto, per entrare hai bisogno di un supervisor (un “maestro”) col quale costruire un percorso spendibile in Accademia e di un’altra persona che ti “difenda” nei concorsi – ergo, che ti faccia entrare o comunque che ti garantisca posizioni e risorse. Le due figure spesso coincidono: le eccezioni, come i concorsi dove a sorpresa non vince il favorito di turno – espressione suggestiva per non dire “la persona per la quale è stato indetto il concorso” – confermano la regola e permettono al sistema di auto-giustificarsi e legittimarsi (“Vedi, c’è un concorso pulito e aperto! Non c’è bisogno di toccare il reclutamento e di renderlo più chiaro”).
Se non hai queste due figure sei un orfano e per gli orfani non c’è futuro: nessuno ti adotta. Magari ti possono dare consigli e fare da supervisor, certo, ma lì finisce. E io, da un po’ di tempo a questa parte, sono un orfano. Non ho un supervisor – e la doppia bocciatura che ho ricevuto all’ASN lo certifica in modo chiaro – non ho una persona che mi difende o che mi aiuta a trovare qualche risorsa per me (anche fossero poco più di mille euro necessari per pubblicare il frutto di una ricerca): una formula, quella del “non aderire e non sabotare” che è poi un esplicito pilatesco sabotaggio. Pilatesco perché è un atteggiamento privo del coraggio necessario per dirti “per te non c’è posto, fai altro”.
E cosa possono fare gli orfani che ostinatamente vogliono provare comunque a costruirsi una carriera? Si dibattono tra piccoli contratti di insegnamento e collaborazioni varie. I primi, dandoti l’opportunità di “tenere un piede dentro” e di farti chiamare professore, sono contratti capestro dove per pochi soldi hai una enorme mole di lavoro da fare (es. l’ultimo contratto che ho avuto era di 1500 euro lordi per 60 ore di lezione più una decina di appelli d’esame) i secondi, oltre a essere tassati in modo clamoroso, come se si trattasse di collaborazioni fatte da persone già autonome nel reddito e nella vita, ti portano via comunque un bel po’ di tempo. Ma hanno una sola cosa in comune: sottrarti una marea di energie per raccattare qualche risorsa. Cosa viene penalizzato? Naturalmente la ricerca che è quindi messa da parte. Io ho adorato ogni singola ora di lezione fatta, il rapporto con gli studenti, o con i docenti (delle scuole) da formare, ma negli ultimi anni la didattica mi ha impedito di continuare a scrivere e studiare con regolarità. Ma non si campa di aria e quindi accetti quello che offre il convento diventando quello che a me piace definire un “marchettaro della ricerca” cioè quel fenomeno per il quale scopri improvvisi interessi per cose di cui non te ne importa nulla, ma magari ti danno 500 euro, magari 1.000. Magari dopo mesi o anni dalla chiusura del lavoro, come mi è capitato diverse volte. Il tutto in un ambiente che ti umilia, in cui devi aspettare settimane o mesi per avere un appuntamento cruciale (a me è capitato di sentirmi dire di farmi fissare un appuntamento a cavallo di Pasqua e arrivato a Pentecoste stavo ancora lì a chiedere umilmente udienza senza ricevere risposta). Un ambiente che non capisce che qualche mese di “sfasamento” tra un contratto e l’altro o peggio, un contratto che salta ti può creare enormi difficoltà: “ti ho detto che l’assegno non potrà essere rinnovato?”; “ti ho detto che di quel progetto non se ne fa più nulla?”: e tu ci avevi investito tempo e risorse. Dietro queste dinamiche, da entrambi i lati, ci sono persone. Solo da quest’anno è prevista l’indennità di disoccupazione per alcune figure di precari dell’Università: sono palliativi e tagliano fuori diverse figure professionali, come i professori a contratto – che tengono in piedi una marea di corsi di laurea degli atenei italiani.
Certo, si può sempre andare all’esterno, no? Bandi europei, università straniere. Su questo aspetto una cosa voglio dirla, per quello che ho visto e per quello che ho fatto in questi anni nell’Università italiana. Sicuramente condivido e comprendo le motivazioni di chi ha lasciato l’Italia per l’estero (o meglio, è stato costretto a lasciare, le libere scelte non sono tantissime), ma negli ultimi anni si sta raggiungendo una sorta di “esterofilia” che è imbarazzante. Grazie alla superficialità dei media e della classe politica è passato il paradigma per cui se lavori all’estero sei bravo, se sei rimasto in Italia, come minimo, sei complice e connivente col sistema. L’ipotesi che sei rimasto perché volevi provare a cambiare qualcosa o solo perché non potevi espatriare, non è presa in considerazione. Di conseguenza, i giornali sono pieni di storie toccanti di “poveri emigranti”, che sono costantemente presentati come “l’eccellenza” cacciata dai baroni e dai raccomandati che sono rimasti a fare la bella vita. Non è così o meglio, non è solo così. Sarebbe bello che si raccontassero le storie e si provassero a risolvere i problemi anche di chi ha dedicato tempo, risorse ed energie alle Università italiane. Che se continuano a sfornare eccellenze che poi popolano il mondo, forse tanto male non sono. Pur operando in un contesto imbarazzante – sì è una ripetizione di un termine usato da poco, ma ci sta tutta. Il contesto è imbarazzante e le responsabilità tanto gravi quanto precise e cristalline.
