Si concludono oggi le prove Invalsi, fatto che merita una riflessione particolare e non rituale perché la necessità di riaprire una discussione pubblica sulla scuola italiana e più in generale sul sistema di istruzione e ricerca del nostro paese, sulle condizioni in cui versa e sugli obiettivi che dovrebbe avere rappresenta una priorità ineludibile. Non che manchi del tutto l’attenzione di alcuni grandi media, anzi negli ultimi mesi importanti quotidiani hanno dedicato editoriali redatti da firme blasonate, in particolare alla scuola, dopo essersi dedicati per alcuni anni prevalentemente all’università.
La cosiddetta buona scuola è in fase di avanzata attuazione. Ciò è andato di pari passo a una significativa torsione degli strumenti e delle finalità del sistema nazionale di valutazione, torsione oggi completata dalla delega sulla valutazione degli apprendimenti, una delle 8 della legge 107 che il Governo ha deciso di portare avanti. La valutazione non è un processo neutro, ha delle finalità politiche e in alcuni casi anche apertamente ideologiche. Oggi possiamo sostenere senza timore di smentita – e pronti a difendere in qualunque sede – le nostre affermazioni che le scelte operate in ordine al nostro sistema nazionale di valutazione sono tutte mirate a consolidare in modo strisciante ma costante una precisa idea (o ideologia): quella per la quale le istituzioni scolastiche per migliorare devono essere progressivamente immerse in un meccanismo di pseudo mercato che spingerebbe le famiglie (i consumatori) a scegliere l’offerta formativa migliore portando ad una competizione virtuosa tra strutture.
Il sistema di “quasi mercato” elaborato in particolare in Inghilterra nell’era thatcheriana, poi raffinato negli anni successivi, per i suoi sostenitori, oltre a produrre una competizione tra istituzioni che già in quanto tale sarebbe virtuosa, porterebbe un beneficio ulteriore e immediato per le famiglie (i consumatori nello schema mercatista) che consiste nella possibilità di scegliere la scuola dove mandare i propri figli individuando quella più in sintonia con le proprie attitudini, inclinazioni etc. Si innescherebbe un processo complessivo di miglioramento a livello di sistema, in quanto si potrebbero premiare le scuole “migliori” che riescono ad attrarre un maggior numero di utenti e a costringere quelle più in difficoltà a migliorare, oppure nella versione più radicale a giustificarne la chiusura. Anche nel nostro paese secondo alcuni la competizione fra scuole dovrebbe contribuire a risolvere le criticità emerse dalle indagini nazionali e internazionali sui livelli di apprendimento raggiunti dagli studenti, incentivando il miglioramento delle istituzioni scolastiche in termini di efficacia e di efficienza.
Da qui la centralità delle informazioni che le famiglie possono ricevere per effettuare la scelta. In particolare quella sui livelli delle conoscenze e competenze ottenuti dagli studenti che frequentano quelle scuole. Nel modellino tutto funziona. Nella realtà no. Nella realtà, come dimostra ciò che è accaduto e sta accadendo nei paesi dove questa idea di scuola si è sperimentata, chi si trova nelle condizioni di operare la scelta sono i figli delle famiglie più istruite e spesso relativamente più agiate, con l’effetto più che di favorire una competizione virtuosa, di produrre un vero e proprio rischio di segregazione. Nelle scuole dei quartieri più difficili e nelle zone più disagiate si concentrano i figli di chi per ragioni culturali ed economiche non è nelle condizioni di orientare la scelta.
Del resto lo stesso John Major aveva denunciato come ogni sfera della leadership in UK sia diventata appannaggio delle classi sociali più agiate che possono mandare i loro figli a formarsi nelle scuole private. In sostanza nel paese dove il modello della school choice è stato pensato e realizzato nella forma più pura si registra un collasso della mobilità sociale. Nel paese dove le classi sociali non sono negate da nessuno, anche un vecchio conservatore come Major si ribella contro una scuola che favorisce il cristallizzarsi di una divisione censuale tra gli studenti che accedono ai gradi più elevati dell’istruzione e da ultimo ai posti di direzione politica ed economica del paese.
