Il 17 aprile 2012, con un memorandum del suo comitato consultivo,  la biblioteca dell’università di Harvard si è dichiarata incapace di sostenere i costi degli abbonamenti alle riviste scientifiche più importanti e ha invitato i suoi docenti a passare all’accesso aperto.

“La letteratura ad accesso aperto (Open Access, OA) è digitale, online, gratuita e libera da buona parte delle restrizioni dettate dalle licenze per i diritti di sfruttamento commerciale. Queste condizioni sono possibili grazie a Internet e al consenso dell’autore o del titolare dei diritti d’autore”. Harvard, dunque, consiglia ai suoi docenti di abbandonare le riviste a pagamento delle multinazionali dell’editoria scientifica per pubblicare su riviste on-line ad accesso gratuito, o almeno disposte a permettere che i loro  articoli siano depositati nel suo archivio elettronico istituzionale e liberamente accessibile.

Come mai una delle università più ricche e famose del mondo è stata costretta a una simile dichiarazione?

Nella seconda metà del secolo scorso, il marketing dell’Institute for Scientific Information (ora Thomson-Reuters Web of Science) fece credere che la presenza di una rivista nel suo catalogo  fosse un marchio di “scientificità” e che un indice bibliometrico detto fattore d’impatto, calcolato sul suo database di citazioni parziale e privato, fosse sufficiente per stabilirne il valore. Così riviste lette in realtà da pochissimi specialisti diventarono opere a cui nessuna biblioteca universitaria poteva rinunciare. Questo le rese molto attraenti per le multinazionali dell’editoria scientifica che, dopo averle acquistate e concentrate in pochi mani, alzarono i loro prezzi senza controllo, spuntando margini di profitto fuori di ogni proporzione. Il fenomeno, noto come crisi dei prezzi dei periodici, è ormai molto conosciuto e studiato: il testo di J-C. Guédon, che lo spiega in modo approfondito, tradotto in italiano nel 2004, è liberamente disponibile on-line; e altrettanto facilmente è reperibile la conferenza tenuta da Lawrence Lessig al Cern nell’aprile 2011, che lo denuncia con chiarezza.

La dichiarazione di Harvard è l’esito delle politiche di prezzo praticate da un oligopolio durato decenni – e tanto più ingiustificato in quanto i ricercatori, finanziati con denaro pubblico, cedono gratis il loro copyright agli editori e altrettanto gratuitamente fungono da revisori paritari, per poi far spendere altro denaro pubblico per ricomprare le riviste a cui hanno contribuito gratis. Fuori d’Italia ci si sta rendendo conto che questa situazione è intollerabile. Il 2 maggio 2012 il ministro conservatore David Willetts ha annunciato, nell’incontro annuale dell’associazione degli editori britannici, il passaggio all’accesso aperto di tutta le ricerca pubblicamente finanziata. Poco prima, la “primavera accademica”, un boicottaggio ai danni di Elsevier, la più potente  multinazionale dell’editoria scientifica, ha costretto al ritiro del Reseach Works Act, che, presentato al Congresso americano nel dicembre 2011, si proponeva di proibire il mandato dell’accesso aperto per la ricerca sostenuta da denaro pubblico.

Fuori d’Italia è ormai politicamente chiaro che il marketing dell’ISI ha prodotto oligopoli talmente rapaci da dissestare anche il bilancio della biblioteca di Harvard. In un periodo di crisi economica e di tagli feroci all’università, un processo ragionevole di valutazione della ricerca dovrebbe far tesoro dell’esperienza altrui, per evitare di favorire o di costruire ex novo simili oligopoli, soprattutto dove al momento non esistono.  Ma l’Anvur, l’ente nominato dal governo Berlusconi per valutare la nostra ricerca, ha imboccato tutt’altra strada.