Si potrebbe pensare che in fondo se non riesci a entrare puoi sempre giocarti le competenze acquisite nel mondo del lavoro, quello vero. Sempre ammesso che si sappia precisamente di cosa si tratta, ma che importanza ha in Italia il dottorato di ricerca? Ancora oggi, i formulari recitano sempre le stesse laconiche opzioni: diploma, laurea, altro. Ecco cosa è il dottorato nel mondo del lavoro e per le istituzioni italiane: altro. Non la dimostrazione che sai fare un progetto, organizzare il tuo lavoro e magari quello degli altri per raggiungere gli obiettivi, innovando così il campo nel quale lavori. È altro, un pezzo di carta, inutile come quelli presi in precedenza, errori di gioventù, quasi da far cancellare sennò rischi di avere problemi a cercare lavoro, come tristemente ammetteva l’antropologo nel primo episodio della trilogia di “Smetto quando voglio”.
Dietro queste tare ciò che rimane sconcertante e inaccettabile, almeno per me, è il talento buttato di una marea di giovani studiosi, anzi non più giovani: solo in Italia sono considerati giovani gli ultratrentenni o i quasi quarantenni come me. Quante persone ho incontrato nei miei dieci anni di attività. Quanto talento, quante potenzialità per innovare le discipline, la ricerca, la didattica. Quanta rabbia nel vederli/nel vederci appassire, svanire, lasciare. Oggi sono tra questi. In un convegno sulla storiografia italiana e l’integrazione europea avevo messo in luce come di oltre quaranta giovani studiosi che avevano partecipato a un ciclo di convegni a metà degli anni 2000, solo due oggi sono strutturati – le slide di quell’intervento sono qui. Il resto sono ancora precari o hanno lasciato.
E cosa vuol dire se a quasi quarant’anni non hai ancora una prospettiva chiara di carriera? Semplice, che i giovani studiosi hanno una sola scelta: o tentare la carriera, o costruirsi una famiglia. Le due cose, troppo spesso, assomigliano a un gioco a somma zero. Se punti sulla carriera, una famiglia forse la costruirai molto, molto, in là, con tutto quel che ne consegue. Se scegli la famiglia, sai che le tue opportunità di carriera si riducono drasticamente; non c’è differenza di genere in questo: donne e uomini sono perfettamente uguali. I figli, poi, una catastrofe! Sei pazzo? Quanti sacrifici ha fatto la mia giovane famiglia, mia moglie e i miei due bimbi, perché io potessi ancora tentare. Ma, ripeto, le responsabilità sono unicamente mie non del sistema le cui regole conoscevo perfettamente e ho accettato.
Un’altra considerazione da fare, una delle ultime e così entro un po’ più dentro all’ambiente che conosco meglio, è che se ti occupi di discipline umanistiche sei abbastanza “sfigato” – ricordo che non c’è blind-refereee quindi posso usare i termini che mi pare e piace! Già, perché da diversi anni si è assistito all’irresistibile ascesa delle “tecniche”, della ricerca “quella vera”. La storia? Roba per perditempo, che cosa ci si fa con la storia?. Ed ecco che mentre viviamo nella più grande crisi dell’Europa dal secondo conflitto mondiale e in un contesto internazionale tremendamente difficile da interpretare, con nubi che si avvicinano da ogni lato del pianeta, la storia è sempre più marginale: non solo nelle Università, ma nel sistema scolastico nel suo insieme. Non esiste un professore di storia di ruolo, non esiste uno spazio specifico per insegnare la storia e il funzionamento dell’Unione europea. Il tutto è lasciato alle sensibilità dei singoli docenti e nelle attività di formazione che ho fatto, per fortuna, ce ne sono! Ma sono gocce nell’oceano. E nelle Università si preferiscono altre discipline, come quelle politologiche o legate alla comunicazione perché “più trendy”. Ma la profondità e la contestualizzazione che solo la riflessione storica è in grado di dare, che fine fanno? Gettate nello scarico, tirare la catena. Lo studio del passato è scomodo perché troppo spesso denuda il presente, lo smaschera, pone interrogativi ineludibili, e quindi non è pop, non si muove con inglesismi, con slogan, con formule. Lungi da me il denigrare tutto ciò: viva i laboratori! Viva le macchine! Ma il trattamento riservato alla storia negli ultimi anni è stato vergognoso, senza mai porsi il problema dell’impoverimento culturale e di memoria che questo vuoto porta con sé – certo, le colpe autolesioniste degli storici in queste dinamiche sono enormi, ma non voglio mica scrivere una monografia!
