Lettera aperta dei docenti universitari di discipline storiche nei corsi di Scienze della Formazione primaria. Con un commento di M.P. Donato.
Punto di forza, nonostante tutto, del sistema educativo italiano, il primo ciclo d’istruzione è il cardine della scuola democratica, inclusiva, strumento di promozione della persona e della società tutta. È il luogo dove si impara ad imparare, dove si acquisiscono le conoscenze di base e i prerequisiti logici e metodologici delle discipline, dove si avvia l’educazione alla cittadinanza, al rispetto di sé e degli altri, alla comprensione della complessità.
In questo delicato processo, alla Storia viene affidato il compito di formare nei cittadini, fin dall’infanzia, la coscienza del divenire e della collettività, motivandoli “al senso di responsabilità nei confronti del patrimonio e dei beni comuni” (Indicazioni nazionali 2012), in sintonia con l’art. 9 della Costituzione, ed educandoli al confronto. Nonostante la riduzione delle ore d’insegnamento e nonostante il programma curricolare preveda come contenuti obbligatori solo la preistoria e la storia antica, il sapere storico entra in gioco in molti altri aspetti e momenti dell’istruzione. La scuola primaria è dunque chiamata a “esplorare, arricchire, approfondire e consolidare la conoscenza e il senso della storia” in tutti i modi possibili, attraverso l’esplorazione del territorio, la scoperta dei monumenti e delle opere d’arte del passato, le attività dedicate a Costituzione e cittadinanza e altro ancora.
Come vogliamo che siano formati i futuri maestri e maestre che dovranno far vivere la storia in classe e fuori? Quanta importanza attribuiamo alla formazione storica di coloro ai quali chiediamo di far nascere la curiosità verso il passato e arricchire il senso e la conoscenza della storia?
Non molta, si direbbe guardando la situazione attuale nei corsi universitari di Scienze della formazione primaria.
Il riordino di questi corsi dopo il ritorno al maestro unico sancito dalla riforma Gelmini del 2009 prevede un certo numero di cosiddetti “crediti formativi” di discipline storiche. In primo luogo, però, il loro aumento da 8 a 16 nel nuovo percorso quinquennale costituisce un rafforzamento solo apparente, dato che l’area storico-geografica rimane debolissima, come tutti gli insegnamenti disciplinari, anche perché si è inopportunamente annullata la distinzione tra scuola dell’infanzia e primaria. Inoltre, pochissime università hanno organizzato corsi integrati dall’antichità al contemporaneo. In alcune gli insegnamenti sono a scelta dello studente, nella maggior parte si impone questo o quello. Calcoli economici, pensionamenti, rigidità burocratiche, diverso inquadramento disciplinare degli insegnamenti, talvolta qualche sospetto e competizione tra settori disciplinari e tra dipartimenti universitari spingono troppo spesso a soluzioni di ripiego.
Possibile che non si possa fare uno sforzo di creatività e di impegno di tutta l’università –dai docenti ai rettori fino al Ministro – per trovare le risorse e offrire una formazione di maggior respiro? Possiamo permetterci, come cittadini e come storici, che sia trascurata la preparazione storica degli insegnanti del primo ciclo?
Non si tratta di immaginare impossibili programmi omnicomprensivi né, viceversa, di distillare nozioni in pillole lungo tutto l’arco della storia universale, ma di creare percorsi stimolanti attraverso i periodi e i temi, di introdurre i futuri maestri ai principali aspetti della ricerca dei vari settori, di presentarne tendenze comuni e problemi specifici, di fornire delle indicazioni e degli strumenti didattici per i diversi periodi per metterli poi in grado di organizzare al meglio la loro attività. Di far vivere la storia con competenza e di guidare i bambini alla scoperta delle loro città, del paesaggio, del patrimonio culturale e storico-artistico.
A questo proposito, è imprescindibile creare una sinergia con le discipline delle arti. Le indicazioni ministeriali individuano nella tutela dei beni storici e artistici una delle finalità principali dello studio della storia a scuola. Gli insegnanti dovrebbero dunque essere formati per questo compito così importante. Tuttavia, se tutti i corsi di scienze della formazione primaria hanno giustamente un insegnamento di storia della musica, solo una minoranza prevede insegnamenti storico-artistici, gli altri privilegiano quello tecnico del disegno. Possibile che non si possa includere entrambi ovunque?