Da noi, invece, si è deciso di assumere tale fallimentare impostazione come riferimento culturale prevalente. Senza troppi giri di parole, possiamo sostenere che presso il Ministero dell’istruzione e presso i vertici dell’Invalsi si sia insediata da alcuni anni una dirigenza che punta a realizzare, in ultima istanza, più o meno consapevolmente, il modello della school choice e tende ad orientare progressivamente il sistema di valutazione in questa direzione. Sia ben chiaro non si tratta di un delitto ma semplicemente di una scelta politica profondamente sbagliata, iniqua e regressiva. La delega sulla valutazione degli apprendimenti rappresenta un passo ulteriore in questa direzione, che si sostanzia nell’utilizzo non solo delle prove ma dell’Invalsi nel suo complesso più che come un ente di ricerca capace di fornire indicazioni al decisore politico su cui poi effettuare scelte di sistema, come uno strumento di classificazione delle scuole, degli studenti e in prospettiva degli insegnanti.
Ancor prima della delega è emblematica la sorte del rapporto di autovalutazione. Le scuole avrebbero dovuto fare un uso del Rapporto di Autovalutazione (RAV) di tipo diagnostico, per individuare obiettivi e priorità d’azione: utilizzarlo come punto di partenza per definire un piano di miglioramento. Quindi farne un uso solo interno. Invece, com’è noto, è diventato uno strumento di “rendicontazione” come si chiama in gergo. Infatti, attraverso il portale Scuola in Chiaro è possibile, con una ricerca per nome, accedere a molte informazioni su una scuola specifica, oltre a leggere il RAV e gli indicatori a esso connessi. Tale scelta che va nella direzione dell’utilizzo all’esterno di queste informazioni non ha molti eguali. Infatti solo in Romania – oltre che in Italia – è stata recentemente predisposta una piattaforma elettronica centralizzata dove caricare i Rapporti di Valutazione interna. La Romania appunto, un noto faro per le politiche dell’ istruzione.
Con la delega sulla valutazione degli apprendimenti questo processo prosegue. Ruolo, funzione e responsabilità dei docenti in tema di valutazione degli studenti sono pesantemente ridimensionati. Se è vero che le prove standardizzate non farebbero più parte degli esami di stato al termine del primo ciclo, d’altro canto si prevede: la loro obbligatorietà per l’ammissione agli esami di stato al termine del primo e secondo ciclo; la presenza di una specifica certificazione di competenze al termine del primo ciclo; la presenza all’interno del curriculum dello studente, allegato al diploma di maturità, di una specifica sezione nel quale sono indicati i livelli di apprendimento conseguiti in tali prove; la previsione che le Università possano tenere a riferimento per l’accesso ai percorsi accademici, non i risultati degli esami di stato ma i livelli di competenza conseguiti nelle discipline oggetto delle prove. In sostanza le prove Invalsi non sarebbero più utilizzate per avere un quadro dell’andamento degli apprendimenti nel Paese ma avrebbero un valore certificativo.
Inserire la certificazione individuale degli esiti delle prove rappresenta una valutazione sommativa, come illustra il decreto sulla valutazione nella versione a noi sottoposta (ricordiamo che ancora non si hanno i testi definitivi) che ne snatura la funzione essendo nate esse stesse in primis come uno strumento a “supporto” dell’autovalutazione. Ciò in linea con le più recenti indicazioni di ricerca internazionali e con i profondi cambiamenti che stanno attraversando anche i paesi anglosassoni in merito alle finalità dell’utilizzo dei test. Le prove attualmente elaborate sono infatti pensate per la valutazione del sistema e per il supporto ai percorsi autovalutativi delle scuole. Si tratta di previsioni inaccettabili poiché non solo attraverso un’operazione scientificamente discutibile forzano la stessa funzione delle prove ma rischiano di delegittimare il ruolo dei docenti implicitamente sottraendo loro una funzione fondamentale cioè quella di valutare con una lesione della stessa professionalità.