Ho già detto che se scegli le discipline umanistiche sei uno sfigato. Se studi storia, poi, sei lo sfigato tra gli sfigati. Ma se tra tutte le storie possibili, scegli quella dell’integrazione europea, beh, allora ci troviamo davanti allo sfigato per eccellenza. Già perché per chi si occupa di storia contemporanea troppo spesso sei etichettato come uno che si è troppo spostato sulle relazioni internazionali ed è troppo politologo. Ma per chi si occupa di storia delle relazioni internazionali sei troppo contemporaneista e comunque troppo politologo – che non guasta mai. E quindi? E quindi dovresti essere furbo e magari ripiegare su un bello studio “classico”, che ne so, la condizione dei ferrovieri a San Martino al Cimino durante il fascismo, oppure la straordinaria biografia politica del portaborse del vice segretario della sezione del partito comunista della frazione di Borghetto. Senza un tuo specifico settore disciplinare finisci per essere tagliato fuori dagli ambiti di riferimento. In un momento storico, come ho detto, che richiederebbe invece ben altro.
Se vuoi lasciarti aperti più orizzonti e non chiuderti nell’infelice mondo della storia dell’integrazione europea puoi sempre pensare che puntando sull’interdisciplinarietà, o sulla multidisciplinarietà, riuscirai a rendere più solide le tue prospettive. Errore. Nonostante si sbandierino in continuazione questi termini, la realtà è una sempre più travolgente micro-settorializzazione e una difesa a oltranza del proprio piccolo giardino, anche se intorno va tutto a fuoco. Se sei interdisciplinare, in altre parole, non hai bandiera e non sei etichettabile dal sistema dei settori scientifici disciplinari, ergo, sei a rischio “orfanotrofio”. E così il cerchio si chiude.
Ma sono stato troppo lungo e certamente un po’ rozzo e superficiale. Concludo. Io lascio, principalmente per una questione di dignità e di giustizia. Ho sempre sentito miei i versi di una canzone degli Stab (15 anni): “La voglia di viver dentro te/Onesto come tuo padre/La voglia di esser nel giusto/Come ti insegnava tua madre”. Le ho messe nei ringraziamenti della mia tesi di laurea, in quella di dottorato e anche nella prima monografia pubblicata. È proprio a quelle parole che ripenso oggi e nelle quali trovo ancora senso per capire che ho preso la decisione giusta. Che quello che ho fatto non lo rimpiango e non lo rinnego perché è stata una bell’avventura e mi ha fatto crescere come persona e come uomo. Come Truman Burbank, esco dalla porta: “Buongiorno! E casomai non vi rivedessi: buon pomeriggio, buona sera e anche buona notte”. Io parto alla ricerca delle mie Isole Fiji. Non è quindi una bandiera bianca, una resa, ma un issare la vela per tornare in mare aperto. Come scrisse Paolo di Tarso a Timoteo, anche in questo caso parole cui tengo tantissimo, “ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede”. Smetto quando voglio.
Articolo pubblicato su qcodemag.it.
Siamo praticamente gemelli (io con 1 libro in più di te, ma con qualche articolo in meno).
Forse un’altra cosa andrebbe detta: l’indifferenza di certi strutturati (non tutti, ma sicuramente quelli che contano), il loro netto rifiuto di immedesimarsi nella situazione tragica e incomprensibile, questa è CATTIVERIA!!!
Ma non ti preoccupare, la vita prima o poi presenta il conto e loro si troveranno (lo scrivo come mero esempio) a fare la commissione di esame con i bidelli, in quanto non ci si saranno più collaboratori.
Tu con 2 LIBRI
Io con 3 LIBRI,
OGGI dovremmo già essere Rettori, altro che disoccupati.
Che curriculum avevano gli ordinari di ora (i GRANDI PROFESSORONI), quando sono entrati a tempo indeterminato 20 0 30 anni fa?
La nostra tenacia sarà apprezzata altrove, a loro rimarrà solo un pugno di mosche (ed uno stipendio dignitoso ma inutile).
Capisco l’amarezza, ma non esageriamo coi luoghi comuni. Fra i giuristi, ordinari che hanno scritto meno di due libri – belli o brutti- non ne conosco . E avere scritto due o tre libri non da’ diritto a un bel nulla
Onore a te. Da quello che scrivi traspare un senso di etica che ben poco può conciliarsi con il sistema attuale. Ormai la selezione si basa sul più bravo marchettaro e portaborse e la cosa bella è che quei pochi, pochissimi, nuovi strutturati non riescono a staccarsi da una tendenza ormai acquisita appunto da portaborse. Non c’è ricerca, sono tutti vassalli. Anche quando contrattualmente potrebbero svincolarsi e osare. Scientemente si seleziona non il più bravo che potrebbe mostrare una eccessiva autonomia di pensiero, ma il più lecchino e diligente e, mi si passi il termine, fuffaro. Coloro che pubblicano secondo trend che manco capiscono loro, ma che tirano appunto. Ma da qualche parte sono consapevoli di non aver ottenuto per merito ma per lecchinaggio e, quindi, pur essendo giovani sono già spenti. E tutto lentamente muore.
