Un editoriale del Corriere della Sera del 9 maggio 2012, a firma di Federico Fubini, suggerisce alle università di pubblicare sul loro sito dati sui redditi dei loro ex allievi a due anni e a cinque anni dalla laurea. Queste informazioni consentirebbero ai futuri immatricolati di scegliere i corsi di laurea (e forse anche le sedi universitarie) “più utili”. Le scelte degli studenti così indirizzate porterebbero forse anche alla chiusura dei corsi di laurea “dalle denominazioni bizzarre e vuote, inventati spesso per distribuire cattedre  a questo o a quello, vere fabbriche del 35% di giovani disoccupati in Italia.

Osserviamo prima di tutto che non sarebbe facile per una università ottenere informazioni affidabili sui redditi dei propri laureati. Le indagini dell’ISTAT sull’occupazione dei laureati dimostrano che il tasso di risposta dei laureati a questionari inviati per posta ai vecchi indirizzi forniti al momento dell’immatricolazione, è sempre molto basso. Il campione così selezionato tende a non contenere, ad esempio, chi ha cambiato indirizzo per trovare lavoro o un lavoro migliore.  Inoltre l’indagine sarebbe affidata a soggetti (le università) che sono interessate a dimostrare l’utilità delle proprie lauree.

E’ vero però che il Ministero dell’Istruzione, con poco sforzo, potrebbe ottenere e fornire al pubblico in forma collettiva dati affidabili sui redditi e sulla occupazione dei laureati recenti di tutte le università. Infatti, partire dagli immatricolati dell’anno accademico 2003-04 gli studenti universitari italiani sono inseriti in una banca dati denominata “anagrafe degli studenti” che registra il loro progresso negli studi e l’eventuale laurea conseguita. Ogni studente è identificato attraverso il codice fiscale. Per ottenere dati sui redditi e sull’impiego dei laureati è sufficiente a questo punto interrogare, con riferimento ai codici fiscali dei laureati, la banca dati  dell’Agenzia delle Entrate, per ottenere dati collettivi nell’assoluto rispetto della “privacy” degli individui coinvolti.

Un’indagine nazionale completa come quella che ho descritto permetterebbe di evitare conclusioni sbagliate, che identifichino, ad esempio, il valore dell’istruzione universitaria con il reddito aggiuntivo ad essa associata. Possiamo immaginare che si troverebbero differenze di reddito tra i laureati in “Scienze della formazione primaria” (la laurea necessaria per fare i maestri elementari) e i laureati in “Ingegneria gestionale”. Ma questo non dovrebbe comportare la chiusura dei corsi di laurea per maestri. Potrebbe anche essere che i redditi degli ingegneri risultino superiori a quelli dei laureati in fisica. Ma sappiamo bene che senza una scienza fisica di alto livello non riusciremmo a formare ingegneri competenti e creativi.

In altre parole solo analizzando, nella sua interezza, ed in tutte le sue implicazioni, la relazione tra tipologia e luogo della laurea, e reddito dei laureati, possiamo evitare di trarre conclusioni affrettate, che, riflettano, ad esempio, l’interesse di alcune sedi universitarie, protagoniste e assieme oggetto, dell’indagine.

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5 Commenti

    • Un giornalista non può conoscere tutte le realtà di cui scrive. Sono le sue fonti che debbono essere criticate. In questo caso poi il giornalista si è limitato ad auspicare una maggiore informazione a disposizione degli immatricolati. Ottima idea purché l’informazione sia completa ed imparziale. Ho cercato di scrivere un articolo “educativo” anche per i giornalisti e non eccessivamente polemico. Con gli scontri ed argomenti “ad personam” nello stile di NfA non si arriva a nulla.

    • Fair enough. Ma la storia recente complessiva (il “track record”) del giornalismo italiano sull’argomento Università e Ricerca è più che biasimevole. Inoltre, nella fattispecie, fonti o non fonti, il nostro giornalista ha fatto una valutazione di merito sul tipo di “informazione” da pubblicare, il tutto condito dalla solita solfa sui “corsi inutili” e sulle “misure economiciste” da mettere in atto.. Io personalmente ne ho le tasche piene.

  1. La pratica di considerare i redditi degli “alumni” come indicatore del “valore” di un titolo di studio è in realtà un esercizio diffuso solo per quanto riguarda le Business School, che devono vendere sul mercato i loro corsi di MBA [basando la valutazione sul ROI – Return on Investment].

    Il giornalista del Corriere compie uno dei tanti esercizi di informazione povera o distorta quando sembra alludere al fatto che la sua proposta sia “ovvia” o “doverosa” per “verificare il valore dei titoli di studio”. In realtà l’obiettivo è, come sempre ideologico, e cioè quello di promuovere certi modi di vedere l’istruzione e di informare le politiche nazionali dell’istruzione.

    Beninteso, io non voglio certo “impedire” a nessuno di esprimere le sue idee o le sue proposte politiche, ma sono irritato dal vedere (1) mistificazioni della reale situazione, e delle reali politiche in vigore altrove, e (2) la proposizione di indirizzi di un solo tenore, molto “estremisti” nel loro contenuto, e in ogni caso abbracciati (se lo fossero) da minoranze di esperti e di politici.

    In quale Paese si fa, o si considera seriamente di fare, ciò che si propone – anche nella versione “ripulita” da parte del Professore qui sopra?

    • Nessun paese dispone di uno strumento paragonabile alla nostra anagrafe degli studenti. L’idea di utilizzare questa banca dati assieme alla banca dati dell’irpef e dell’inps per studiare redditi e (dis)occupazione dei laureati non è mia ma del comitato nazionale per la valutazione del sistema universitario (oggi sostituito dall’anvur) che ha promosso la creazione della anagrafe degli studenti (io non ne facevo più parte). Informazioni e dati precisi e imparziali sono sempre utili. Anche a chi non identifica il valore del titolo di studio con la capacità di assicurare guadagni. Il mio pezzo si proponeva anche di ricordare all’ANVUR che i suoi compiti non consistono solo nel presiedere al concorso di bellezza tra professori denominato VQR, e che potrebbe, ad esempio, riprendere questo vecchio progetto del CNVSU.

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