Pur avendo pochi laureati, siamo l’unico paese avanzato che ne è esportatore netto. Viene proposta l’immagine di un’università che assorbe troppe risorse, ma la realtà dei numeri è ben diversa. Per esempio, la spesa cumulativa per studente è ampiamente inferiore alla media OCSE. L’idea non dichiarata è che ci dobbiamo accontentare di un prodotto di qualità inferiore e di una collocazione diversa nei mercati internazionali?
Il noto ritardo nella scolarizzazione della popolazione italiana si riflette fedelmente nella struttura dell’occupazione per titolo di studio: i dati disaggregati restituiscono un quadro preoccupante perché il deficit di laureati non si accompagna alla presenza tra gli occupati italiani di una quota più elevata di diplomati bensì di lavoratori in possesso della licenza media o di titolo di studio inferiore (35,8% per l’Italia contro il 13,5% della Germania e una media EU27 del 22%; tabella 1).
Il ritardo nei livelli di scolarizzazione degli occupati riguarda indistintamente il settore privato e quello pubblico, con una maggiore incidenza sul primo, e si riflette significativamente sui livelli di istruzione della classe manageriale e dirigente italiana (legislatori, dirigenti, imprenditori). I dati Eurostat segnalano, ad esempio, che nel 2010 il 37% degli occupati italiani classificati come managers possedeva solamente la scuola dell’obbligo o un titolo inferiore, contro il 19% della media europea a 15 paesi e il 7% della Germania, paese col quale si è soliti fare i confronti perché caratterizzato da un peso del settore manifatturiero simile al nostro. Questa caratterizzazione dell’occupazione, unitamente ad altri tratti tipici della morfologia del tessuto imprenditoriale italiano (Bugamelli e altri 2011), ha importanti ripercussioni negative sia sulla domanda di capitale umano espressa dal sistema produttivo sia sulla sua capacità di valorizzarlo. Ad esempio, Torrini e Schivardi stimano che, a parità di dimensione dell’impresa e settore di attività, un imprenditore laureato assume il triplo dei laureati rispetto ad uno non laureato (Torrini e Schivardi, 2011). Faini e Sapir (2005) hanno ben evidenziato i connotati della trappola in cui ci troviamo a causa di questa caratterizzazione: il dibattito sulla riforma dell’università, basato sulla presunta scarsa appetibilità dei laureati, è viziato dal mancato riconoscimento di questo aspetto centrale. Vi sono diversi indizi che confermano la bontà di questa tesi: ad esempio, pur avendo pochi laureati, siamo l’unico paese avanzato che ne è esportatore netto. La Germania, in particolare, sembra apprezzare molto i nostri ingegneri. In mancanza di serie politiche industriale volte a riqualificare il tessuto imprenditoriale, ad esempio, favorendo l’imprenditorialità dei laureati, il miglioramento nella qualità dell’offerta di laureati avrà scarsi effetti sul sistema, almeno nel medio periodo. Con ciò, evidentemente, non si vuole sostenere che non sia opportuno migliorare la qualità del sistema universitario. Tuttavia, vista la desolante realtà del nostro sistema produttivo, appare piuttosto improbabile che questo miglioramento si possa ottenere riducendo il budget sino ad ora messo in campo.
Il presupposto di questa associazione, che viene proposta anche da diversi osservatori con ruolo di “tecnici”, è che l’università assorbe troppe risorse, frutto di sprechi, almeno nelle stessa misura degli altri settori di spesa.
La realtà dei numeri è ben diversa. La spesa cumulativa per ogni studente italiano che consegue il titolo, tenuto conto del tempo effettivamente impiegato e prima dei tagli intervenuti dal 2009 in poi, è stata nel 2009 di 43.210 dollari (OECD, 2012). Questa misura, a parità di potere d’acquisto, ci restituisce un posizionamento nella classifica internazionale apparentemente virtuoso. Siamo sotto del 37% rispetto alla media OCSE e del 50% rispetto a quella europea a 21 paesi. La Germania spende ben il 63% in più e la Spagna il 46%. Inoltre, per quanto riguarda l’andamento della spesa, il tasso di crescita del costo cumulato per studente nel periodo 2000-2008, è risultato in Italia pari all’8% contro una media dei paesi OCSE del 14% e dei paesi EU19 di ben il 19%.
Figura 1. La spesa in dollari per laureato a PPA (2009). Fonte: OECD, Education at a Glance, 2012
Evidentemente questo posizionamento non implica che non vi siano anche sprechi e distorsioni nella gestione delle università che andrebbero puntualmente affrontati con una logica diversa da quella dei tagli lineari. A questo proposito va però rilevato che il riferimento al peso eccessivo delle spese in conto corrente e, in particolare, di quella relativa al personale docente, non trova riscontro nei dati OCSE che mostrano che le prime in Italia hanno un’incidenza del 90,8% sulla spesa totale, inferiore alla media europea a 21 paesi (91%) e quella dei paesi OCSE (91,2%) e le seconde hanno un’incidenza sulla spesa in conto corrente del 35,9%, decisamente inferiore alla media europea a 21 paesi (42,7%) e a quella media dei paesi OCSE (41,6%). Il Regno Unito, spesso segnalato alle cronache come esempio virtuoso, presenta un’incidenza rispettivamente del 94,9% e del 43,1% (OECD, 2012).