Ovviamente, quando mi riferivo a molti tra gli strutturati, gli ordinari o i “professoroni”, e alla loro indifferenza a certe situazioni, era in relazione alle frasi dell’articolo
“la costante e drastica riduzione del finanziamento dell’Università italiana…..ha fatto sì che i professori (ordinari) abbiano visto accrescere in modo esponenziale il loro già enorme potere….Sono come l’imperatore nel Colosseo: pollice su, pollice giù. Tu puoi andare avanti, tu no”.
Carissimi colleghi (di sventura), ho già condiviso il post di Massimo. Anche io mi trovo nella stessa situazione. 42 anni, 17 dei quali trascorsi a dare il massimo per un’istituzione che ha trovato risorse solo per i soliti ignoti.
Non è facile ricominciare, buttare tutto alle spalle, specialmente quando provando a fare qualche colloquio esterno, ti senti rispondere: “Lei è troppo avanti negli anni e troppo qualificato a fare nulla”!
QUESTA E’ L’UNIVERSITA’ ITALIANA!
Profondamente deluso ed amareggiato auguro a tutti Voi un radioso futuro.
Io depongo le armi e proverò a re-inventarmi un futuro!
A tutti i ragazzi che stanno cominciando un dottorato o hanno l’idea di farlo dico: “Se il Vostro cognome non è tra coloro che sono predestinati, non perdete tempo! Scappate lontano!”
Secondo me col massimo rispetto possibile per le vostre sofferenze, sbagliate bersaglio…
Vittime della propaganda dello scontro generazionale, il problema non sono le generazioni, sono gli investimenti.
Il bomba sul suo libro “avanti” dice che bisogna tornare al patto di Lisbona (3% de PIl su R&S e Università), renzusconi e il loro giornale unico sono i veri responsabili e bersagli di vostre lamentazioni (giuste).sono un ordinario certo e ho dedicato la mia vita a unipubblica. Rimando a Casagli e al dibattito roars per altre questioni… Scrivete al segretario di della cgil flc, chiedetegli perchè Madia fa una legge per i precari amministrativi e non per i nostri …Perchè invece che scrivere ai giornali le solite lamentazioni, non scrive ai deputati dei sui partiti di riferimento che facciano almeno una dignitosa interrogazione…
Sono strutturato, ma concordo completamente con l’autore dell’articolo e con i commenti. Per me, per avere dato fastidio a qualcuno dell’establishment, pollice giù al prosieguo di carriera con risibili motivazioni (mi trovo disponibile a farle conoscere per iscritto, in privato, a chi me le chiedesse).
A oggi un associato (e a fortiori un ricercatore) nemmeno può disporre, per la commissione d’esame, di un assegnista o di un dottorando a meno che non glielo conceda il barone di riferimento. Personalmente, mi trovo ridotto a svolgere gli esami da solo, in aperto contrasto sia con la legge sia con il regolamento di facoltà, che prevede commissioni di almeno due membri.
Dunque, ai non strutturati tutta la mia solidarietà, specie a quelli impossibilitati a emergere per non essersi allineati al pensiero mainstream oppure, pur bravissimi, ridotti alla trasparenza perché non graditi al potente di turno.
Resto convinto che da questa melma mefitica o si uscirà con sforzi e solidarietà tra tutti, o altrimenti non ci sarà più niente da fare. In sintesi: pessimismo della regione e ottimismo della volontà.
@Bergeret:
tra i giuristi, ci sono ancora ricerc. a tempo ind. che sono dentro, da 35-40 anni, fino alla pensione avendo scritto una sola nota a sentenza e basta.
Ora non bastano 3 libri e una ventina di articoli, perché magari uno non sapeva 10 anni fa dell’esistenza della classe A (in quanto non esisteva).
Lei vuole mettere sullo stesso piano l’impegno e presumibilmente l’attitudine alla ricerca ed il contributo di chi ha scritto 3 libri con il “riposo” di chi si è strutturato con soltanto una nota a sentenza scritta, magari, nel 1989?
@Bergeret:
aggiungo:
Tutti quelli che oggi sono ordinari sono stati, prima, al 99% ricercatori a tempo indeterminato.
Ecco che, partendo da una base di tranquillità, hanno potuto, con merito ma soprattutto con gradualità, arrivare ad essere ordinari, Lei non trova?