Fino a oggi le scienze umane e sociali sono state toccate solo indirettamente dalla crisi dei prezzi dei periodici, sia perché nessun ISI è riuscito ad affermarvi il suo marketing, sia per il loro pluralismo, che mal si riconduce sotto singole linee di ricerca prevalenti. Ora, però, l’Anvur vorrebbe imporre d’autorità quanto non è stato creato dal mercato, obbligando i valutatori dei vari settori, nominati per via gerarchica, a stilare liste di riviste elette, anch’esse gerarchiche. L’espressione “imposizione d’autorità” non è eccessiva: quando la Società italiana di filosofia teoretica (Sifit) ha rifiutato, con argomenti che meritavano perlomeno una confutazione, di presentare una sua lista, la lista le è stata imposta.  E un’analoga autorità si cela dietro i verdetti di referee ignoti nominati da valutatori a rischio di conflitto d’interessi. Come in un romanzo di Kafka, i ricercatori italiani sono giudicati in processi segreti e da collegi senza volto designati da una delle parti in causa.

Antonio Banfi e Luca Illetterati hanno criticato l’ideologia delle liste con ottimi argomenti; io stessa, con Brunella Casalini e da sola, ho analizzato la lista di scienze politiche e parte di quella di filosofia per metterne in luce le arretratezze e le incongruenze. Esaminando il caso di Fabrizio Serra, Claudio Giunta ha mostrato che strategie editoriali volte a imporre prezzi oligopolistici sono in atto anche in Italia. Al di là dei particolari, però, c’è una questione generale,  costituzionale e politica: stiamo riconoscendo a un’oligarchia di docenti nominati, senza trasparenza, direttamente o indirettamente dal governo, il diritto di stabilire che cosa è scientifico e che cosa no.

La nostra costituzione, con il suo articolo 33 che tutela la libertà dell’arte e della scienza, è stata scritta da chi aveva fatto esperienza della scienza di stato. Scienza di stato era il lysenkoismo, era la “fisica tedesca”; ed era anche la dichiarazione complice dell’Unione matematica italiana, la quale nel 1938 si preoccupava che “nessuna delle cattedre di matematica rimaste vacanti in seguito ai provvedimenti per l’integrità della razza” venisse “sottratta alle discipline matematiche”. Questi esempi non devono turbare: imporre d’autorità  liste di riviste per stabilire che cosa è scientifico e che cosa no è un’operazione fascista.  Non lo sarebbe stata se le Società di studi avessero avuto facoltà di indicare solo dei criteri generali per valutare, di volta in volta, la sede di pubblicazione del testo sottoposto all’Anvur, in modo da non estromettere a priori tutte le riviste nuove: ma la vicenda della Sifit mostra che questa facoltà è stata loro negata.

In questo momento la vita della cultura si sta spostando sulla rete.  Attivamente promossa dalla Crui e catalogata in database internazionali come il Doaj, la pubblicazione ad accesso aperto sta sperimentando sia un dibattito scientifico più vicino all’ideale dell’uso pubblico della ragione, perché privo di barriere proprietarie, sia forme alternative di revisione paritaria, successive alla pubblicazione e pubbliche, anziché anteriori e segrete. In Italia le liste dell’Anvur soffocheranno questo fermento. Il loro messaggio, specialmente nel settore delle scienze politiche, è chiaro: anche se oggi un giovane studioso può facilmente ottenere gli strumenti e le competenze per accedere al pubblico senza la mediazione editoriale, tutto il suo lavoro non conterà nulla. “Pubblicazione” è solo quando sta rinchiuso dietro i cancelli degli editori commerciali più accreditati o gode del favore di qualche professore potente. L’Anvur regala ai poteri morenti dell’età della stampa una controriforma che rischia di condannare quanto resta della ricerca italiana all’irrilevanza e alla sudditanza, e quanto resta della società civile a un’ignoranza insopportabile perché fondata sul divieto di leggere testi a cui avrebbe diritto ad accedere in quanto pagati con le sue imposte.

In questa situazione, le società di studi hanno a disposizione solo due risposte onorevoli: o convincere l’Anvur a restituire alle comunità degli studiosi il diritto di stabilire che cosa  ha dignità scientifica e che cosa no, o imboccare la via del ricorso giudiziario.