Se, come ricordano le indicazioni ministeriali del 2012, nel nostro Paese “la storia si manifesta alle nuove generazioni nella straordinaria sedimentazione di civiltà e di società leggibile nelle città …nel paesaggio, nelle migliaia di siti archeologici, nelle collezioni d’arte, negli archivi, nelle manifestazioni tradizionali”, la storia e la storia dell’arte sono complementari e si rafforzano mutualmente: attraverso l’osservazione delle tracce materiali del passato i bambini scoprono la storia, e attraverso la storia imparano a capire, amare e tutelare il patrimonio.
Vogliamo creare le condizioni perché ciò sia realtà?
Giugno 2014,
Primi firmatari:
Rosanna Alaggio (Molise), Francesco Bartolini (Macerata), Paola Bianchi (Aosta), Benedetta Borello (l’Aquila), Beatrice Borghi (Bologna), Edoardo Bressan (Macerata), Angela Carbone (Bari), Carlo Felice Casula (RomaTre), Luca Ciancio (Verona), Bonita Cleri (Urbino), Antonio Corda (Cagliari), Carmela Covato (RomaTre), Cinzia Cremonini (Milano Cattolica), Marco Cuaz (Aosta), Fabrizio D’Avenia (Palermo), Giacomo De Cristofaro (Napoli Suor Orsola Benincasa), Maria Pia Donato (Cagliari), Rolando Dondarini (Bologna), Maria Teresa Fattori (Modena e Reggio Emilia), Paolo Favilli (Genova), M. Vittoria Fiorelli (Napoli Suor Orsola Benincasa), Marina Garbellotti (Verona), Angelo Gaudio (Udine), Patrizia Guarnieri (Firenze), Giacomo Jori (Aosta), Erica J. Mannucci (Milano Bicocca), Dino Mengozzi (Urbino), Maria Grazia Montaldo (Genova), Daniele Montanari (Milano Cattolica), Irma Naso (Torino), Walter Panciera (Padova), Sabina Pavone (Macerata), Lavinia Pinzarrone (Palermo), Elena Riva (Milano Cattolica), Paolo Rosso (Torino), Aurora Savelli (Firenze), Olivetta Schena (Cagliari), Gianluca Soricelli (Molise), Carmela Soru (Cagliari), Luigi Tomassini (Bologna), Mario Tosti (Perugia), Michaela Valente (Molise)
La formazione degli insegnanti e l’Università: un nuovo slancio è possibile?
Non più di due settimane fa, il Ministro dell’Istruzione Stefania Giannini ha ribadito in un’intervista al Corriere Scuola che la priorità delle politiche per l’istruzione deve essere la formazione degli insegnanti. E che ciò che distingue in negativo l’Italia dai paesi avanzati è la scarsa importanza nella preparazione, selezione e aggiornamento dei docenti. Come non essere d’accordo?
Come spesso nel nostro Paese, però, quando si passa dalle dichiarazioni ai fatti, le cose sono più confuse e contraddittorie. La sindrome del moto perpetuo, delle riforme e riformine, contro-riformine, aggiustamenti, decretazione d’urgenza che affligge l’Università italiana, colpisce in modo forse ancor più cronico la scuola, e naturalmente le aree di contatto tra i due mondi come, appunto, la formazione degli insegnanti. Funzione che, diciamolo francamente, l’Università svolge talvolta in modo svogliato, come una fastidiosa appendice, nella non infondata sensazione che, comunque, ogni serio progetto formativo verrà disatteso nel giro di pochi anni dal ministro di turno. E nel sentimento diffuso di futilità, dato che non si risolve –non si vuole risolvere?- la strutturale incongruenza tra percorsi di formazione e sistemi di immissione in ruolo.
Uno dei pochi percorsi che, fino a qualche tempo fa, non soffriva di questa incongruenza erano i corsi di laurea di Scienze della formazione Primaria.