Oggi, le stesse persone ce la farebbero non potendo più salire il “gradino della tranquillità” del ric. a tempo ind.? Come farebbero ad accumulare titoli valevoli per l’ASN presumibilmente disoccupati o con rtd in scadenza?
Alcuni commenti rendono evidente il perché si sia arrivati a questa situazione. Più interessati a difendere la categoria – e comunque di ordinari che non hanno scritto una beneamata mazza ce ne sono stati, poi se si vuole sempre negare l’evidenza fate vobis – e per di più il fatto che i poveri precari devono fare tutto da soli, ma andate dai sindacati, dai positivi insomma da chi volete e Arrangiatevi! Questo non ha veramente senso in una istituzione come l’Università che non avrebbe dovuto essere personalistica ma un servizio e ,quindi, tutti i suoi componenti avrebbero dovuto lavorare per garantire un servizio e un ricambio.
Orwell: “comunque di ordinari che non hanno scritto una beneamata mazza ce ne sono stati, poi se si vuole sempre negare l’evidenza fate vobis”. La leggenda dell’ordinario-che-non-ha-mai-scritto-un-rigo-in-vita-sua è dura a morire. Caro Orwell porti lei evidenza che mostri che non si tratta di una leggenda. Faccia qui il nome anche di un solo ordinario-che-non-ha-scritto-una-beneamata-mazza.
Belle le parole di San Paolo. Siamo un paese di cultura classica, cristiana, umanistica. Abbiamo una classe dirigente imperdonabile.
[…] via “Smetto quando voglio”: perché lascio la ricerca e l’accademia — ROARS […]
Massimo, senti, posso solo esprimerti la mia solidarietà e immaginare quanto sia stato difficile per te prendere una decisione simile.
Con il tuo permesso, voglio citare un altro film, che a mio modesto parere ricorda meglio la nostra situazione: Requiem for a Dream di Darren Aronofsky. In particolare faccio riferimento alla signora Sara Goldfarb.
Credo che l’accademia si nutra principalmente delle illusioni e sogni che in modo autonomo e individuale ognuno di noi costruisce; forse prima ancora di mettere piede per la prima volta in un ateneo. D’altronde insegnanti e genitori ti fanno credere che le università siano piene di uomini saggi e illuminati. Magari siamo stati più bravini (o furbetti) nel liceo e ti convinci di dovere stare vicino ai tuoi simili: gli illuminati appunto. E poi, frequenti i primi corsi universitari, fai i primi esami e ti innamori di qualche materia. Ti sembra di capirla e interpretarla meglio di qualche assistente mediocre (senza sapere che quello stesso assistente sei tu fra qualche anno). E allora pensi, se questo pirla è arrivato a questo importante ruolo (portaborse) c’è la poso fare anche io. Ma in quel momento non puoi sapere che posti per assistente c’è ne sono all’infinito. Poi arriva il colpo di grazia. Qualche docente ti farà notare un po prima o subito dopo la laurea che sei bravo, che hai numeri sufficienti per farcela. E a quel punto non c’è ego che tenga. Ti gasi e ti auto-convinci proprio come Sara Goldfarb che c’è la farai. Quello è il picco, e il resto della storia la conosciamo già.
Naturalmente il problema adesso per te come per la maggior parte di noi è dare un senso a questa esistenza. Puoi intraprendere più strade. Ma credo che qualunque scelta tu faccia, sia importante imparare una lezione dolorosa: si tratta di un lavoro come qualsiasi altro lavoro al mondo. La storia dell’integrazione europea non possiede nessun potere trascendentale, taumaturgico o catartico per la società. Ne tu ne Einstein, ne Bertrand Russell siete mai stati investiti da nessuna missione divina o profetica; il perché la maggior parte di noi possa convincersi di questo, resta un mistero. Forse possediamo qualche forma di alterazione della personalità o malattia psichiatrica ancora non studiata? Non c’è mai stato niente di speciale nella tua disciplina e nel tuo lavoro. Per quanto il tuo QI sia elevato, per me non sei speciale, o almeno non più speciale del panettiere che mi prepara il pane tutte le mattine. La storia dell’integrazione europea è solo lavoro: è’ funzionale in quanto qualcuno, all’occorrenza, deve dettare lezioni di storia dell’integrazione europea ai miei figli. Magari posso essere vagamente interessato al fatto che i giovani ricercatori in campo oncologico continuino a portare avanti con dedizione il loro lavoro. Mi interesso anche che gli agricoltori potino e curino con attenzione i ciliegi per la prossima primavera.
Magari potevi prendere l’ASN. E vincere un concorso da associato. E magari avere ulteriori conferme su quella premonizione liceale sulla tua missione. Su quanto sei speciale e quanto piena di significato sia la vita di un accademico. La delusione che leggo nelle tue parole è la stessa che ho incontrato nella maggior parte delle persone strutturate all’interno della Torre di Avorio. Perché in fondo, quello che ognuno di noi cerca è proprio quel bisogno di approvazione, quella urgenza di sentirci veramente speciali e unici. Quando ti svegli da questo stato ipnotico, credimi, il mondo acquista una nuova tonalità. Che tu stia fuori o dentro, capirlo significa anche avere l’opportunità di vivere una vita nuova. Buona fortuna.
