E’ appena stato presentato in parlamento il “Rapporto Annuale 2015” dell’ISTAT. Prima di commentarne il contenuto, appare opportuno considerare il Rapporto nel contesto scientifico, istituzionale e culturale in cui si colloca. A partire dalla sua istituzione, all’ISTAT spetta il compito cruciale di produrre statistiche caratterizzate da piena indipendenza; non a caso è stato attribuito all’Istituto l’appellativo di “magistratura del dato”. Un compito dunque da assolvere documentando attraverso i dati i vari aspetti della vita nazionale pubblicando numeri e tabelle. L’assunzione, quanto meno implicita, era che l’analisi dei dati fosse affidata ad altri, quasi a rimarcare la distanza dell’ISTAT dal “contagio” del dibattito e del confronto su tematiche sociali che, inesorabilmente, vanno a debordare nell’arengo politico. Quando l’ISTAT è stato trasformato da ente alle dipendenze della presidenza del Consiglio dei ministri ad ente di ricerca, il suo raggio di azione è stato esteso all’analisi dei dati. Chi produce le informazioni è nelle migliori condizioni per interpretarle – e un ente di ricerca ha i requisiti per farlo nel pieno rispetto delle regole della comunità scientifica che prevedono indipendenza di giudizio e trasparenza nelle procedure. Dunque l’ingresso nel comparto della ricerca andava considerato come una scelta ricca di implicazioni e impegnativa per l’ente. Allorché, sotto la presidenza di Guido M. Rey, venne predisposto il primo Rapporto annuale, vi furono vari scetticismi sulla “uscita in mare” dell’ISTAT, ma la sfida fu superata ed oggi il paese ha a disposizione il Rapporto annuale che, a tutti gli effetti, può essere considerato un libro di ricerca che fa bene al paese. Ora starà dunque ai cittadini, alle istituzioni, alle organizzazioni pubbliche e private, farne un uso intelligente e oculato.
L’originalità di questo Rapporto, il 23esimo della serie, risiede nella lettura del paese-Italia attraverso la chiave dei “sistemi locali”. Tali sistemi, 611 in tutto, sono costruiti sulla base degli spostamenti quotidiani dei cittadini e permettono di elaborare una geografia che presenta le informazioni con un riferimento territoriale più vicino ai luoghi dove operano persone, imprese, istituzioni. Va rimarcato che questo tipo di analisi è stato reso possibile dall’investimento in ricerca e nella raccolta dei dati che l’ISTAT ha effettuato nel corso degli ultimi anni (ciò ad ulteriore conferma che la ricerca richiede tempi non brevi e continui investimenti). Un interessante aspetto del Rapporto è rappresentato dal fatto che non si ferma ai tradizionali indicatori economici e sociali, ma si avventura nella misura degli aspetti della vita sociale ed economica con un ampio respiro, recuperando, ove possibile, l’approccio del progetto ISTAT-CNEL sul benessere equo e sostenibile (BES) (https://www.roars.it/la-poverta-materiale-ed-etico-morale-in-italia-il-pil-di-nuovo-sugli-altari/) che ancora non è in grado di raggiungere l’ambizioso obiettivo del “superamento del Pil” o comunque del suo affiancamento. Lo sforzo analitico è quello della caratterizzazione dei sistemi locali sulla base di svariati criteri; uno di questi è quello relativo al patrimonio artistico e naturale, alla cultura ed alla tradizione locale, elementi che rispecchiano la vocazione culturale e attrattiva dei luoghi. Quest’ultima è stata definita con riferimento non soltanto del patrimonio storico e monumentale e quello paesaggistico, ma anche alle risorse agro-alimentari e dell’artigianato artistico, nonché dell’industria culturale e creativa. L’analisi di queste dimensioni della cultura e della tradizione italiana ha permesso di individuare cinque gruppi di sistemi.
Il primo, denominato la grande bellezza, identifica i sistemi locali che vantano un valore elevato, e ben coniugato, di entrambi gli aspetti considerati: sono sistemi ricchi sia di patrimonio artistico e paesaggistico sia di un tessuto produttivo a connotazione culturale. Si tratta di 70 sistemi locali su 611.
Il secondo, la potenzialità del patrimonio, si compone di 138 sistemi locali caratterizzati da valori consistenti del patrimonio culturale e paesaggistico, ma in cui è carente la componente formativa e produttiva.
Il terzo, della imprenditorialità culturale, all’opposto del gruppo precedente, presenta un robusto tessuto produttivo/culturale, pur in presenza di un limitato patrimonio culturale e paesaggistico.
Il quarto, il volano del turismo, pur vantando aree turistiche altamente attrattive, è rappresentato da sistemi locali con valori medio-bassi sia di dotazioni del patrimonio culturale, sia di tessuto produttivo.
Il quinto è quello della periferia culturale (71 sistemi), in prevalenza in Calabria, Sicilia e Sardegna.
Tra i molteplici temi trattati nel Rapporto, quelli dell’innovazione e della formazione superiore meritano una particolare attenzione.