Previsti sin dal 1990 come unico accesso all’insegnamento nella scuola dell’infanzia e primaria, ma attivati solo dal 1998, questi corsi quadriennali abilitanti erano ben lungi dalla perfezione ma avevano almeno due meriti. Il primo era la programmazione, con uno stretto coordinamento tra università e direzioni scolastiche regionali. Il secondo, di ordine culturale, era la compresenza di insegnamenti umanistici e scientifici, organizzati in due distinti percorsi mirati alla preparazione di quelle figure docenti complementari che hanno fatto l’eccellenza del nostro primo ciclo di istruzione. Ciò permetteva una preparazione relativamente approfondita di studenti motivati, con una certa attenzione alla didattica che, pur non priva di problemi e di carenze, ha rappresentato un’innovazione non indifferente. In particolare, era proposta l’integrazione tra conoscenze e esperienza didattica in tirocinio nelle ricerche per la tesi, che potevano trovare così un’interessante specificità.
La sindrome del moto perpetuo, però, non ha risparmiato questi corsi.
Com’è noto, la riforma Gelmini del 2009 ha reintrodotto il maestro unico, con il principale obiettivo di una drastica riduzione della spesa (con relativa consistente riduzione dell’orario scolastico). Parallelamente è intervenuta la ristrutturazione dei corsi universitari di formazione primaria.
I nuovi percorsi quinquennali sono stati attivati nel 2011-12. Presentati a livello ministeriale come un salutare ritorno all’insegnamento disciplinare, la filosofia del “di tutto un po’” che li anima sta già mostrando dei limiti. Del resto, la griglia curricolare è rigida quanto basta per impedire percorsi di ampio respiro ma flessibile abbastanza per permettere scelte in funzione della disponibilità di personale. Per dirla in breve, anche nell’organizzazione di questi corsi l’autonomia universitaria appare un principio burocratico e contabile, più che culturale.
E’ evidente che l’Università ha la sua parte di responsabilità, a parte le eccellenze che per fortuna non mancano. Nella programmazione dei corsi, intanto: calati dall’alto dei regolamenti già di per sé discutibili, i docenti, soprattutto quelli “disciplinari” (ossia che non siano specialisti di materie psico-pedagogiche) li hanno per lo più subiti. Questo in un quadro di crescente burocratizzazione, tabelle e tabelline, sollecitazioni delle quasi mitiche “Parti Interessate” (ma non sempre illuminate), vincoli di bilancio sempre più stringenti anche laddove è in gioco la coerenza dell’offerta formativa… insomma, le cose della nostra università come la conosciamo.
Ma una parte di responsabilità vale sul piano culturale più ampio. Si parla molto di crisi dell’Accademia, di perdita di autorevolezza, di scollamento tra sapere e processi decisionali. Senza illudersi che sia la panacea per una crisi che è per molti versi strutturale, credo che sarebbe utile e necessario che almeno si torni, o per meglio dire si diventi, tutti protagonisti nel dibattito su, e nelle scelte per, la formazione degli insegnanti e i contenuti della scuola di ogni ordine e grado.
Un contributo in questo spirito, mi pare, è la lettera aperta firmata da un consistente gruppo di docenti universitari di discipline (in senso lato) storiche nei corsi di Scienze della formazione primaria –alcuni da tempo impegnati nel campo della didattica della storia e dell’arte o altro, alcuni meno, alcuni per niente, ma qui sta il punto- sulla formazione storica dei futuri insegnanti della scuola primaria. Con la volontà di promuovere ulteriori iniziative e approfondimenti.
Non posso e non voglio parlare per i colleghi. Per quel che interessa, personalmente mi motiva la consapevolezza che mi sono distratta troppo e troppo a lungo ho delegato. Col rischio di sembrare un po’ corporativa, mi interessa riflettere sul ruolo della mia disciplina nel corso di laurea nel quale insegno. Mi preme che corrisponda agli obiettivi formativi dichiarati. Penso che da universitaria la scuola mi deve riguardare, non fosse altro per come si formano i futuri insegnanti. E che finora mi sono illusa a credere che la storia possa essere una riserva collettiva di intelligenza della realtà se non ci occupiamo di questo.
Maria Pia Donato
Cari colleghi,
a proposito di eccellenze (se ne accenna nell’articolo), vogliamo ricordarci ogni tanto che nella scuola i titoli scientifici non sono considerati? E che – tanto per fare un esempio – se il dottorato è (a mala pena) valutato, una figura quale l’assegnista di ricerca o il postdottorando non esiste, legislativamente parlando? Per non parlare di chi deve barcamenarsi tra orari di servizio a scuola e affidi di insegnamenti universitari, che da presidi e colleghi talvolta sono visti come qualcosa persino di punitivo. Finché non si sanerà anche questa situazione discorsi come quello del contributo qui in esame continueranno a sbattere contro un muro (se va bene…) di gomma. Saluti!