Di fronte a questo bellissimo intervento non si può che rimanere amareggiati. I casi come i tuoi sono tanti e ci sono casi ancora più gravi, ad esempio chi come me ha perfino ricevuto l’abilitazione da associato e “rischia” di prendere anche quella da ordinario senza che si apra una prospettiva da strutturato. Se non avessi preso l’abilitazione non avrei esitato a mollare anch’io, e a questo punto l’ottenimento dell’abilitazione, senza alcun riscontro dopo tre anni e con molti concorsi partecipati, suona ancora come una sconcertante ulterioe sconfitta.
Storia esemplare che riassume lo stato dell’Università. Una sana Università recluta pro-tempore molti neolaureati, ma se ne libera velocemente, lasciandoli liberi di vivere la loro vita che, qualche volta, sarà quella di uno strutturato nell’Università. Una cattiva Università recluta sine-die giovani che invecchiano svolgendo ruoli assurdi che abbiamo battezzato precariato, ma che precariato non sono: servono solo a realizzare una continuità schiavistica di poveri malcapitati a servizio degli ordinari disonesti che li illudono. Perché questi ruoli eterogenei non possono essere definititi precariato? Cerco di spiegarmi. Se hai una supplenza in una scuola superiore, svolgi a tutti gli effetti il ruolo di insegnante, sei a tutti gli effetti professore, con l’unico neo di non essere in ruolo. Se hai un assegno di ricerca dopo aver fatto il dottorato non ricopri nessun ruolo universitario. Sei solo uno schiavo che fa anche esami e lezioni ‘illegalmente’ al posto di chi è in ruolo ed è pagato per fare il lavoro che fai tu gratuitamente ed indebitamente. Questo è l’equivoco di fondo. Molto spesso la ‘supplenza’ indebita del ruolo dello strutturato è ritenuta propedeutica ad un diritto di prelazione per entrare in ruolo. E tanti giovani, ormai non più giovani, sono stati rovinati da questo equivoco. Come rimediare? Difficile per chi ha creduto alla favola ed ha già speso anni preziosi. Facile per i giovani neolaureati: non fatevi abbindolare e mandate a spigare chi vi promette false prospettive!
Tutto questo prescinde dalle risorse dedicate all’Università. E’ un discorso generale che vale in qualunque contesto, anche in un contesto di vacche grasse. Se poi le vacche sono magre è chiaro che il problema si aggrava, ma non nasce a causa delle vacche magre. Quanti colleghi ho sentito dirmi che non possono fare a meno dei precari, che ormai sono esperti e portano avanti le ricerche e le pubblicazioni in modo autonomo. Se li mando via devo prenderne altri e formarli e farò meno pubblicazioni e meno ricerche. Questo è il vero motivo del cosiddetto precariato, che precariato non è, ma è solo banale sfruttamento, agevolato da un sistema gestito e progettato dagli sfruttatori.
Da un punto di vista ordinamentale si potrebbe cominciare con l’abolire la figura del Dottorato e dell’Assegno di Ricerca. Introdurre contratti di collaborazione pro-tempore da non protrarsi per più di due anni, col divieto assoluto di fare esami e lezioni. Per i posti di ruolo iniziali (Ricercatore) si dovrebbe abolire il concorso per titoli e fare un puro concorso per esami riservato a neolaureati. In un attimo scomparirebbero ‘i precari’. Non è poi così difficile, mi pare!
Una cosa del genere potrà farla solo un Ministro politico, se la politica tornerà autorevole, perché, è ovvio, sarebbero provvedimenti contro la casta autoreferenziale dell’Accademia che, con la politica debole, ha potuto organizzare liberamente le proprie necessità.
Ma sì, aboliamo pure il Dottorato, tanto riforma più, riforma meno, ormai…
Sono solidale e lo sono sempre stato con tutti i colleghi più giovani che, pur avendone i requisiti, non riescono a entrare nel sistema: dal dottorato in poi, ne ho incontrati diversi (non moltissimi a dire il vero: molti altri erano manifestamente inadeguati al mestiere della ricerca). Da questo punto di vista, la legge 240/2010 è stata un vero spartiacque, eliminando la figura del ricercatore di ruolo a tempo indeterminato, che un tempo rappresentava un obiettivo possibile, sia pure dopo vari anni di precariato, ovviamente. Darsi un limite d’età (quello dei 40 anni mi pare ragionevole) oltre il quale continuare a coltivare aspettative diventerebbe deleterio mi pare un atteggiamento mentalmente molto sano e che mi sentirei di consigliare a tutti i non strutturati; è una regola che mi ero dato anch’io quando ero in quella condizione. Procrastinare indefinitamente situazioni senza sbocchi serve solo a creare alibi a tutti: ai ‘baroni’, che comunque si sentono la coscienza a posto se riescono a trovare, di tanto in tanto, qualche spicciolo per i ‘volenterosi’; e agli stessi precari, che maturano nel tempo quella sindrome da accerchiamento, che li fa sentire studiosi eccellentissimi vittime di un ‘sistema corrotto’, ecc., atteggiamento che traspare anche da molti dei pur condivisibili messaggi postati qui.