Inoltre le previsioni del decreto legislativo tendono chiaramente a forzare ulteriormente l’autovalutazione delle istituzioni scolastiche, che dovrebbe invece essere uno strumento di riflessione interna, volto alla comprensione dei propri punti di forza e di debolezza, utile per stabilire priorità e azioni per migliorare, verso un unico indicatore, le prove. Conseguenza inevitabile dell’utilizzo pervasivo e discrezionale dei risultati delle prove standardizzate sarà, appunto, la torsione del sistema di valutazione verso una deriva classificatoria. Graduatorie tra scuole e/o singoli docenti sono dietro l’angolo. Si introduce anche da questo versante, coerentemente con l’idea di scuola della legge 107/15 e dietro il paravento della trasparenza e della qualità del servizio, una conflittualità all’interno e all’esterno delle istituzioni scolastiche totalmente insensata.
Su questo punto le indicazioni nazionali per il primo ciclo forniscono invece preziosi suggerimenti: “L’Istituto nazionale di valutazione rileva e misura gli apprendimenti con riferimento ai traguardi e agli obiettivi previsti dalle indicazioni, promuovendo, altresì, una cultura della valutazione che scoraggi qualunque forma di addestramento finalizzata all’esclusivo superamento delle prove”. Esattamente il contrario dei messaggi veicolati dalla proposta normativa.
Questo modello mercatista tipicamente neoliberale non è un portato naturale della valutazione di sistema e del resto non è certamente quello che ispirava il Sistema Nazionale di Valutazione (regolato dal DPR 80) che, in linea con le più avanzate ricerche del settore, prevede il recupero del significato orientativo e formativo della valutazione, in direzione di individuare linee di miglioramento della scuola, escludendo in tal modo ipotesi punitive e/o classificatorie. Al contrario avanziamo precise proposte su come ripensare il sistema nazionale di valutazione e, soprattutto, riteniamo prioritario fermare la deriva del percorso che sta portando l’Invalsi a diventare un “testificio”, orientandone, piuttosto, la mission verso la ricerca e la messa in campo di processi e pratiche valutative, in un quadro di collaborazione proficua con le istituzioni del sistema educativo nazionale, inaugurando un dibattito sia con la comunità scientifica interna dell’INVALSI sia con le comunità scientifiche che afferiscono al settore dell’education – settore pluridisciplinare per eccellenza – sui temi sopra descritti.
Già da anni siamo consapevoli delle profonde differenze nelle prestazioni degli studenti italiani in relazione alle scuole che frequentano con crescenti divari che si registrano all’interno delle realtà urbane e tra diverse zone del paese. Dobbiamo tornare a porci una domanda di fondo, la stessa che si poneva ormai cinquanta anni fa la pedagogia democratica. Ossia se sia proprio vero che i figli della povera gente siano più stupidi di quelli dei signori, come i risultati scolastici facevano pensare. Da quella domanda nacque l’esperienza di Barbiana e di don Milani della cui scomparsa ricorre quest’anno il cinquantenario, dei tanti doposcuola popolari che anticiparono il ’68, e delle prime esperienze di tempo pieno a Torino, dove i figli degli operai immigrati venivano sistematicamente bocciati alle elementari.
Quella rivoluzionaria idea di scuola democratica si scontrava con la meritocrazia tradizionale e proponeva percorsi educativi che di quei ragazzi e di quelle ragazze valorizzavano anche le esperienze di vita “perché se il sapere è solo quello dei libri, chi ha tanti libri a casa sarà sempre più avanti di chi i libri non li ha mai visti”. Anche oggi chi ha tanti libri in casa è quello che potrà sempre scegliere la scuola migliore sulla base delle informazioni che riceve, dalla “rendicontazione” dei risultati dei test e delle diverse forme di valutazione. Il punto non è quello di consentire una scelta informata ma come si fa ripartire anche nel nostro paese quella mobilità sociale che da tempo è in crisi, come si costruiscono le condizioni per far sì che la scuola sia uno strumento di contenimento delle disuguaglianze e non un moltiplicatore.