Alberto Raffaelli
Tre difetti principali minano il mondo universitario: 1) il radicalismo “benaltrista” che ha come compagno di strada il peggio; 2) la mancanza di memoria; 3) il particolarismo, ovvero il guardare soltanto al proprio orticello o ombelico che sia. Tutti tre questi difetti – che portano all’incapacità di contrastare le derive denunciate indefessamente da Roars – sono presenti in questo appello e nel commento – e desidero dirlo in modo tanto chiaro quanto amichevole.
Mi sento particolarmente interpellato essendo stato il presidente della commissione che ha varato la riforma della formazione degli insegnanti del 2009, che gravitava su tre perni: TFA; lauree magistrali per l’insegnamento della secondaria di primo grado, cui dovevano seguire quelle di secondo grado; laurea magistrale per la formazione primaria, quella di cui si parla qui. L’allora ministro Gelmini sembrò per qualche tempo sostenere il nostro progetto, poi lo abbandonò ai flutti dei mille interessi corporativi e dell’ostilità dei corridoi di viale Trastevere. Così il TFA è stato fatto a pezzi e ridotto a quello scempio che è oggi, fino agli incommentabili PAS (chi vuole rinfrescarsi come questo sia accaduto è rinviato a http://www.ilsussidiario.net/News/Educazione/2011/9/5/SCUOLA-Israel-vi-racconto-il-Vietnam-che-ha-ucciso-la-riforma/204822/). La lauree magistrali avrebbero risolto tanti problemi, primo su tutti quello dell’insegnamento della matematica nelle medie, ma ci ha pensato il ministro Profumo ad affossarle totalmente, approfittando della lentezza delle università nell’implementarle. L’unico spezzone di riforma che è rimasto in piedi ed è funzionante (e anche piuttosto bene) è quello della formazione primaria.
Vogliamo ricordare cos’era prima di questa riforma la laurea in formazione primaria? Una laurea di serie D, a orientamento psicopedagogico per tre quarti, in cui gli insegnanti disciplinari erano una sparuto gruppetto di prestatori d’opera a pochi crediti. Rivendico come una grande conquista aver ampliato il settore disciplinare fin quasi al cinquanta per cento. Le resistenze incontrate non sono state poche (e continuano a non essere spente…) ma va riconosciuto all’allora presidenza del consiglio dei presidi e alla comunità pedagogica tutta un atteggiamento ragionevole, l’aver compreso che una estensione del settore disciplinare significava una riqualificazione della laurea, anche se si doveva pagare il prezzo di una riduzione dei settori prima totalmente imperante. La politica è l’arte del possibile, e chi scrive – da taluni stupidamente additato come un estremista – ritiene di aver agito efficacemente in tal senso. Certo, personalmente avrei espanso ulteriormente l’area disciplinare, ma cercare di ottenere di più significava restare al passato, o peggio. Per cui, per la mia parte, ho lavorato per arginare innumerevoli assurde richieste di chi voleva più spazio non per la propria disciplina in senso generale, ma per la propria specialità disciplinare, anche ombelicale.
Qui stiamo parlando di una laurea per formare maestri per la nostra scassatissima scuola primaria, dove il principio da salvare dovrebbe essere insegnare a “scrivere, leggere e far di conto”, sia pure, ovviamente, in un senso pedagogico-didattico modernamente inteso. La matematica è passata da 8 a 20 crediti. Se gli insegnanti del settore avessero pensato di “approfittare” di tale spazio per inserire le loro specialità, magari con un corso di teoria dei numeri, o di teoria dei gruppi o di geometria algebrica, sarebbe stato un disastro. 20 crediti non per “allargarsi”, ma per pensare con profondità e audacia un modo di offrire ai futuri maestri una conoscenza dei grandi temi su cui gravita il pensiero matematico e strumenti per costruire nei bambini il modo di pensare matematico. Mi permetto la faccia tosta di citare un libro su cui con Ana Millán Gasca abbiamo lavorato per anni per rispondere a questa esigenza, “Pensare in matematica” appunto.