Caro Massimo e cari tutti i colleghi di sventura,
la mia storia è assolutamente simile, cambia solo il settore disciplinare (o i settori, anche per me l’interdisciplinarietà è diventata presto in problema), l’età, qualche anno in più, e l’abilitazione, che ho ottenuto, ma che non serve assolutamente a nulla, anzi, se si deve fare un altro lavoro è meglio tacerla, come ho scoperto a mie spese.
Concordo anche con la visione non vittimistica, il sistema è corrotto, lo sapevamo dall’inizio, ma pensavamo di farne parte e che prima o poi sarebbe toccato anche a noi, adesso le vacche sono magrissime, di fieno ne è rimasto solo per i figli o al massimo qualche parente, con tutta la buona volontà come puoi pretendere che ti preferiscano ai figli?
Good night and good luck.
Figli, parenti, amanti, amichetti, etc. Insomma ecco spiegato cosa sia successo. In tempi di vacche grasse qualche bravo ci scappava pure…in tempi di vacche magre passano solo i figli di è tutto diventa marcio secondo una spirale senza fine. Per questo o si parte con una pulizia seria togliendo in toto il potere a chi fa parte del sistema o non se ne esce fuori. Una cosa era interessante nella riforma di berlinguer, il fatto che tutti gli Step della carriera erano da fare sempre in atenei diversi. Questo avrebbe evitato lo schifo attuale. Ma non è passata perché troppi politici e amici baroni hanno pensato: e i miei figli dove li metto?
da storico: complimenti per la disamina.
Credo tuttavia che fare di tutta l’erba un unico fascio sia pericoloso. Io non credo al tema del baronato come suggerito dal tuo articolo ma ad una realtà più pericolosa.
Esistono precise responsabilità politiche, contro cui coloro che erano ai vertici dell’università italiana (=PO) si sono schierati molto blandamente.
La 240 è passata senza nessuna vera mobilitazione da parte dei PO di allora. Sfido chiunque a dire il contrario: è un dato di fatto. Dalla 240 parte e si afferma tutto il disegno di penalizzazione dell’università (precarizzazione, blocco degli scatti, riduzione del FO e via dicendo).
Fin quando non capiremo perché un’intera classe di docenti NON si è mobilitata contro la 240 non capiremo nulla delle dinamiche interne dell’università italiana.
Io ero uno dei pochi PO che si sono mobilitati e credo di aver (parzialmente) capito perché la grandissima parte dei colleghi PA e soprattutti PO è rimasta alla finestra. Anni di martellamento informativo li avevano portati a condividere la stessa mitologia che veniva usata come motivazione e indirizzo della riforma. Non esisteva praticamente nessuna fonte alternativa e nessun debunking delle bufale che erano state doviziosamente diffuse. Chi viveva meno sulle nuvole ed era più abituato a sporcarsi le mani (precari e ricercatori) capì meglio cosa stava arrivando insieme alle nubi scure della riforma. Tuttavia, per tutti, il problema dell’informazione – incompleta e unilaterale – era enorme. Nel 2010, per me e molti altri, leggere gli articoli che Francesco Sylos Labini pubblicava sul suo blog del Fatto Quotidiano fu illuminante. All’epoca nessuno spiegava che le ricette di Giavazzi e Perotti erano aria fritta basata su dati e numeri di fantasia. Adesso, chi ha un minimo di buona volontà può procurarsi facilmente informazioni che allora erano patrimonio di pochissimi che per professione frequentavano la letteratura scientometrica o i dibattiti internazionali sulla valutazione e le politiche accademiche. Troppo poco troppo tardi? Forse sì. Dovevamo svegliarci prima.