Le presunte ragioni “meritocratiche” che hanno coperto ideologicamente gli interventi sulla scuola degli ultimi anni dai tagli della Gelmini al primitivismo della chiamata diretta, del bonus docenti e di tutto il managerialismo straccione della legge 107, compreso l’assurdo sistema di valutazione dei dirigenti scolastici che funge da strumento di pressione per introdurre una competizione interne alle scuole e tra le scuole producono l’effetto opposto. Alimentano le disuguaglianze costruendo una scuola che specchiandole nei fatti le moltiplica.
Si può imputare alla scuola tutto ciò? No. La riduzione della mobilità sociale evidente nel crollo dei passaggi tra scuola e università a Sud in particolare o dall’insuccesso formativo di precise corti di studenti non può essere imputato al fallimento della scuola, ma alle politiche sull’istruzione che hanno scaricato sulle autonomie responsabilità e missioni impossibili anche perché carenti di investimenti, prima ancora dei tagli. L’impoverimento di larghi strati della popolazione, l’aumento dei divari territoriali è il frutto della mancanza di un progetto per il paese.
La mobilitazione degli studenti in tante città di oggi e le assemblee che si sono tenute in questi giorni nelle scuole promosse dal sindacato con al centro tra gli altri temi proprio quello della valutazione e della sua deriva ideologica, rappresentano non solo una scelta legittima degli studenti e del personale che ha deciso di prendervi parte, ma ci auguriamo la base di partenza di una nuova e vasta mobilitazione per rilanciare in questo paese le vere priorità della scuola pubblica certamente molto lontane da un modello di scuola pensato per aderire alle disuguaglianze esistenti piuttosto che per combatterle.
Quanto di delittuoso è stato perpetrato trova la sua summa, consumazione e distruzione, nella cosiddetta buona scuola, mostruosa macchina generatrice di ignoranza e pseudo lavoricchi per minorenni.
Non passa giorno che soggetti ministeriali, digitali e confindustriali proclamino le loro mirabolanti ricette per un nuovo sapere, in realtà decostruzione ed eradicazione dell’individuo da quanto di bello, buono, ragionativo e serio è stato accumulato in millenni di esperienza didattica.
Ciò sino allo sfregio orwelliano dello ‘studiare meno è meglio’ e ‘togliere ore nelle aule significa affrontare le sfide del mondo che cambia’.
Odiano ovviamente l’istruzione classica e la vogliono ridurre a barzelletta.
Esiste un’opposizione che deve essere proclamata e ribadita a livelli ufficiali ed esiste un’opposizione fattuale, che si svolge ogni giorno nelle aule attraverso le persone, docenti e allievi.
Bisogna essere molto caparbi in questo momento storico, finché, magari, torneremo a rapportarci con qualcuno che non vuole gettare l’istruzione e il cervello dei ragazzi nel fango.
Andrebbe fatta un’attenta disamina delle scempiaggini proposte nei test. Ad es. il quesito sulla bilancia che pesa una lastra di alluminio e porta a risultati diversi è così assurdo che lo studente dovrebbe cancellare tutte le soluzioni proposte e scrivere LA BILANCIA è ROTTA! Ancora in un Liceo Musicale non si propongono problemi sui treni che percorrono diverse distanze. La geografia e in particolare la distanza tra le città non viene più insegnata (male). Perché mai uno studente debba sapere cosa sia un contratto editoriale “a partecipazione” è misterioso (che poi debba saper calcolare le percentuali è doveroso). Le domande sono scritte male in una lingua ingannevole. Questi test sono stati cancellati in Australia e qui vi illustro come http://jmp.sh/u7RvAzH il punto è che in Australia e in Tasmania hanno scoperto che ogni docente deve insegnare a ragionare; per questo i test sono inutili.