Leggo con sconforto nel documento che l’aumento da 8 al 16 crediti dell’area storico-geografica (che so bene quanto sia costato!) è «solo apparente». Perché mai? Perché l’area resta «debolissima»… Prima era inesistente, ma nessuno fiatava, ora che è “debolissima” si protesta. Per ottenere cosa? Il risultato “estremista” di allargare ulteriormente l’area disciplinare a discapito di quella psico-pedagogica che già, in tante sue componenti si sente menomata? Quale potrebbe essere il risultato, lo lascio immaginare al lettore. Resta debolissima perché si «inopportunamente annullata la distinzione tra scuola dell’infanzia e primaria», e questo non è solo discutibile ma non c’entra nulla con l’indebolimento: i crediti sono comunque raddoppiati. Ma dove salta fuori il vero nodo è quando si ammette che «pochissime università hanno organizzato corsi integrati dall’antichità al contemporaneo», cioè non si è fatto quello che si doveva fare, sul modello di quel che invece si è fatto altrove. Troppi «insegnamenti sono a scelta dello studente, nella maggior parte si impone questo o quello»: e perché mai si è così poco responsabili da imporre questo o quello? Di chi è la responsabilità se non delle visioni corporative e particolariste del settore disciplinare, dei «sospetti e competizioni tra settori disciplinari e tra dipartimenti universitari che spingono troppo spesso a soluzioni di ripiego», come ben si denuncia? Visioni corporative che hanno eluso il duro ma remunerativo compito di costruire corsi integrati – dei “pensare la storia” che costruiscano nei futuri maestri una cultura storica generale, hanno preferito spingere per avere il proprio corsetto da 4 crediti (immaginiamo) di storia di questo o di quello, della nostra specialità. Ma se queste sono le colpe, bisognava che l’appello fosse esclusivamente rivolto alla comunità di riferimento affinché si svegli, si mostri consapevole, si rimbocchi le maniche e cerchi di approfittare costruttivamente dei nuovi spazi aperti. Un atteggiamento costruttivo può anche porre le premesse per ulteriori miglioramenti.
Quale è il senso di rivolgersi all’“esterno” denunciando la riforma come se fosse qualcosa di peggiore a quel che c’era prima? Chi dovrebbe risolvere il problema? Il ministero? Scappa da ridere. Si troverà una bella soluzione pronta dietro l’angolo. La offriranno forze influenti pronte a dire che i “disciplinaristi” sono i soliti radicali inconcludenti, che chiedono sempre di più senza combinare nulla. Si sarà dato un bel contributo per sfasciare anche il terzo perno della riforma del 2009. Buon divertimento. La storia della scuola italiana è un cimitero di trionfi del “benaltrismo”.
Giorgio Israel
Ringraziando i colleghi per i loro spunti di discussione, reagisco a titolo personale ad alcuni punti sollevati da Giorgio Israel.
Circa il metodo, per prima cosa. La comunità di riferimento per un dibattito pubblico sulla formazione degli insegnanti è quella accademica nel suo complesso, oltre che i settori scientifici, e tanto più per corsi ai quali si affidano (in teoria) compiti di così generale interesse. Del resto, le decisioni sull’offerta formativa non dipendono da un singolo settore disciplinare, ma coinvolgono l’insieme delle istanze universitarie, fino al Ministero, per esempio nelle decisioni sugli insegnamenti (e i docenti) caratterizzanti, di base e integrativi, l’equilibrio tra le varie attività, fino a spinosi aspetti come il reclutamento o l’attivazione di contratti. La qualità dipende da tuti. Capisco lo sconforto di chi ha avuto un ruolo importate e costruttivo nella riforma -e dunque a maggior titolo lo ringrazio per l’intervento-, e concordo che l’ottimo è nemico del bene, ma forse non serve considerare tardivi “benaltristi” o smemorati chi indica criticità irrisolte, quali che siano (state) le responsabilità.
Nel merito, poi. La domanda è: i corsi di scienze della formazione primaria raggiungono davvero gli obiettivi formativi dichiarati? Mettiamo in grado i futuri insegnanti di svolgere i molti, crescenti compiti che sono loro richiesti?
Si potrebbe rispondere che il problema non è nell’università, ma nella scuola. Che si dovrebbe tornare semplicemente a leggere, scrivere e far di conto, seppur “modernamente intesi”. Dopo tutto, era l’obiettivo implicito della riforma Gelmini. Tuttavia non è quello che prevedono le indicazioni ministeriali, né quello che socialmente si attende dalla scuola primaria, e neanche quello che credo sia auspicabile in una democrazia moderna. Perché in fin dei conti il problema della scuola è un problema di democrazia, credo che siamo d’accordo su questo. Non dovrebbe interessarci verificare la distanza tra enunciazioni e realtà?