Caro Anto,
Lei si riferiva agli “ordinari di ora”, non ai RUC. E infatti non è in grado – come nessuno di quelli che ripetono questo luogo comune – di fare un solo nome di un ordinario – “di ora o di prima” – divenuto tale senza aver scritto almeno una monografia o qualcosa di sostanzialmente assimilabile (es., tre o quattro saggi di un centinaio di pagine, per quanto idiota sia il calcolo delle pagine e delle monografie). RUC diventati tali con qualche noterella ce ne sono. E’ deprecabile, ma si tratta pur sempre di eccezioni, che non giustificano la denigrazione e la demolizione di una categoria composta da migliaia di valorosi studiosi. Non saprei dire se essere RUC sia indispensabile per poter scrivere quel che è richiesto per diventare ordinario. A me sembra che sia stata semplicemente una regola – non sempre applicata e forse anche discutibile – per disciplinare il percorso accademico. Sono stato RU, PA, PAC e PO, ma non mi sembra che senza il primo passaggio non sarei stato in grado di compiere gli altri. Conosco “ordinari di ora” e “di prima” che sono diventati tali senza mai essere stati RU o PA. Molti – la maggior parte – lo meritavano (peraltro, prima degli anni ’80 non esistevano i RU). Certo, si potrebbe obiettare che avrebbero anche potuto aspettare. Ma stiamo parlando di eccezioni, che, ancora una volta, non giustificano i luoghi comuni che leggiamo ogni giorno e sentiamo ripetere da gente semplicemente disinformata, perché incapace di informarsi, quando non in mala fede
Gli scandalosi anni ’80 hanno prodotto il dramma di oggi…gente chd è entrata senza avere i titoli e che poi ha gestito l’università come cosa propria. Su Roars ne è riportata una lucida disamina. Quindi smettiamola di difendere la categoria, perché gente che è entrata in quel modo ha poi reclutato altra gentaglia portando a una percentuale massima di lecchini che ha poi accettato senza batter ciglio quanto proposto dalla riforma dal 2010. Servi si nasce e si muore.
Tutte le mitologie hanno il difetto di essere troppo semplici. E chi conosce un po’ di metodo scientifico diffida delle mitologie.
Bergeret:
essere stati RUC ha significato per tantissimi accendere un mutuo in banca, farsi una famiglia, comprarsi una casa, avere una prospettiva. Infine, la TRANQUILLITA’ di progredire.
Poi, se uno avesse voluto, avrebbe provato a fare carriera e progredire; la possibilità c’era e come se c’era.
La situazione di molti di noi a 40 anni è che abbiamo soltanto un curriculum che più diventa grande più viene valutato come piccolo (es: retroattività riviste classe A).
In altre parole: abbiamo i titoli ma non abbiamo una vita.
Noi non abbiamo alcuna prospettiva nonostante 3 o 4 libri(parlo per il settore umanistico).
Le pongo 3 domande:
1)Al tempo Suo, 3 o 4 libri davvero non avrebbero garantito un futuro?
2)Ora, a differenza dei Suoi tempi, c’è l’ASN.
L’ASN è diventata un incubo, ci si buttano tutti, esiste solo l’ASN. Ma la promozione dovrebbe essere l’ultimo gradino partendo dal reclutamento, non viceversa. Invece, ora uno si struttura soltanto dopo aver conseguito il massimo, cioè L’ASN. E’ come dire che un giocatore di calcio potesse prendere il primo stipendio soltanto all’apice dei suoi risultati, ad. es., solo dopo aver vinto la coppa del mondo…..
Come fa questa persona a vivere, a mantenersi?
3)Dopo tutti questi ragionamenti, Le sembro una persona disinformata, che ragiona in malafede e con luoghi comuni?
Il fatto che lei paragoni l’ottenimento dell’ASN alla vittoria dei campionati del mondo di calcio, mi fa pensare che non abbia le idee proprio chiarissime… Credo abbiano più ragioni i suoi colleghi precari che qui hanno denunciato il fatto che, da non strutturati, l’ASN non serve a un bel nulla, anzi forse è controproducente (ma lo si poteva intuire prima, comunque: il motivo è che il reclutamento rimane locale, anzi, è diventato ultra-locale).
Caro Anto,
Premetto che non sono molto più anziano di Lei. Il mio tempo è, più o meno, il Suo.
Il Suo modo di argomentare è sfuggente. Senza mai aver risposto al mio rilievo iniziale (quale ordinario non ha due monografie, nei SSD in cui contano le monografie?), ora la mette su un piano del tutto diverso, parlando del problema – che non è peculiare dell’università- del precariato, rispetto alle scelte di vita (il mutuo, la famiglia, etc.). Tutto vero, ma l’università non può diventare un ufficio di collocamento o un ammortizzatore sociale (già lo è fin troppo).
Comunque:
1) certo che no. Non è mai bastato scrivere per diventare professori. Per fortuna…;
2) come Le ho ricordato, prima degli anni ’80 esisteva qualcosa di simile all’ASN: la libera docenza, anche se non abilitava a diventare professore di ruolo, ma solo ad avere un incarico. Dunque molto più precaria, come situazione. Ovviamente, c’erano meno laureati e, dunque, chi si laureava e si dedicava allo studio aveva più chances. Anche la selezione dei futuri professori era più gestibile. Per questa ragione, dal 1998 sono stati aboliti i veri concorsi nazionali.
3) non mi permetto di dire a nessuno che è in mala fede, se non posso dimostrarlo. Mi sembra, però, che Lei non sia molto informato sulla storia dell’università.