Dalla mia esperienza di insegnante di una scuola media’difficile’ non posso che confermare come ormai da tanti anni la mobilità sociale si sia arrestata e come la scuola non sia più un ambiente e un’istituzione in grado di attenuare le disuguaglianze, bensì di potenziarle. Il discorso, tuttavia, parte da lontano, come ben insegna Chomsky, il quale tra le 10 regole per il controllo sociale, individua la gradualità di imposizione di misure inaccettabili. Bisognerebbe, infatti, avere l’onestà di riconoscere che le prove INVALSI costituiscono l’ingranaggio finale di un sistema perverso avviato con i vari provvedimenti che dal 1993 al 1998 si sono susseguiti per definire l’autonomia scolastica. La tanto agognata ricerca di autonomia organizzativa (ovvero quella che in vent’anni non è stata mai pienamente realizzata)nascondeva, in realtà, una trappola ben più subdola: l’autonomia finanziaria. A chi criticava allora quei disegni legislativi(presto tradottisi in leggi) apparivano chiare le conseguenze: nel momento in cui veniva abolita l’obbligatorietà dei bacini di utenza, con la tendenza da parte delle famiglie della piccola e media borghesia a spostare i propri figli verso le scuole del centro città, dove si concentravano i rampolli benestanti, chi avrebbe mai investito sulle scuole di periferia? È facile portare degli esempi concreti: a fronte di un sottofinanziamento da parte del Ministero ormai strutturale (sono anni che i fondi per l’offerta formativa subiscono drastiche riduzioni), gli istituti sono sempre più obbligati a chiedere ‘erogazioni liberali’ opzionali (ma obbligatorie). Sicuramente una scuola del centro città oppure una scuola la cui utenza appartenga alle fasce agiate della popolazione non avrà difficoltà ad integrare il proprio bilancio con cospicue donazioni da parte delle famiglie, a differenza delle cosiddette scuole di frontiera. Negli anni la distinzione socio-economica ha conosciuto un aggravante nella contrapposizione etnica: le scuole di periferia accolgono famiglie svantaggiate, la maggior parte delle quali di origini non italiane. Ed è su questa composizione multietinica e sugli sforzi portati avanti da un’educazione democratica, fondata sull’inclusione, che le prove INVALSI si sono abbattutte confermando tutti gli stereotipi e condannando defnitivamente alcune scuole ad un’esistenza da ghetto. Per quanti sforzi si possano compiere in termini di educazione linguistica interculturale, è apparso sin da subito chiaro ai docenti di determinate realtà che le prove INVALSI di italiano avrebbero semplicemente stigmatizzato i livelli di apprendimento di alunni con cittadinanza non italiana (dieci anni fa, anno di introduzione ufficiale delle prove all’interno degli esami di licenza, in maggioranza neo arrivati). I percorsi individuali di apprendimento linguistico e di raggiungimento di determinati obiettivi non potranno mai essere certificati da prove pensate per la fasce alte di allievi non solo italofoni, ma provenienti da famiglie di medio-alto livello culturale (livello spesso rinviante ad un equivalente livello economico). Nonostante i fondi e i finanziamenti incamerati dall’INVALSI in tutti questi anni, non è mai stata ipotizzata una prova di accertamento linguistico differenziata, basata sui livelli di apprendimento delle lingue seconde, secondo il QCER. Non credo alla validità di questi strumenti per una serie di ragioni che non è possibile qui sviscerare, ma se proprio bisognava cedere all’ansia della standardizzazione e dell’omologazione e se si voleva davvero fornire alle scuole strumenti utili all’autovalutazione positiva, forse le illustri menti che disquisicono di valutazione all’interno dell’Istituto Nazionale di Valutazione avrebbero potuto elaborare modelli differenti e decisamente meno imperniati su una logica aziendalistica, con il discutibile correlato classificatorio che questa implica.
grazie molto interessante !