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15 Commenti

  1. Nella parte propositiva è quanto ho sostenuto nel mio intervento in occasione dell’incontro “Storici e editori a confronto” svoltosi a Roma il 19 aprile scorso. E quanto sosterrò in un prossimo incontro con lo storico Robert Darnton, che, prima a Pricenton e poi a Harvard, è stato uno dei maggiori propugnatori dell’accesso libero e della libera disseminazione.
    Nella parte polemica ognuno può anche pensare liberamente che i comizi a cinque stelle siano uso pubblico della ragione. Ma la ricerca è un’altra cosa. E’ una cosa che ha dei costi. Ha dei costi fare buoni prodotti e ha dei costi creare buoni strumenti di lavoro. Costa avere infrastrutture, riempirle di contenuti e mantenerle efficienti. Ed è un tipo di attività in cui quello che dice uno non ha lo stesso peso di quello che dice un altro. Ma naturalmente possiamo anche trasformarla in un mondo in cui tutti i gatti sono bigi e tutte le riviste pari sono. Per fortuna molte società scientifiche e molti studiosi non solo non pensano questo, ma ritengono di aver dato e di poter continuare a dare un contributo essenziale alla valutazione, anche delle riviste. D’altra parte, dal lontano 1970, dopo aver sentito dare del “fascista” al venditore di merendine nel cortile della liceo perché aveva aumentato il prezzo del bombolone di dieci o fors’anche di quindici lire, non mi sorprendo più di nulla.
    Comunque, lasciando i complotti giudaico-massonici della plutocrazia internazionale a chi è appassionato di scenari da apocalissi, la cosa senz’altro da ritenere positivamente è la seguente: se il sistema della ricerca ha bisogno – come ha bisogno vitale – di utilizzare liberamente certi canali di diffusione resi disponibili dalle tecnologie esistenti (e da quelle del futuro che ancora non immaginiamo), non è possibile che un organismo governativo decida implicitamente – con i suoi standard di valutazione – se quei canali vadano seguiti o no, trasformando la ricerca in un destinatario di disposizioni burocratiche (cosa che peraltro avviene già in mille altri modi e forme). In altre parole, il problema non è “occupy Wall Street”, ma parlare di valutazione (e di ricerca) seriamente.

  2. Anche i comizi a cinque stelle potrebbero essere uso pubblico della ragione, se contengono ragionamenti. Di certo non sono uso pubblico della ragione gli articoli nascosti in riviste ad accesso chiuso lette da quattro gatti, ma preferite dagli autori solo perché stanno in un elenco raccomandato dal governo. Uno studioso che vuol parlare al pubblico dei lettori – e non semplicemente avanzare nell’organigramma, facendo della sua ragione un uso soltanto privato – va dove ci sono i lettori.

    La sezione riviste della commissione Crui per l’accesso aperto si è occupata anche del loro costo, proponendo un modello “istitutions pay” molto simile a quello di Scoap3 (http://scoap3.org/).

    E’ vero che di notte tutti i gatti sono bigi. Me l’ha spiegato benissimo un collega, quando gli ho chiesto perché non depositava mai i suoi articoli, pubblicati presso prestigiose riviste ad accessi chiuso, nell’archivio istituzionale dell’ateneo, rispondendomi così: “Ma perché io sulle riviste scrivo tante sciocchezze!”

    Quanto all’uso storico dell’aggettivo fascista per i venditori di merendine, riconosco la mia ignoranza. Nel 1970 avevo sei anni.

