Tomaso Montanari riflette sul ruolo che la Buona Scuola assegna alla cultura umanistica. È appena arrivato alla Camera il decreto attuativo della Buona Scuola intitolato «sulla promozione della cultura umanistica, sulla valorizzazione del patrimonio e delle produzioni culturali e sul sostegno della creatività». Per la redazione di questo testo, la ministra si è avvalsa della collaborazione dell’ex ministro ed ex rettore Luigi Berlinguer. L’articolo 1 chiarisce i principi e le finalità: «… Per assicurare l’acquisizione delle competenze relative alla conoscenza del patrimonio culturale e del valore del Made in Italy, le istituzioni scolastiche sostengono lo sviluppo della creatività». Cultura umanistica, creatività e made in Italy (rigorosamente in inglese) sarebbero dunque sinonimi: per conoscere il patrimonio culturale, la Ferrari e il parmigiano (tutto sullo stesso piano), bisogna essere creativi. Formare gli italiani del futuro al marketing del ‘made in Italy’; indurli a coltivare la scrittura creativa e non la lettura critica di un testo; levar loro di mano i mezzi culturali per distinguere la verità dallo storytelling. La cultura umanistica è un’altra cosa: è la capacità di elaborare una critica del presente, di avere una visione del futuro e di forgiarsi gli strumenti per costruirlo. Siamo sicuri di non averne più bisogno?

Insieme agli altri decreti attuativi della cosiddetta Buona Scuola, è appena arrivato alla Camera anche quello «sulla promozione della cultura umanistica, sulla valorizzazione del patrimonio e delle produzioni culturali e sul sostegno della creatività».

Per la redazione di questo testo, la ministra senza laurea né maturità Valeria Fedeli si è avvalsa della collaborazione dell’ex ministro, ex rettore, professore emerito e plurilaureato ad honorem Luigi Berlinguer: e il risultato dimostra che il punto critico non è il possesso di un titolo di studio.

Sul piano pratico, la principale obiezione al decreto (che tra 60 giorni sarà legge) è che si tratta di un provvedimento a costo zero (art. 17, comma 1): e dunque anche a  probabile efficacia zero. Ma, una volta che se ne considerino i contenuti, c’è da rallegrarsene.

L’articolo 1 chiarisce i principi e le finalità del provvedimento: «Il sapere artistico è garantito agli alunni e agli studenti come espressione della cultura umanistica … Per assicurare l’acquisizione delle competenze relative alla conoscenza del patrimonio culturale e del valore del Made in Italy, le istituzioni scolastiche sostengono lo sviluppo della creatività».

Cultura umanistica, creatività e made in Italy (rigorosamente in inglese) sarebbero dunque sinonimi: per conoscere il patrimonio culturale, la Ferrari e il parmigiano (tutto sullo stesso piano) bisogna essere creativi. Si stenterebbe a credere alla consacrazione scolastica di questo ‘modello Briatore’ se la relazione illustrativa del decreto non fosse ancora più chiara: «Occorre rafforzare … il fare arte, anche quale strumento di coesione e di aggregazione studentesca, che possa contribuire alla scoperta delle radici culturali italiane e del Made in Italy, e alla individuazione delle eccellenze già a partire dalla prima infanzia». Insomma: fin da bambini bisogna saper riconoscere (e, inevitabilmente, desiderare) una giacca di Armani o una Maserati. E visto che si raccomanda «la pratica della scrittura creativa», la via maestra sarebbe fare il copywriter per gli spot, o scrivere concept per reality show, per rimanere alla lingua elettiva del Miur.

Ora, anche ammesso che tra la nostra storia dell’arte e il ‘made in Italy’ esista un rapporto genetico, ciò non si traduce in un’equivalenza culturale, e tantomeno in un orizzonte formativo. E non è solo un problema di confusione concettuale: la domanda più urgente riguarda il tipo di società prefigurata da questa idea di scuola. Una società in cui non si riesca nemmeno più a distinguere la conoscenza critica dall’intrattenimento, l’essere cittadino dall’essere cliente, il valore delle persone e dei princìpi dal valore delle ‘eccellenze’ commerciali. Una società dello spettacolo a tempo pieno, un enorme reality popolato da ‘creativi’ prigionieri di un eterno presente, senza passato e senza futuro.

Già, perché la creatività ha preso il posto della storia dell’arte, che continua a non essere reintrodotta tra le materie curricolari da cui la Gelmini l’aveva espulsa in vari ordini di scuole.