Si potrebbe pure discutere del fatto che lo iato tra il dire e il fare, tra richieste delle parti istituzionali e sociali e possibilità di soddisfarle, è aggravato dall’autonomia scolastica nella forma che ha assunto in Italia. Se vogliamo rivederla, sono la prima a rispondere all’appello.
Nello specifico, è come si è fatta/si fa la “riqualificazione disciplinare” dei corsi di sfp che crea problema, ed è ciò su cui si interrogano dei docenti disciplinari (che prima “non fiatavano”, e che purtroppo restano per lo più “prestatori d’opera”, ma appunto…). Nessuno ha la soluzione in tasca, ma temo non sia sufficiente dire che il sistema è buono e la realizzazione cattiva, come pure in parte è.
Una cosa è certa: occorre decidere una volta per sempre se questi corsi sono di serie B o no. Se non lo sono, allora è compito di tutti interrogarsi e agire.
M.P.Donato
La risposta è assai semplice. il tentativo di migliorare le cose deve fare i conti con tendenze diverse, anche opposte. Non è una dinamica lineare. L’errore più grande è cercare “la” soluzione definitiva, per giunta “chiedendola” agli altri, e non conquistandosela passo dopo passo sfruttando tutti gli spazi aperti, perché da questi “altri” si rischia di ottenere il contrario di quel che si vuole. Non vedo da parte di M. P. Donato una valutazione critica circa le insufficienze del settore disciplinare di riferimento nell’approfittare degli spazi aperti, invece di limitarsi a deplorare quel che non funziona (e che è fin troppo evidente). L’osservazione circa le indicazioni nazionali delle primarie è sacrosanta ed è rivolta proprio alla persona “sbagliata” (o “giusta”, secondo i punti di vista…). Questo è il tipico esempio! I condizionamenti imposti dalla procedura costrinsero il ministro Gelmini ad accettare delle indicazioni nazionali per i licei di marca fortemente disciplinare, e in pieno contrasto con il taglio delle cattedre – tipico esempio di un conflitto di linee diverse – perché fu una nostra commissione a varare quelle Indicazioni, che rivendico come una conquista, anche se alcuni scervellati “benaltristi” chiedono di rivederle. Otterranno quel che si è ottenuto con le Indicazioni per la primaria, che ci furono tolte di mano, sciogliendo la commissione, e che sono quel che sono: il trionfo del più squallido e verboso pedagoghese. Ma non solo non si è visto alcun intervento o appoggio dal fronte disciplinare per tentare di contrastare quelle Indicazioni. Posso ben dire che, anche dal settore geografico, è venuto un “aiuto” in senso contrario. Ha mai visto la collega Donato che manuali di geografia circolano per le primarie? Ometto commenti per non essere troppo duro. Dirò solo che sono quei manuali che “chiedono” a gran voce le Indicazioni nazionali che a lei giustamente non piacciono! E allora di che lamentarsi se le cose vanno in un certo modo, visto che una parte consistente della comunità disciplinare di riferimento “chiede” e “chiede” e poi porta acqua al mulino del peggiore didattichese-pedagoghese? Se invece di cercare di ottenere nell’ambito della formazione primaria il corsetto che non viene dato a livello nazionale – il corsetto della propria specialità – ci si fosse rimboccati le maniche per sfruttare le (per carità, scarse e insufficienti) opportunità che si erano aperte, forse oggi sarebbero più forti gli argomenti per andare avanti. Sconforto? Diciamo piuttosto, disillusione. Il mondo universitario ha il difetto di guardarsi l’ombelico e di avere uno scarsissimo senso di prospettiva, e per questo perde tutte le battaglie ed è ridotto com’è. Fu vano far capire quanto fossero importanti le lauree per la formazione degli insegnanti per la secondaria (di primo e secondo grado). Le facoltà, invece di implementarle subito, si arrovellarono in miserandi dibattiti circa il “troppo” che si chiedeva loro come impegno. Venne il ministro Profumo e, prontamente, in sintonia con la dirigenza ministeriale che le vedeva come fumo negli occhi, le affossò definitivamente. Bella conquista…