Grazie per la testimonianza. Bisogna anche avere il coraggio di ammettere che la sinistra, anziché contrastare la deriva e opporsi a questo selvaggio impoverimento culturale e selezione sociale, ha sempre salutato con una certa furbetta compiacenza ogni forma di livellamento verso il basso e annientamento dei valori storico-linguistici proposti dalla scuola italiana.
Non mi limiterei a Chomsky (un po’ furbetto pure lui), rileggerei il VII libro della Repubblica di Platone: il mito della caverna dice già molte cose sul modo di somministrare le conoscenze alle masse.
Non ho volutamente menzionato schieramenti politici, poiché ritengo che la massima di Chomsky ben si addica al lungo processo di riforma della scuola avviata dalla famosa legge Berlinguer, tanto avversata e contestata al punto che per la sua effettiva realizzazione sono state necessarie quattro microriforme (Moratti, Fioroni, Gelmini, Giannini) secondo lo schema dell’imposizione graduale. Sul livellamento verso il basso bisognerebbe aprire una riflessione a tutto campo, dal momento che la riforma Berlinguer, ovvero la madre di tutte le riforme, conteneva già un impianto psico-pedgogico-didattico molto discutibile. D’altronde bisognerebbe capire se complice di questo livellamento siano state le sole forze di sinistra o non già un’ideologia ben precisa che alligna pervicace tra i legislatori e gli esecutori del MIUR e che trova la propria legittimazione in tutti i protocolli europei sull’istruzione (da quello di Lisbona a quello di Bologna) dove attraverso la magica lente della “certificazione delle competenze” si procede allo smantellamento graduale e definitivo dei saperi disciplinari, puntando alla formazione di obbediente e supina forza lavoro. Leggendo i succitati documenti si comprende chiaramente quanto nocivo e letale nelle applicazioni pratiche sia il concetto di competenza ivi formulato. Anche in Francia la riforma del collège (2015-2016) ispirata ai medesimi principi ha sollevato non pochi dubbi, proteste e polemiche. Ma è passata.
” le scelte operate in ordine al nostro sistema nazionale di valutazione sono tutte mirate a consolidare in modo strisciante ma costante una precisa idea (o ideologia): quella per la quale le istituzioni scolastiche per migliorare devono essere progressivamente immerse in un meccanismo di pseudo mercato che spingerebbe le famiglie (i consumatori) a scegliere l’offerta formativa migliore portando ad una competizione virtuosa tra strutture. ”
SI applica qui esattamente lo stesso principio del ‘pattern matching’, di un’altra discussione su questo sito. Mi spiego meglio: l’Italia, a differenza ad esempio della Francia, non ha uno Stato ‘forte’, nel senso che i funzionari dello Stato non hanno autonomia, prestigio, potere paragonabile a quello della classe imprenditoriale. In Francia la classe dominante è quella solita, rappresentata dal sistema delle imprese e delle banche. A fianco di questa classe dominante si erge uno Stato che con tutti i suoi dirigenti funzionari militari etc forma un’altra classe dominante, non in opposizione alla prima, ma autonoma. In Italia manca
al giorno d’oggi questa seconda classe, e la classe rappresentata da confindustria domina intellettualmente, ideologicamente, e soprattutto economicamente la classe politica. Tutte le ‘leggi’ scritte da questa pseudo classe politica grondano da ogni poro del liquame ideologico dei loro padroni. La confindustria non sceglie come propri burattini persone con un livello mentale tale da poter mettere in discussione i loro principi, sceglie fedeli esecutori di ordini, che non devono pensare, devono solo obbedire, e applicare la regola del ‘pattern matching’ cioè fare leggi che mimano sempre lo stesso pattern ben riconoscibile, che è il seguente: il profitto aziendale è il misuratore unico universale del merito.
Non riesco a capire se dobbiamo subire inesorabilmente o qualche rinnovamento di forze politiche riuscirà a interrompere il degrado maligno a cui sono state sottoposte scuola o ricerca negli ultimi decenni. Bisognerebbe cercare interlocutori non compromessi, ragionevoli e con idee coraggiose. Direi che ne ha urgentemente bisogno tutta l’Europa.