Più in generale, l’identificazione tra cultura umanistica, creatività e mercato nega e soppianta la vera funzione della vera cultura umanistica: che è l’esercizio della critica, la ricerca della verità, la conoscenza della storia. «Il fine delle discipline umanistiche sembra essere qualcosa come la saggezza», scrisse Erwin Panofsky nel 1944. Negli stessi mesi Marc Bloch scriveva, nell’Apologia della storia: «nella nostra epoca, più che mai esposta alle tossine della menzogna e della falsa diceria, che vergogna che il metodo critico della storia non figuri sia pure nel più piccolo cantuccio dei programmi d’insegnamento!». Di fronte al nazismo e all’Olocausto la cultura umanistica sembrava ancora più necessaria: Bloch – fucilato dalla Gestapo perché membro della Resistenza – la definisce «una nuova via verso il vero e, perciò, verso il giusto».

È su questo fondamento che, nel dopoguerra, sono state ricostruite le democrazie europee. È per questo che la nostra Costituzione impone alla Repubblica di promuovere «lo sviluppo della cultura e la ricerca». La necessaria scommessa di un umanesimo di massa è infatti quella di riuscire a praticare tutti, anche se in dosi omeopatiche, le qualità della ricerca: precisione, desiderio di conoscere e diffondere la verità, onestà intellettuale, apertura mentale. Per secoli si è creduto, a ragione, che queste virtù non servissero solo a sapere più cose, ma anche a diventare più umani: e che dunque non servissero solo agli umanisti, ma a tutti. E oggi sono il presupposto necessario perché le democtrazie abbiano un futuro.

Essere umani – ha scritto David Foster Wallace nel 2005 – «richiede attenzione, consapevolezza, disciplina, impegno e la capacità di tenere davvero agli altri … Questa è la vera libertà. Questo è imparare a pensare. L’alternativa è l’inconsapevolezza, la modalità predefinita, la corsa sfrenata al successo». Formare gli italiani del futuro al marketing del ‘made in Italy’; indurli a coltivare la scrittura creativa e non la lettura critica di un testo; levar loro di mano i mezzi culturali per distinguere la verità dallo storytelling, o per smontare le bufale che galleggiano in internet; annegare la conoscenza storica in un mare di dolciastra retorica della bellezza: tutto questo significa scommettere proprio sull’inconsapevolezza, sulla modalità predefinita, sulla corsa sfrenata al successo.

La cultura umanistica è un’altra cosa: è la capacità di elaborare una critica del presente, di avere una visione del futuro e di forgiarsi gli strumenti per costruirlo. Siamo sicuri di non averne più bisogno?

(Pubblicato su Repubblica del 23 gennaio 2017)

 

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8 Commenti

  1. Grazie infinite per questo articolo. La situazione sempre più disastrosa del MIUR ci aveva ormai assuefatto a qualsiasi tipo di offesa al più banale concetto di intelligenza.
    Ci risiamo, con l’avvento dell’ennesimo nuovo ministro ricominciano le manfrine e le parole al vento, per di più lesive della nostra dignità. Ma soprattutto l’ennesimo decreto a costo zero, concetto sbandierato quasi a motivo di orgoglio, nel caso qualcuno si fosse dimenticato che chi controlla questa Nazione non intente spendere piú un Euro per Istruzione e Ricerca. Di fatto il MIUR è diventato un Ministero senza portafoglio, anche a dispetto dei millantati miliardi propagandati nel coloratidssimo e pubblicizzatissimo pdf del PNR 2015-2020. Miliardi per la maggior parte importati con strani giochi di prestigio da stanziamenti UE e messi non si sa come a bilancio, e di cui, comunque, ancora a oggi si è visto poco o niente. Questi “capolavori” di comunicazione dei nostri ingegnosi dirigenti ministeriali saranno pure in linea con il concetto di creatività Made in Italy, ma il tempo di lasciar passare tutto è finito. Grazie Tomaso Montanari.

  2. E’ chiaro e palese che la nostra “classe dirigente” (di cui già Leopardi lamentava la latitanza) si è rassegnata a rendere l’Italia il Messico dell’Europa: lavoretti in nero o affini, trasporti solo per ricchi, istruzione e sanità solo per ricchi, puro marketing di prodotti fatti a basso costo. C’è gente pagata 4€ a scarpa o 20€ al giorno per prodotti che costano più di 1000€ in negozio!

  3. Ottimo articolo.

    Però continuo a non capire la voglia di auto-esiliarsi in un supposto diverso “mondo della cultura umanista” da parte degli “umanisti”. È come se non riescano in modo naturale a sentirsi parte della unica cultura esistente, quella umana.

    PS L. Berlinguer non è quello che aveva eliminato gli esami di riparazione? Questo spiega molte cose, anche sulla nostra immaturata ministra.

    • Cultura “umanistica”, non “umanista”; è come se non “riuscissero”, non “riescano”. Un po’ di cultura umanistica servirebbe anche a te, sorrenti.

    • Caro precario74, è tutto vero ed il “riuscissero” è proprio tremendo. Sperando di non perseverare, mi consolo pensando che errare humanum. Ad maiora!

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