Nel Rapporto si legge che “Le imprese italiane mostrano una modesta propensione all’investimento in ricerca e sviluppo (lo 0,7 per cento del Pil a fronte di una media Ue dell’1,3 per cento), ma si collocano sopra la media europea in termini di propensione all’innovazione, più aderente alle caratteristiche delle nostre imprese (42 per cento di innovatrici rispetto a 36 per l’Ue). Ciò si traduce in un numero di registrazioni di marchi e di prodotti di design industriale tra i più elevati al mondo. L’intensità brevettuale del paese è inferiore a quella media europea (circa 75 brevetti per milione di abitanti contro 111 per l’Ue). Tuttavia il rapporto tra numero di brevetti e spesa per R&S è tra i più alto dell’Ue.” Il quadro fornito, sebbene riposi su dati inconfutabili, appare eccessivamente ottimistico e, quanto meno, incompleto: si accetta l’assunto che la competitività del sistema produttivo italiano debba essere sostanzialmente confinata ad innovazioni estetiche, organizzative, di marketing (coperte da marchi e design) accettando la prospettiva – ineludibile – di rinunciare a puntare con decisione sulle conoscenze scientifiche e tecniche di punta (brevetti di invenzione industriale). Un’analisi più completa avrebbe dovuto gettare una luce sulla situazione ricerca del settore pubblico che, ormai da anni, è in grande sofferenza per la riduzione dei finanziamenti pubblici alle università e agli enti di ricerca e per l’impossibilità di assicurare un ordinato e continuo ricambio generazionale (in parte questo tema è trattato nel Rapporto nel capitolo della mobilità, di fatto l’esodo, dei nostri laureati).
Sulla vexata quaestio del rapporto tra istruzione e mercato del lavoro il Rapporto pronuncia una parola definitiva sul dibattito di qualche tempo fa (https://www.roars.it/w-lignioranza-breve-antologia-dei-maitre-a-penser-de-noantri/) in cui qualcuno sosteneva che in Italia non abbiamo bisogno di personale altamente qualificato. Si legge infatti: “Come è ampiamente documentato nel Rapporto, il titolo di studio continua a costituire sul mercato del lavoro un vantaggio notevole: nel 2014 il tasso di disoccupazione dei laureati è all’8 per cento, quasi nove punti in meno rispetto a quello di chi possiede la licenza media. Il divario sale a 18 punti per il tasso di mancata partecipazione al mercato del lavoro (13 per cento dei laureati, 31 per cento per i meno istruiti). Tra i laureati il tasso di occupazione si attesta nel 2014 al 75 per cento (a fronte del 63 per cento tra i diplomati e al 42 per cento tra i meno istruiti).” E più avanti: “Anche i dati sui dottori di ricerca confermano che l’investimento in alta formazione assicura retribuzioni più elevate e maggiore soddisfazione professionale. A quattro anni dal conseguimento del titolo nove dottori di ricerca su dieci sono occupati; l’85 per cento svolge una professione di tipo intellettuale, scientifico o di elevata specializzazione.” I dati illustrano un fenomeno ben conosciuto. Il numero di dottori di ricerca che vanno all’estero è in crescita: dal 7 per cento per le coorti di conseguimento del titolo 2004 e 2006 al 13 per cento per le coorti 2008 e 2010. I paesi di emigrazione sono, in ordine decrescente, Regno Unito e Stati Uniti (16 per cento), Francia (14 per cento), Germania (11 per cento), Svizzera (9 per cento). Il rovescio della medaglia, una sorta di premio di consolazione, è costituito dal fatto che tale mobilità “mostra il successo di una buona formazione ottenuta presso le nostre università” anche se vengono opportunamente sottolineati gli aspetti della non reciprocità e della scarsa attrattività per gli studenti stranieri.
Il Rapporto non poteva non evidenziare, ancora una volta e con forza, il problema del Mezzogiorno. I dati dimostrano che il divario tra Nord e Sud si è ulteriormente allargato ed “appaiono opportuni tre tipi di investimenti: oltre a quello in capitale fisico, quello nel capitale sociale (cioè nella fiducia reciproca dei cittadini e degli operatori economici) e quello in un’amministrazione ‘responsabile’ e capace di politiche verificabili nei loro risultati.”
[…] E’ appena stato presentato in parlamento il “Rapporto Annuale 2015” dell’ISTAT. Prima di commentarne il contenuto, appare opportuno considerare il Rapporto nel contesto scientifico, istituzionale e culturale in cui si colloca….Nel Rapporto si legge che “Le imprese italiane mostrano una modesta propensione all’investimento in ricerca e sviluppo (lo 0,7 per cento del Pil a fronte di una media Ue dell’1,3 per cento), ma si collocano sopra la media europea in termini di propensione all’innovazione, più aderente alle caratteristiche delle nostre imprese (42 per cento di innovatrici rispetto a 36 per l’Ue). Ciò si traduce in un numero di registrazioni di marchi e di prodotti di design industriale tra i più elevati al mondo. L’intensità brevettuale del paese è inferiore a quella media europea (circa 75 brevetti per milione di abitanti contro 111 per l’Ue). Tuttavia il rapporto tra numero di brevetti e spesa per R&S è tra i più alto dell’Ue.” […]