Il punto è che la spesa universitaria è un’area di intervento prioritario nel senso opposto rispetto a quello comunemente inteso. I fabbisogni di risorse per la didattica e la ricerca vanno misurati, a parità di qualità del prodotto che si intende realizzare, rispetto a standard internazionali. Se si vogliono produrre autoveicoli in grado di competere sui mercati internazionali con le BMW o le AUDI non si può pensare di realizzarli spendendo la metà dei tedeschi o con meno della metà di quanto spendono gli svedesi! Forse l’idea non dichiarata è che ci dobbiamo accontentare di un prodotto di qualità inferiore e di una collocazione diversa nei mercati internazionali. E’ una scelta del tutto legittima ma occorre esplicitarla sapendo che si tratta di una opzione che manterrebbe il nostro paese su una traiettoria non sostenibile all’interno della divisione internazionale del lavoro.
La questione delle risorse si collega a quella della valutazione e della loro assegnazione su base meritocratica. L’utilizzo di sistemi di valutazione e di criteri premiali per curare l’università italiana è opportuno ma, così come li si vuole implementare, rischia di rendere impossibile la sopravvivenza di diverse università. Con i numeri prima evidenziati (spendiamo in media meno del 50% della media europea), è evidente che pensare di utilizzare metodi premiali e criteri di eccellenza, a parità di budget, significa ridurre sotto la soglia della sopravvivenza le risorse destinate ad una quota significativa del sistema universitario. Questo dipende anche dal fatto che, per diversi motivi più o meno legittimi che non è possibili qui discutere, la distribuzione del FFO è attualmente fortemente sperequata (si veda la figura 2). Le differenze sono di tale ampiezza da risultare difficilmente razionalizzabili in termini di variabilità dei fabbisogni. Quindi, la vera priorità è quella di aumentare e perequare le risorse sino a raggiungere uno standard ragionevole, su basi internazionali, per tutti gli atenei. L’obiettivo perequativo, ancorato all’idea del costo standard introdotto dal dlgs 49/2012, dovrebbe essere implementato, all’interno dei singoli atenei, anche nella distribuzione dei fondi tra i diversi dipartimenti.
Criteri meritocratici basati sulla valutazione dovrebbero essere adottati solo nella distribuzione delle risorse incrementali messe in campo rispetto ai fabbisogni standard del sistema. Peraltro, tenuto conto delle forti differenze di contesto che caratterizzano i territori italiani, differenze che condizionano sia la qualità del capitale umano che si immatricola nelle diverse sedi universitarie sia le opportunità occupazionali dei laureati, la valutazione delle università dovrebbe essere basata su indicatori di efficacia interna ed esterna calcolati a “parità di condizioni”, cioè sulla base del criterio del “valore aggiunto” così come indicato anche dal progetto Ahelo dell’OCSE. Per quanto riguarda gli indicatori di efficacia esterna (ad es. il tasso di occupazione, l’efficacia della laurea), la loro validità va attentamente considerata sulla base di quanto evidenziato nella prima parte di questo intervento.
Fig. 2. FFO per studente iscritto (2011).
M. Bugamelli, L. Cannari, F. Lotti e S. Magri (2012), Le radici del gap innovativo del sistema produttivo italiano: radici e possibili rimedi. Banca d’Italia, QEF, aprile.
R. Faini, e A. Sapir (2005) “Un Modello Obsoleto? Crescita e Specializzazione dell’Economia Italiana” in T. Boeri, R. Faini, A. Ichino, G. Pisauro and C. Scarpa (eds.), Oltre il Declino, Societa editrice Il Mulino, Bologna, 2005.
OECD, Education at a Glance, 2012.
F. Schivardi e R. Torrini (2011), Cambiamenti strutturali e capitale umano nel sistema produttivo italiano, QEF, Banca d’Italia.
Perché nella figura 2 non compaiono i politecnici di Milano e di Torino? Quali altre università mancano?
Temo che per motivi di spazio il programma di grafica usato per generare le figure abbia stampato solo i nomi di alcune università omettendone altre anche se sono riportate nel grafico.
Il formato ridotto ha comportato l’esclusione automatica di alcune etichette. Comunque, obiettivo principale dell’inclusione del grafico non era quello di discutere la posizione delle singole università ma evidenziare l’elevata sperequazione. Invierò la tabella alla redazione ad uso degli eventuali interessati.
Manca anche Milano Bicocca. Si potrebbe avere una tavola anziché una figura?
A Giuseppe De Nicolao. Una buona ragione per includere una tavola con le cifre dello FFO per studente, anziché una figura che, a questo punto dà molto poche informazioni. Sembra naturale, ad esempio, chiedersi se lo FFO per studente dei politecnici del nord è maggiore o minore di quello del politecnico di Bari. Ma la figura non consente di rispondere a questa domanda.
Il formato ridotto ha comportato l’esclusione automatica di alcune etichette. Comunque, obiettivo principale dell’inclusione del grafico non era quello di discutere la posizione delle singole università ma evidenziare l’elevata sperequazione. Invierò la tabella alla redazione ad uso degli eventuali interessati.