  3. Mi sembra che confondere troppi piani diversi non sia utile. Discutiamo, perché in Italia non lo si fa abbastanza, del tema dell’open access e della diffusione del sapere scientifico attrarso canali non readers pay. Senza dimenticare che questo significa avere alle spalle un sistema di finanziamento della ricerca efficiente (dove trovo i soldi per Plos?).
    Separiamolo dal tema della classificazione delle riviste: che è una operazione che si fa in giro per il mondo. Che suscita polemiche inevitabili, ma che è attività del tutto legittima se esercitata da un istituzione delegata alla valutazione.
    Discutiamo separatamente del fatto l’ANVUR è mal disegnata istituzionalmente (agenzia governativa e non indipendente.E che sarebbe auspicabile un suo pronto riordino.
    Consideriamo poi che l’ANVUR sta facendo le classifiche con poco affidabili procedure bibliometriche fai-da-te nelle aree scientifiche e con opache procedure non bibliometriche nelle SSH. Nelle SSH questo modo di procedere sta dando fiato a tutti gli opportunismi disciplinari del caso. Ed anche probabilmente a qualche regolamento dei conti interno alle discipline. Che altre strade sarebbero state possibili ed auspicabili: adottare, come scrivo da tempo, classifiche fatte in altri paesi. Che avrebbero avuto l’effetto di eliminare l’autoreferenzialità che in molti settori SSH al riparo dalla scienza internazionale si riproduce all’interno dei GEV.
    Che tutto questo sia legato ad un piano per contrastare la diffusione dell’open access mi sembra francamente incredibile.
    Affrontare i problemi uno alla volta rende a mio avviso la critica molto più forte.

    • Sono d’accordo sull’opportunità di tenere i piani separati. Per quanto riguarda l’Open Access, nonostante le raccomandazioni a livello di Commissione, di EUA, di ERC, l’Italia è uno dei pochi paesi a non aver formulato una politica chiara sull’accesso alla ricerca finanziata con fondi pubblici, sia pubblicazioni che dati grezzi. Quel poco che c’è è stato fatto dal basso e con grandissima fatica, senza mezzi o finanziamenti.
      Quanto ai soldi per pubblicare con PloS (che in molti casi non sono molti di più di quelli che si devono dare ad Elsevier per pubblicare articoli con foto o grafici),
      be’ forse si potrebbero prendere dagli abbonamenti a Elsevier…

    • Questo significa cambiare modello di finanziamento: dalle biblioteche ai ricercatori. E cambiare modello di business per le imprese editoriali: da readers pay a authors pay. Tutto molto complicato… io ho letto un po’ ma confesso di non avere le idee chiare.

  4. Non è purtroppo “un piano” contro l’open access. “Avere un piano” avrebbe significato essere consapevoli del fatto che un’amplissima maggioranza delle università italiane ha aderito alla dichiarazione di Berlino già nel 2004, conoscere il Doaj e voler reprimere l’open access per difendere le proprie rendite di posizione.

    La penalizzazione dell’open access, come di tutta la sperimentazione nel campo della pubblicazione che è pur utile compiere nel passaggio dalla stampa alla rete, è però un effetto della politica delle liste, quando è compiuta nel modo in cui Alberto Baccini ha sintetizzato qui sopra. Per reprimere gli innovatori non occorre avere un disegno intelligente.

    La commissione open access della Crui, ormai parecchio tempo fa, ha proposto delle linee guida sulle riviste ad accesso aperto, visibili qui
    http://www.crui.it/HomePage.aspx?ref=1789: la questione del passaggio dal modello readers pay a quello authors pay è superata proponendo la terza via dell’institutions pay: meglio tenersi i diritti e usare il denaro pubblico per finanziare riviste istituzionali ad accesso aperto piuttosto che regalare il copyright agli editori commerciali e ricomprare i propri lavori a prezzi di oligopolio.

    Questo modello è stato proposto, di recente, anche da Kathleen Fitzpatrick, che ha scritto un libro molto noto (http://opinionator.blogs.nytimes.com/2012/01/09/the-digital-humanities-and-the-transcending-of-mortality/?scp=1&sq=digital%20humanities&st=cse) sulla crisi della comunicazione nel settore delle scienze umane. Il libro è stato pubblicato ad accesso aperto e con una revisione paritaria aperta a cui si è aggiunta quella tradizionale quando il testo è stato trasformato in volume cartaceo: se seguite il link alla mia sintesi in italiano qui sopra vi basta un altro click per accedere direttamente all’edizione integrale inglese. E’ un testo scritto su WordPress con il plugin Commentpress: le indicazioni dei revisori sono pubbliche e spesso stimolano discussioni utili per l’autrice e sviluppi interessanti per chi legge.

    Roars gira su WordPress: non serve dunque dirvi quanto costa :-)

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